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Un’etica dell’immigrazione tra cosmopolitismo e politica

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Una necessità morale

Può esistere un’etica dell’immigrazione? Se esiste, sicuramente ha una finalità politica, perché le domande che sorgono sono intrinsecamente politiche. Confini aperti o confini chiusi? Diritto alla libera circolazione dell’individuo, o diritto di un popolo a vivere in una società stabile?

Concettualmente, il dibattito si può ridurre alla dialettica individuo-gruppi. Col primo, s’intende il migrante, che certamente non ha scelto di nascere nel Paese che vuole lasciare (anche solo momentaneamente); col secondo, un qualsiasi gruppo sociale, culturalmente connotato, che abita in una nazione geograficamente distinta dai propri confini.

Il sogno illuminista di una confederazione di popoli e di Stati dai confini laschi riecheggia in questo dibattito. Quando Immanuel Kant (1784/2015) sostenne che la guerra non sia altro che la logica conseguenza sociale dell’antagonismo naturale (l'”insocievole socievolezza”, che consente il processo di civilizzazione verso la Kultur), ne riconobbe al contempo il potere distruttivo: la guerra impedisce il pieno sviluppo delle persone. La soluzione? Un rapporto ragionevole tra poteri e nazioni, una legge di equilibrio fondata su un diritto cosmopolitico in base al quale si possa costituire una grande confederazione di popoli. Nessun idealismo, però: l’umanità non è un soggetto unico e la Storia non si dispiega alla luce di un progetto consapevole. I singoli individui sono liberi di agire secondo ragione e secondo le proprie ragioni, e questa libertà si esprime nella storia stessa.

Sollecitati dalla Natura, direbbe Kant, gli individui agiscono, e da sempre essi migrano. È soltanto con l’avvento della modernità e con la progressiva (e tumultuosa) nascita dei primi confini stabili, però, che il pianeta terra appare, ad alcuni, meno disponibile. Una prospettiva cosmopolitica ci consentirebbe di affermare che il migrante è colui che lascia una parte di terra per raggiungerne un’altra, completamente equivalente alla prima, perché il pianeta è sferico, unico e continuativo e noi ci abitiamo “sopra”, con le nostre credenze, inclinazioni e ragioni. Una visione istituzionale, al contrario, non sottoscriverebbe questa equivalenza, e invece di “parte di terra” parlerebbe di “Stato”, “nazione”.

Il sogno cosmopolitico è connotato moralmente: affinché si realizzi il “regno dei fini” kantiano è necessario che gli individui siano posti nelle condizioni di agire secondo la propria ragione e siano trattati, ovunque, come fini in sé. Il cosmopolitismo è l’intento della morale, è anzi la sua condizione necessaria senza la quale il volere autonomo delle persone non può essere riconosciuto universalmente. Ma può essere anche un valore politico?

Diritti, confini e liberalismi

Ciò che spinge una persona a migrare è la mancanza di qualcosa: opportunità di vita, diritti civili o sociali, sicurezza. Così, il dibattito sui fenomeni migratori si dispiega in termini di giustizia: la libertà di movimento è un diritto umano ed è garante di tutte le altre libertà. Quando Kant (1795/2017) parlò di “diritto di visita”, affermò che in virtù del possesso comunitario della superficie terrestre tutti gli esseri umani hanno il diritto di potersi spostare su un pianeta, il cui possesso è di tutti.

La riflessione etica e filosofico-politica non è, tuttavia, completamente inerte al sogno cosmopolitico. Un approccio possibile prende il nome, infatti, di cosmopolitismo liberale egalitario, che affronta le questioni normative della migrazione, considerando come prioritari i diritti e le libertà fondamentali del soggetto. Diametralmente opposta è invece l’argomentazione nazionalista-liberale, che pur condividendo l’assunto squisitamente cosmopolitico dell’eguale valore morale di tutte le persone, affronta la questione migratoria focalizzando l’attenzione non sui diritti degli individui, ma a partire dal primato che il demos, ossia il popolo inteso come sé, ha di potersi autodeterminare e di vivere in istituzioni democratiche stabili.

Joseph Carens è un autore che si inserisce nella prima corrente di pensiero, sebbene non ama definirsi un cosmopolita: come spiega nel suo The Ethics of Immigration (L’Etica dell’Immaginazione), spesso si pensa che i cosmopoliti risolvano questioni morali richiamando direttamente l’uguaglianza morale umana. L’intento di Carens è, invece, quello di appellarsi ai principi democratici in senso lato. Risponde così alle critiche dei molti che sostengono invece l’insensatezza di un'”etica” dell’immigrazione: tenere fuori le questioni politiche dalla valutazione morale è concettualmente fuorviante. Sono state formulate politiche profondamente ingiuste, senza che questa ingiustizia obbligasse le istituzioni di altri paesi ad intervenire e a contrastare l’azione politica di quegli Stati.

Così, la discussione sui fenomeni migratori si inserisce all’interno dell’etica pubblica, ossia della riflessione morale consapevole sulle questioni che ci riguardano sia come individui sia come comunità politica. Come dirà David Miller, ingenti flussi migratori portano con sé un inevitabile cambiamento, con cui la comunità politica del paese ospitante deve interfacciarsi.

Tentare una normatività

Se l’etica impone di riconoscere l’uguaglianza di status morale di tutti gli individui, la politica (quella realista), non può confondere tale eguaglianza di riconoscimento – che pur viene preservata – con un’eguaglianza di trattamento.

Carens afferma che in linea di principio i confini dovrebbero rimanere aperti e che alle persone dovrebbe essere garantita la libertà di lasciare il proprio paese e stabilirsi in un altro. Naturalmente, l’argomento acquista maggior forza quando le persone emigrano da paesi poveri.

Nelle democrazie occidentali, nota Carens, la cittadinanza equivale al privilegio feudale del medioevo, ossia uno status, ereditario, che aumentava notevolmente le opportunità di alcune persone. I riformatori del Tardo Medioevo criticarono il feudalesimo accusandolo di limitare le libertà degl individui, ivi inclusa quella di spostarsi da un luogo all’altro. La domanda risulta, pertanto, la seguente: se le pratiche feudali erano sbagliate, cosa giustifica le loro equivalenti moderne?

La questione interpella ragioni arbitrarie, ossia del tutto casuali, come la classe sociale e la nazionalità. Se l’assunto è l’eguale valore morale, l’accesso alle opportunità di vita e quindi il riconoscimento dei diritti necessari non possono ridursi al piano dell’arbitrarietà, ma l’accesso alle posizioni sociali dovrebbe esser determinato dalle reali capacità e talenti di ognuno.

Da privilegio ottenuto arbitrariamente, a forma di contratto implicito: così intende la cittadinanza David Miller, che certamente ha un approccio diametralmente opposto. L’autore sottolinea che i cittadini lavorano, votano, pagano le tasse e per questi motivi essi sono protetti dai danni che potrebbero altrimenti colpirli. Il principio fondante della cittadinanza è la reciprocità, e non prettamente una mera arbitrarietà. Tale relazione, tuttavia, è possibile laddove i gruppi sono relativamente stabili: se il grado di mobilità è ingente, questa reciprocità potrebbe frantumarsi, e con essa la tenuta delle istituzioni democratiche.

L’argomentazione etica regge nella misura in cui l’assunto ricade sul primato del gruppo culturalmente connotato rispetto che sulle libertà del singolo individuo. Per fornire una ulteriore legittimazione a tale assunto, Miller opera una distinzione tra il diritto umano a immigrare (che appartiene a ognuno di noi) e l’idea di alcune persone per le quali la migrazione internazionale sia l’unico modo per garantire la protezione dei diritti umani. Esiste certamente un diritto umano alla libertà di movimento; tuttavia, i primi problemi concettuali sorgono quando si opera un’argomentazione a sbalzo, per cui se riconosciamo un certo diritto a muoverci liberamente all’interno di confini statuali, allora dovremmo riconoscerne uno a muoverci liberamente attraverso i confini statuali.

La sostanza oltre la forma (e una sfida filosofica)

Si è detto che la materia migratoria è una questione di diritto e che il cosmopolitismo rimane un intento morale e politicamente irrealizzabile. Tale irrealizzabilità è motivata anche culturalmnete: discutere di inclusione giuridica significa rimanere nella dimensione formale dell’integrazione. Le scienze sociali impiegano uno “standard normativo di uguaglianza proporzionale“, che confronta quanto gli immigrati e i loro discendenti ottengono alla luce di vari indicatori di benessere, come l’istruzione e i risultati economici, rispetto a quanto ottiene il resto della popolazione. Solitamente, ci si aspetta che le persone immigrate non si collochino troppo indietro rispetto al resto della popolazione, ma laddove questa aspettativa venisse disattesa, sorgerebbe una sfida teorica, quindi filosofica. Si possono mostrare come i principi democratici guidino e limitino le politiche che gli Stati possono usare per effettivamente promuovere l’inclusione dei cittadini di origine straniera, considerando un vincolo teorico per gli gli Stati stessi non possono ergere l’assimilazione sociale e culturale a prerequisito per l’inclusione.

Pertanto, per ottenere giustizia è necessario analizzare come le leggi e le pratiche normative possano, anche implicitamente, privilegiare alcuni e svantaggiare altri. E questo è un compito per la filosofia: pensare una società giusta, colmando divari e diseguaglianze.

Bibliografia

Kant, I., Idea per una storia universale in prospettiva cosmopolitica (1794), Milano, Mimesis 2015.

Kant, I., Per la pace perpetua (1795), Milano, Feltrinelli 2017.

Carens, J. H., The Ethics of Immigration, Oxford, Oxford University Press 2013.

Miller, D., “Perché le democrazie sono giustificate nel limitare l’immigrazione”, in Monceri, F. & Picardi, R. (2023). Democrazia, cosmopolitismo e migrazioni, Roma, Italia: Lit.

Andrea Iotti

Classe 2001, appassionato di etica e psicologia morale, studio Filosofia perché credo fermamente che riflettere sui concetti sia il primo passo per meglio orientarsi nella complessità del nostro tempo.

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