Descrivere e giudicare
Noi esseri umani giudichiamo: credenze, prassi e decisioni, proprie e altrui. La sola contemplazione delle “cose umane” (così le definirebbe Isaiah Berlin) non ci soddisfa, né tantomeno ci limitiamo alla loro descrizione. Noi operiamo un passaggio ulteriore: le giudichiamo. Attribuiamo allo stato delle cose il loro esser appropriato o inappropriato, il loro esser buono o il loro esser biasimevole: il giudizio valutativo è intrinsecamente normativo, quindi morale. Ma cosa succede nel nostro cervello quando proferiamo che “uccidere è sbagliato” e “la beneficenza è giusta”?
La psicologia neosentimentalista
Quando David Hume (1739/2008) sostenne, argutamente, che «la ragione da sola non può mai produrre un’azione o suscitare una volizione» e che pertanto è «ugualmente incapace di ostacolare una volizione, o di contendere la preferenza qualche passione o emozione», il filosofo scozzese argomentò che la nostra volontà è influenzata in misura preponderante dalla nostra dimensione passionale (oggi diremmo “emotiva”) e che la ragione non ha la medesima forza.
Duecento anni dopo, Jonathan Haidt (2001) riprende questa intuizione e descrive il fenomeno del giudizio morale. Secondo lo psicologo statunitense, quando formuliamo un giudizio morale non stiamo esercitando la nostra ragione, che invece agisce ex-post, bensì tale proferimento è il frutto delle nostre reazioni istintive ed emotive (Hume le definirebbe “passionali”). “Sentiamo” che lo stato delle cose davanti a noi istintivamente ci disgustano o, al contrario, ci piacciono; solo poi giustifichiamo, tramite processi razionalizzanti, la nostra istintività. La ragione così non ha un ruolo causale, bensì giustificante: essa si piega ai nostri impulsi più immediati e tenta di darne una forma, in modo da giustificarle e argomentare così il nostro giudizio morale.
Neuroscienze dei giudizi morali
Riscontri empirici sembrano confermare quanto detto finora. Molti dei nostri giudizi morali sono il frutto di un’attività neurale del cervello che tipicamente si associa ai processi cognitivi più rapidi e automatici.
Lo studio condotto da Joshua Greene (2014) lo conferma. L’autore sostiene che il nostro cervello agisce come una macchina fotografica: è insieme automatico e manuale. La funzionalità automatica è caratterizzata dall’efficacia, e a essa si attribuiscono le intuizioni che guidano il nostro comportamento nella nostra quotidianità; quella manuale, invece, è tipicamente razionale e ragionante, che consente di pensare agli obiettivi a lungo termine e orientare così le nostre scelte e il nostro comportamento (spesso, però, fallendo nel fornirci la motivazione adeguata ad agire).
Dal punto di vista neurale, studi condotti grazie all’impiego della risonanza magnetica funzionale (fMRI) hanno rilevato che, nel cervello, alla corteccia prefrontale ventromediale e all’amigdala sono associate le risposte automatiche, mentre si registra un’attività particolarmente significativa della corteccia prefrontale dorsolaterale nei processi cognitivi più attenti e consapevoli. Questa dicotomia si rispecchia nei processi morali: sulla base di alcune evidenze empiriche, Greene (2014) elabora il “Principio di Tensione Centrale“, secondo cui giudizi caratteristicamente deontologici sono supportati da responsi automatici ed emozionali, mentre quelli caratteristicamente consequenzialisti da processi razionali e riflessivi. In particolare, quando siamo sottoposti a dilemmi morali impersonali (come, per esempio, il “trolley problem”), tendiamo a formulare giudizi caratteristicamente consequenzialisti, perché “è meglio tirare la leva e salvare più persone”; quando, al contrario, il dilemma morale è personale (come nel caso del “footbridge”), i giudizi morali che solitamente vengono espressi sono caratteristicamente deontologici, perché “non è possibile spingere una persona per salvare altre vite”.
Una deontologia sentimentalista?
L’aspetto più interessante degli studi di Greene riguarda la carica emotiva dei giudizi deontologici, quelli che con Kant immaginiamo invece intrinsecamente razionali e prodotti da una deliberazione autonoma della ragione pratica. Riscontri empirici sembrano mostrare il contrario, perché formuliamo giudizi caratteristicamente deontologici in contesti morali personali, dove la prossimità (anche empatica) con le altre persone è più saliente. Inoltre, li proferiamo correlativamente a un’attivazione significativa della corteccia prefrontale mediale e dell’amigdala, l’area neurale che attribuisce una carica emotiva ai dati dell’esperienza.
Da qui, l’intento di smascherare le teorie deontologiche, che secondo l’autore sono razionalizzazioni ingiustificate di reazioni istintive ed emotive che in realtà dipendono da quello che Daniel Kahneman (2011/2013) definisce il nostro Sistema 1, automatico ed intuitivo.
Salvare la normatività
Il discorso si è finora articolato in una dimensione descrittiva, e se è vero che dall’essere non deriva logicamente il dover-essere, allora le teorie deontologiche, sebbene potenzialmente emotive, non perdono il loro potere normativo. Hume colse argutamente che le passioni influenzano la nostra volontà, ma questo non implica che la nostra volontà non possa conformarsi alla legge morale kantiana. Tale sforzo è intrinsecamente normativo ed è un impegno prettamente umano: appiattire il normativo al descrittivo non lascia spazio all’impulso morale, quindi alla ricerca dei motivi per agire bene.