Ideologie e “cose umane”
Secondo Hannah Arendt (2015), la separazione tra filosofia e politica si apre storicamente con il personaggio di Socrate, condannato dal governo ateniese con la duplice accusa di empietà e di corruzione di alcuni giovani greci. Sebbene ne avesse avuto la possibilità – grazie all’aiuto che i suoi allievi gli avrebbero offerto – Socrate scelse convintamente di non fuggire dal carcere e quindi di scontare la sua pena, che poi gli costò la vita. La sua condotta potrebbe risultare esemplare in termini di coraggio e fermezza. Tuttavia, facendo così, Socrate fallì, e con sé anche la filosofia, che si dimostrò essere praticata da coloro che si interessano alle “cose eterne” (la virtù, la giustizia, il senso del dovere) e non a quelle umane, tra cui soprattutto quelle politiche. Decidendo di scontare la pena, Socrate agì per ideologie: l’agire politico, quello autentico, è invece intrinsecamente realista.
Agire morale, agire politico
È con Socrate, quindi, che si apre la cesura tra filosofia e politica, ed è da questa cesura che discende, quasi per necessità, la distinzione tra la dimensione ideale e quella reale. La prima, è la dimensione dei valori e risponde a principi del tutto teorici, quindi filosofici; essa prescrive la buona condotta e i sani principi che il singolo individuo può adottare per considerarsi soggetto morale. La seconda, invece, è luogo dell’agire del politico che si rivolge ai più, e non agisce solo per sé stesso. Esso presuppone che l’agente sia sì soggetto morale, ma che al contempo sia consapevole di abbracciare le sfide reali della dimensione pubblica, costituita da individui identici a lui in fatto di rispetto, dignità e moralità, ma diversi in fatto di idee, valori personali e inclinazioni naturali. Nonostante egli sia un soggetto morale come tutti gli altri, l’attore politico ha il potere che, da un lato, gli è necessario per mantenere l’equilibrio tra le parti, e dall’altro, necessita egli stesso di un sistema normativo a cui affidarsi per essere esercitato nel modo più proficuo.
Quando nel 1919 comparve La politica come professione, Max Weber (1919/2004) sostenne convintamente che accanto all’“etica dei principi” (quella che, per intenderci, possiamo adottare in qualità di individui) ne fosse necessaria un’altra, che chiamò “etica della responsabilità”. Questa, a differenza della prima, è la teoria normativa che richiama il politico alle proprie azioni e alle conseguenze che potrebbero derivare dal proprio agire. È, l’etica della responsabilità, quella disposizione etica che impone al politico sì di conservare la propria etica dei principi, ma al contempo lo convince, se necessario, a superarla, ad accantonare i propri valori personali e pensarsi come agente nella comunità, della comunità e per la comunità. Il politico autentico è colui che pur mantenendo la sua etica personale, ammette che in alcune circostanze bisogna “scendere a patti con forze diaboliche”, ossia prendere di petto la realtà e le problematiche di cui essa è costituita, e rispondere ad esse percependo su di sé il pesante carico della responsabilità delle proprie azioni, le cui conseguenze si estenderanno sui più.
L’agire politico, pertanto, vede come presupposto l’idea che dal proprio svolgersi discende il coinvolgimento non solo del proprio autore, ma anche e soprattutto di chi passivamente ne subirà le conseguenze.
Liberalismo e morale
Da una prospettiva liberale, lo Stato giusto non impone ai suoi cittadini alcun sistema valoriale: esistono leverità, e tutti i cittadini devono esser posti nelle eguali condizioni (di partenza) di giustizia ed equità per poter perseguire i propri fini e realizzare i propri ideali morali, religiosi, politici. Da qui, la necessità weberiana di distinguere i principi morali dalla responsabilità politica.
John Rawls (1971/2008) affermerebbe che tutti noi accetteremmo di vivere in una società in cui, indipendentemente dalle nostre caratteristiche o aspirazioni, venissero rispettati i due minimali principi di giustizia, che per il filosofo americano sono il principio di libertà e di differenza. E questo ci è sufficiente: uno Stato che voglia dirsi liberale non può arrogarsi il diritto di amministrare la “cosa pubblica” assoggettandola a una specifica teoria morale. La politica, invece, può e deve limitarsi a garantire le eguali condizioni di possibilità di partenza per tutti i suoi cittadini, e lasciar loro la libertà di agire individualmente secondo la propria etica dei principi.
Ideale e reale
Quanto detto finora potrebbe risultare perentorio: la morale deve rimanere fuori dalla politica. Sebbene i liberali potrebbero in parte concordare, ciò non è del tutto vero. Anche Kant (1795/2013), che, nonostante si premuri costantemente affinché l’agire morale non si sovrapponga a quello politico, discute di due figure della “politica morale”. Da un lato, il “politico morale”, che si adopererà affinché i principi della politica coesistano con quelli della morale, e, dall’altro, il “moralista politico”, che invece pensa a fondare una morale seguendo soltanto gli interessi dell’“uomo di stato” e farà di tutto, persino strumentalizzare le norme (il “diritto”), per perseguire i propri fini. Il politico morale, invece, è l’agente politico che utilizza gli strumenti della politica per raggiungere il fine che tutti vogliono (e che devono volere): per Kant, la “pace perpetua”. Essa è il traguardo squisitamente morale della filosofia kantiana e si raggiunge con l’imporsi del “regno dei fini”, in cui, da un lato, valga un diritto cosmopolitico, e, dall’altro, possa essere il regno della ragion pratica, della morale. Perseguire l’ideale della pace perpetua viene indicata dalla provvidenza, dalla “natura”, che, secondo Kant, vuole trarre dalla discordia tra gli uomini una loro concordia. La natura, il destino, vuole sì la separazione dei popoli, ma vuole anche la loro unificazione.
Sebbene ne discutesse convintamente, Kant stesso sapeva trattarsi di un’ideale della ragione. La pace perpetua è una “speranza razionale”, che il filosofo di Königsberg sa benissimo che non si realizzerà mai.
La morale è un tesoro da preservare
Cosa vuol dirci, allora, Kant? L’agire politico è l’agire di attori prettamente trascendentali, che si muovono oscillando tra il reale e l’ideale, tra il “qui e ora” (assetato dell’“etica della responsabilità” weberiana), e la speranza razionale di un regno dei fini, di un mondo buono per soggetti naturalmente[1] morali. La morale è il fine, e non il mezzo, della politica: quest’ultima deve agire per la prima, per una morale kantianamente intesa, per la sua conservazione e per la sua valorizzazione, affinché, in ogni luogo del pianeta, in ogni terra su cui possa vivere, gli individui possano esercitare la loro autonomia, possano venire rispettati per la loro dignità e possano vivere secondo la propria ragione.
Bibliografia
Arendt, H. (2015). Socrate, Milano, Italia: Raffaello Cortina.
Kant, I. (2013). Per la pace perpetua, Milano, Italia: Feltrinelli (originariamente pubblicato nel 1795).
Rawls, J. (2008). Una teoria della giustizia, Milano, Italia: Feltrinelli (originariamente pubblicato nel 1971).
Weber, M. (2004). La scienza come professione. La politica come professione, Torino, Italia: Einaudi (originariamente pubblicato nel 1919).
[1] Ossia di loro natura.