«La politica dei filosofi è quella che nessuno fa».[1] Con queste parole Merleau-Ponty conclude la prima densa sezione della Prefazione di Segni. In un’intervista concessa a Jean-Paul Weber uscita nel dicembre del 1960 sul quotidiano Le Monde, il pensatore rilascia alcune concise ma significative dichiarazioni sul rapporto, che secondo lui, dovrebbe sussistere tra filosofia e politica:
la filosofia e la politica sono solidali. Così, io sono, come filosofo, contro le idee vuote, contro gli oggetti puramente ideali. E anche contro una materia che non è altro che mera cosa. Allo stesso modo in politica detesto il liberalismo verbale senza relazione con la realtà umana, concreta. E sono contro il terrore, che trasforma l’uomo in oggetto.[2]
È qui disegnata, rappresentata come un chiasma a braccia asimmetriche, la dialettica tra due forme di discorso o forme di vita, prassi e teoria, tanto affini quanto risolutamente differenti. Tra l’engagement di una vera ed efficace «politica costruttiva»,[3] e quella vita filosofica[4] che aspira a essere «pensiero impegnato», «regna – parafrasando Heidegger – una parentela profondamente appartata», perché ambedue sono al servizio di una fede e per essa si prodigano; «eppure un abisso profondo le separa, perché “dimorano sui monti più separati”».
Verso valle, tra queste due cime, troviamo il paesaggio tratteggiato da Paolo Missiroli nella sua monografia Abitare. Teoria e possibilità di un concetto a partire da Maurice Merleau-Ponty (Mimesis, 2024). Sembra però fuori luogo una simile premessa rispetto alla volontà dell’autore di affermare e tornare a ribadire, dopo le precedenti due ricche monografie,[5] la necessità di “chiudere il gap”, di costruire un ponte che colleghi integralmente e senza discriminazioni la natura del geologo e quella del filosofo e del politico. L’obiettivo programmatico di Missiroli è quello di realizzare una riflessione concreta e militante capace non solo di mettere a fuoco la gravissima crisi ambientale che coglie impreparati il nostro presente e la nostra società, ma di offrire strumenti operativi per agire appropriatamente. La sfida di Missiroli, già complessa di per sé, è resa ancora più ostica dalla resistenza duplice e di un grande pubblico che non sente alcun bisogno della filosofia, e di un mondo accademico istituzionalizzato e burocratizzato, nel quale i margini di azione per studiosi e ricercatori sono sempre più risicati e ridotti, e nel quale l’iniziativa, quella verace, carnale e sanguigna, è costretta a sfumare ai bordi o a convertirsi alla moda del momento. L’ecologia appartiene al passato, oggi dominano mediologia e intelligenza artificiale. Come scrisse Pavese, «i problemi che agitano una generazione si estinguono per la generazione successiva non perché siano stati risolti, ma perché il disinteresse generale li abolisce»:[6] i fondi sono quelli che sono, le larghe intese ormai si patteggiano con i dipartimenti di fisica, robotica e di ingegneria.
Nel suo sforzo teorico Missiroli intraprende quindi la strada più difficile, quella di scrivere un libro di filosofia. Aggiungiamo anche che si tratta di un libro di filosofia che non fa sconti al lettore pigro, pretendendo da esso attenzione e una certa disciplinatezza; queste le condizioni per riuscire a cogliere e imboccare, con la propria sensibilità, una direzione nell’intreccio di tempi e nell’accavallarsi di spazi che si va sedimentando nel testo, un garbuglio che lascia filtrare luce attraverso piccole fessure comunque compromesse di senso. Cosa significa abitare il pianeta Terra nell’epoca geologica dell’Antropocene? Questa la domanda che guida sin dalle prime battute la trattazione di Missiroli, a cui si aggiunge una primissima (e provvisoria) definizione analitica dell’abitare: «avere contatti abitudinari, quotidiani con la realtà esterna».[7] Tra l’avere uno spazio (habeo latino) e l’esserne nostro malgrado semplici affittuari (wenh proto-indiano e wonen proto-germanico), l’autore preferisce la via neutra del greco oikein, diatesi media, attivo-passiva, del dimorare: pensare e praticare l’abitare è, filosoficamente, una questione di ontologia oikologica. Ed è altrettanto chiaro che, se le pratiche oikologiche concernono, come ben ricorda Arendt, i terrestri (earthbounds) nel loro stare assieme, un’ontologia siffatta non può che essere, da monte a valle, politica. Per questo Missiroli invita a un sano realismo, chiedendoci di sfondare il muro del simbolico e prendere l’Antropocene per quello che è, «un factum che impone una riattivazione delle nostre pratiche abitative e un’invenzione di ontologie differenti».[8]
Una simile visione performativa e plastica dell’essere e dell’abitare permette di rileggere con forse meno severità e maggiore comprensione la parabola geo-storica della modernità. In fondo quella di Descartes o di Kant era un’altra oikologia, una delle tante possibili, come quella che, a piccoli passi, Missiroli cerca di istituire nella sua monografia. Nessun destino dell’Essere, insomma, dietro lo spazio astratto, quantitativo, usabile della modernità, ma “porte girevoli”, cardini e cerniere che permettono e talvolta sbarrano la transizione. Rispetto a luoghi e paesaggi – che non hanno mai smesso di esistere, almeno per chi li vive e continua a vivere lasciando la traccia del suo passaggio –, spazi, siti e territori sono come il risvolto “oggettivo” ineliminabile. Per questa ragione, il testo di Missiroli non è solo un libro di filosofia, ma una libro di filosofia fenomenologica, dove l’invito al reale non è da intendere ingenuamente come rispecchiamento, bensì come costruzione-adeguazione. L’Essere, diceva infatti Merleau-Ponty, è «ciò che esige da noi creazione affinché ne abbiamo esperienza».[9]
La terza via indicata da Merleau-Ponty, tra l’Essere del meccanicismo e l’Essere del costruttivismo, era quella della Terra, l’Ur-arca husserliana. Qui è Chôra, «esistenza di una passività ineliminabile al fondo di ogni attività»,[10] sempre imminente e mai immanente, fondo immoto e condizione di possibilità del movimento, la quale viene superata e accolta, nell’analisi di Missiroli, da Gea, la «potenza del Sistema Terra» con la «sua capacità di performare azioni, di rendere gli umani esposti alla sua attività».[11] La Terra, insomma, si muove, non come il Globo di Galileo, ma come un attore nuovo comparso sulla scena, che «parla, colpisce, si nasconde, rimugina, si arrabbia».[12]
In questa lettura oikologica trovano spazio, o luogo, una molteplicità di prassi. Missiroli non misconosce il rilievo centrale del soggetto in un’ontologia geo-ecologica, ma esso viene disarticolato rispetto a un quadro strettamente umanistico e prometeico. Che si consideri, husserlianamente, l’ego umano come domino e padrone del corpo e della materia o, al modo di numerose narrazioni catastrofiste odierne, come virus infestante e parassitario, al centro del discorso troviamo sempre l’anthropos. Missiroli propone quindi un’ontologia e una corrispettiva antropologia s-centrate, dove non si sopravvaluta, ma nemmeno sottovaluta, il margine di possibilità delle decisioni umane. Nella «dialettica dell’espressione»[13] di Gea è rinvenuta «la possibilità di un diverso paradigma antropologico-filosofico»,[14] ossia un’antropologia dell’espressione, con la quale evitare una secolarizzata visione dell’uomo: «Dio mancato»[15] o “peccato originale”, nulla assolutamente libero o satanizzato. Citando e parafrasando Ricoeur, in base a una simile lettura manichea otterremmo «un falso sapere» del negativo «che blocca in una nozione inconsistente una categoria giuridica di debito e una categoria biologica di ereditarietà».[16]
L’ampia rilettura della filosofia di Merleau-Ponty, che occupa il primo dei due capitoli in cui è suddivisa la monografia, segue e approfondisce queste istanze; più precisamente, Missiroli offre un’interpretazione realistica (nel modo che prima abbiamo specificato) e dialettica della filosofia di Merleau-Ponty, discostandosi da un canone che ha visto avvicinare sempre più il filosofo francese al pensiero di Gilles Deleuze.[17] Al cuore della ricostruzione di Missiroli troviamo il nesso attività-passività colto nel turbine dell’iperdialettica. È possibile in questo modo controbattere ad alcune critiche che hanno visto la filosofia di Merleau-Ponty o come un radicale anti-soggettivismo,[18] oppure come una forma di sensualismo carnale[19] – tematizzazione ontologico-psicanalitico-esistenziale di un’infanzia troppo felice[20] – che avrebbe condotto il filosofo francese, nell’ultimo periodo della sua produzione, al disimpegno politico. Invece, Missiroli nota come per Merleau-Ponty gli umani siano condannati ad agire, dovendo prendere di volta in volta atto dell’incompiutezza costitutiva di ogni loro visione o teoria del mondo. Abitare, esprimere, istituire un reale che sfugge, a causa dell’incessante movimento della materia, alla presa del soggetto, significa affrontare di petto l’avversità, la quale «lungi dall’impedire l’azione, è al contrario ciò che la rende possibile. È proprio perché c’è avversità che il male e il bene sono contingenti e non sono né un destino né un processo invincibile a cui si tratterebbe di adattarsi passivamente».[21]
L’ultimo passo in compagnia di Merleau-Ponty è quello che ci conduce alla soglia dell’Abisso, o della Vita, che secondo Missiroli, è il nome del «movimento di incessante espressione creatrice di forme della Natura stessa».[22] L’umano, secondo questa visione morfologica, è altro dalla Natura pur restandone intimamente legato, un «vuoto che non è un nulla», un ente «attraversato dal negativo, come spazio di invisibilità collocato all’incrocio tra il soggetto e il suo mondo».[23] La dialettica tra Vita e Abisso, Chôra e Gea risulta inesauribile proprio in funzione di questo scarto originario che movimenta l’espressione plastica delle forme e dell’Essere: non c’è eliofilia che non sia risvoltata di sciafilia, non c’è qualcosa senza bordi frastagliati, opachi e fuori fuoco, insomma, «la realtà nella Natura non è quella di una positività in sé da cui si tratterebbe di trarre delle indicazioni definitive, bensì un orizzonte da cui l’essere umano, esprimendosi (dunque sfuggendo nell’appartenenza), si separa relativamente».[24]
Questo è vivere, tuttavia vivere non è propriamente abitare. L’esperienza terrestre non è ancora esperienza geografica. La declinazione della terrestrità offerta da Merleau-Ponty, riconosce Missiroli, non ci restituisce la texture delle varietà socio-storico-geo-culturali dell’abitare, ma solo la membrure invisibile che le rende possibili. Affinché il resoconto fenomenologico onto-estetico, nel linguaggio di Missiroli, oikologico, dell’abitare sia completo occorre approfondirne il versante antropologico espressivo. Il soggetto è infatti necessariamente diverso da ciò che gli si manifesta come altro da sé (lo spazio, il sito e il territorio), ma in continuità con esso (la Terra e la Vita): in una parola, l’umano si realizza in quanto sé stesso solo abitando un luogo e un paesaggio. Fenomenologicamente (e vedremo anche ermeneuticamente) parlando, Missiroli reinscrive così, attraverso un prisma materialistico e bio-logico, la correlazione noetico-noematica soggetto-spazio, sganciandola dallo spiritualismo – nel duplice senso dello Spirito oggettivo e dell’immaginario – caratterizzante la troppo ottimistica teleologia husserliana. In termini più elementari, il tentativo filosofico di Missiroli è quello di articolare sinergicamente una cosmologia e una antropologia, o ancora, un’ontologia generale e un’ontologia ristretta del sé, in un quadro dialettico, realista e materialista, così da abbracciare una visione etica, ma non moralista, relativa, ma non relativistica, del mondo, capace, infine, di prendere sul serio il negativo e l’avversità e garantire “costituzionalmente”[25] uno spazio legittimo all’agency umana nel Parlamento della Terra.
Nel secondo capitolo della monografia, Missiroli mappa alcuni dei più significativi territori filosofici relativi all’abitare, attraversando la fenomenologia, la bio-ermeneutica, l’antropologia (Dardel, Berque, Ingold) e assorbendo, come in un viaggio che vuole essere programmaticamente spaesante, nuovi usi e costumi, tecniche e metodologie, grazie ai quali complessificare la definizione di abitare che ha orientato la prima traversata nell’oceano merleaupontyano. L’Antropocene è un mare in tempesta che richiede sapienza, saggezza e quanti più strumenti interdisciplinari possibili per essere affrontato. Dardel ricorda che «il tellurico è spesso, nel corso della storia, l’alleato dell’uomo nel consolidamento della libertà»,[26] e che il nostro rapporto con la Terra è «non di annullamento ma di reciproca costruzione».[27] Analogamente, da Berque, passando attraverso la sua ecumene, acquisiamo che «in questa visione geografica l’uomo diviene esattamente dove è. Egli con-cresce con il suo luogo, dal quale non è in alcun modo separabile, senza il quale non è nemmeno pensabile come uomo»[28] e che «avere un rapporto concreto con il proprio luogo significa vivere in relazione inseparabile da esso e rendere la presenza umana (storica) in uno spazio inseparabile dalla definizione e dalla comprensione del luogo stesso».[29] Per questo motivo si è detto che l’analisi di Missiroli non è solo fenomenologica, ma ammette una non dichiarata torsione ermeneutica. Tim Ingold fornisce i mezzi per una significativa ricaratterizzazione dell’abitare: «abitare è prima di tutto un’attività legata al corpo proprio (l’incorporare) e non un’appartenenza originaria, mistica. […] abitare non significa trasformare, rimuovere, simbolizzare interamente o immaginare da capo uno spazio dato, ma riceverlo, trasformandolo entro un certo limite, nella propria attività quotidiana (rendendolo, cioè, un paesaggio)».[30] Missiroli sintetizza questi primi guadagni definendo l’abitare come «l’insieme delle attività concrete attraverso cui, nella Terra, attraverso i paesaggi, gli uomini costituiscono sé stessi rendendo le caratteristiche specifiche di un territorio interne alla loro vita».[31]
Un luogo e un paesaggio, quindi, non si vivono solo al presente, ma si ricordano, si progettano, si dimenticano persino. Abitare un luogo implica necessariamente che si abiti il tempo, il suo tempo proprio e un altro tempo. Ma quale, o, meglio quali nello specifico? La scoperta del deep time della Terra sembrerebbe confermare, anziché dissolvere la spaccatura tra storia e natura, aggiungendo, nel quadro ontologico moderno, una piccola, e per questo inessenziale, incrinatura a un in-sé naturale affatto scalfito nella sua rocciosa fissità. Il resoconto dello storico Dipesh Chakrabarty e l’intera discussione sull’Antropocene controrovesciano questa visione, tutto sommato rassicurante ed emancipante, della realtà naturale. Ancora una volta, solo riconoscendo una molteplicità stratificata di storie «riceviamo la consapevolezza del nostro essere già da sempre collocati su un piano di esistenza dotato di condizioni geologiche e biologiche assolutamente ineliminabili»,[32] mentre, «l’aggiungersi dell’agency dell’umanità alla serie di elementi che influenzano geologicamente il pianeta è il segno precipuo dell’inserimento dell’uomo in una Terra che è il suo orizzonte e il suo suolo e con la quale esso intrattiene una relazione che non può dominare».[33]
Missiroli individua nella teoria letteraria realista di Eric Auerbach e nella nozione di Mimesis – in cui è possibile riconoscere una discendenza hegeliano-dialettica –, la chiave di volta per tematizzare e replicare poieticamente all’aporia dei tempi. Sarà così possibile, secondo Missiroli, dare corpo a quella geologia trascendentale prefigurata da Merleau-Ponty e rimasta insabbiata a lungo sotto strati di carta e di inchiostro. È questa la traccia impressa sul sismografo dalla palpitazione, dal terremoto che ha sommerso un paesaggio filosofico-letterario che vive ombratilmente tra le linee (frecce o righe che siano). Un po’ come un mito, un po’ come una storia, ancora raccontiamo e tramandiamo le avventure di questo monumento incompiuto, ma di cui era già stata detta, di passaggio, la parola conclusiva: la reversibilità è «verità ultima».[34]
Della monografia di Missiroli, come dell’opera di Merleau-Ponty, la (non)conclusione spetta al lettore. Spetta soprattutto al lettore decidere, argomentando, obiettando, rispondendo o accogliendo la proposta fatta da Missiroli di un geo-comunismo, se quella politica dei filosofi che nessuno fa, può essere ora compiuta, se quella fede gioiosa, come si auspica l’autore, possa un giorno diventare legge.[35]
Articolo di Rosario Trimarchi
[1] M. Merleau-Ponty, Segni, tr. it. G. Alfieri, il Saggiatore, Milano 2015, p. 24.
[2] M. Merleau-Ponty, Parcours deux. 1951-1961, Verdier, Lagrasse 2000, p. 303.
[3] Cfr. ivi, p. 304.
[4] M. Merleau-Ponty, Elogio della filosofia, a cura di C. Sini, SE, Milano 2008.
[5] P. Missiroli, Teoria critica dell’Antropocene, Mimesis, Milano-Udine 2022; La filosofia del negativo
[6] C. Pavese, Il mestiere di vivere, Garzanti, Milano 2021, p. 353.
[7] Missiroli, Abitare, cit., p. 27.
[8] Ivi, p. 33.
[9] M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, tr. it. M. Carbone, Bompiani, Milano 2003, p. 233.
[10] Missiroli, Abitare, cit., p. 51.
[11] Ivi, p. 54.
[12] Ivi, p. 57.
[13] S. Mancini, Sempre di nuovo. Merleau-Ponty e la dialettica dell’espressione, Mimesis, Milano 2001, p. 292.
[14] Missiroli, Abitare, cit., p. 59.
[15] J.P. Sartre, L’essere e il nulla, tr. it. C. del Bo, il Saggiatore, Milano.
[16] P. Ricoeur, Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Milano 2020, p. 286.
[17] Si veda per esempio G. De Fazio, Avversità e margini di gioco. Studio sulla soggettività in Merleau-Ponty, Edizioni ETS, Pisa 2021.
[18] Cfr. P. Furia, Estetica e geografia, Mimesis, Milano-Udine 2020, p. 112-113.
[19] G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è filosofia?, Einaudi, Torino 1991, p. 185.
[20] Cfr. J.P. Sartre, Merleau-Ponty vivo,
[21] Missiroli, Abitare, cit. p. 101.
[22] Ivi, p. 114.
[23] Ibid.
[24] Ivi, p. 125.
[25] Cfr. B. Latour, Non siamo mai stati moderni,
[26] E. Dardel, L’uomo e la Terra. Natura della realtà geografica, Unicopoli, Milano 1986, p. 23, cit. in Missiroli, Abitare, cit., p. 130.
[27] Missiroli, Abitare, cit., p. 130.
[28] Ivi, p. 133.
[29] Ivi, p. 135.
[30] Ivi, p. 144.
[31] Ivi, p. 149.
[32] Ivi, p. 174.
[33] Ivi, p. 175.
[34] M. Merleau-Ponty, Il visibile e l’invisibile, cit., p.
[35] Missiroli, Abitare, cit. 211.