Della facoltà di desiderare
Pensatore abitudinario, rigido argomentatore e fine intellettuale. Queste sono le espressioni che sovente si attribuiscono – non senza qualche verità – a Immanuel Kant, la cui ricca produzione intellettuale, nel discorso didattico, spesso si riduce tristemente alle sole sue tre magnifiche Critiche. Eppure, il filosofo della ragione (pura e pratica), della pace perpetua, del regno dei fini e della politica morale, del bello come ciò che piace universalmente senza concetto, si rivela essere anche un attento articolatore delle emozioni, delle inclinazioni e delle passioni umane.
Nella sua Antropologia dal punto di vista pragmatico[1], comparsa per la prima volta nel 1798, Kant tira le somme della sua produzione filosofica perfezionatasi con le sue tre Critiche. Il testo si apre con la sua prima parte, ed è suddivisa in tre libri, che discutono rispettivamente della facoltà di conoscere, del sentimento del piacere e del dispiacere, e della facoltà di desiderare.
All’articolazione della vita emotiva e passionale, Kant dedica largo spazio nel terzo libro, dal titolo Della facoltà del desiderare. Scelta curiosa, perché discutere la dimensione emotiva nel capitolo dedicato a quella desiderativa già allude alla presenza di una qualche influenza di una dimensione sull’altra.
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Con il rigore che lo caratterizza, Kant definisce il desiderio come «la determinazione spontanea della forza di un soggetto tramite la rappresentazione di qualcosa di futuro considerato come effetto di quella stessa forza» (Kant 1800/2008, I, III, § 73, p. 257).
Alcuni desideri sono sensibili, e si chiamano inclinazioni; tra queste, si annoverano le passioni, che Kant definisce come quelle «che la ragione del soggetto ha difficoltà a domare, o non riesce a domare affatto» (Ibidem). Quando infuriano, la passioni non riescono ad assoggettarsi al controllo della ragione.
Discorso diverso, e che chiama in causa concetti esposti nel libro precedente, riguarda la vita emotiva. L’emozione è «il sentimento della presenza, nello stato attuale, di un piacere o di un dispiacere che impedisce il sorgere della riflessione» (Ibidem). Il piacere sensibile, per Kant, si mostra tramite il godimento, che è «un piacere provato tramite il senso, e ciò che allieta quest’ultimo si chiama gradevole» (Ivi, I, II, § 60, p. 233).
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Le definizioni che ci fornisce Kant sembrano non alludere a nulla di positivo. Il filosofo di Königsberg non nasconde le sue criticità: essere soggetti a emozioni e passioni è «pur sempre una malattia dell’animo, perché entrambe le cose escludono il dominio della ragione» (Ivi, I, III, § 73, p. 257).
Queste «infelici disposizioni dell’animo» e la naturale necessità di essere emotivi
«L’emozione agisce come un’inondazione che rompe la diga, la passione come una corrente che scava sempre più in profondità nel suo letto» (Ivi, I, III, § 74, p. 258). È con questa similitudine che Kant riesce efficacemente nell’intento di distinguere le emozioni dalle passioni e, contemporaneamente, a spiegare perché esse si contrappongano.
Le passioni, anche definite “smanie”, sono una «cancrena per la ragion pura pratica» (Ivi, I, III, § 81, p. 274). Tra esse, Kant annovera le inclinazioni naturali, come l’inclinazione alla libertà e quella sessuale, e le inclinazioni culturali, come la smania di onore, la smania di dominio e quella di possesso. L’emozione, invece, è come una “sbornia” (similitudine curiosa, ma efficace), perché si «smaltisce dormendo» (Ivi, p. 259), e non tramite un’attività riflessiva, come invece può accedere con le passioni. In un certo senso, Kant anticipa l’idea, squisitamente fenomenologica, della vita emotiva come l’espressione tipica del sentirsi vivo di fronte a una possibilità del mondo che impetuosamente ci coinvolge tramite i sensi, a cui ci assoggettiamo soltanto per un breve momento, che verrà poi “smaltito” progressivamente.
L’emozione pregiudica per un istante la libertà e il dominio di se stessi. La passione vi rinuncia del tutto, e trova il proprio piacere e la propria soddisfazione nel sentirsi schiava. Poiché tuttavia, nel frattempo, la ragione non trascura mai il proprio richiamo alla libertà interiore, ecco che l’infelice sospira fra le sue catene, delle quali nondimeno sa liberarsi, perché crescendo hanno ormai quasi fatto tutt’uno con le sue membra (Ivi, I, III, § 81, p. 275).
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Le passioni, al pari delle emozioni, sono «infelici disposizioni dell’animo», ma in aggiunta si rivelano essere «senza eccezione [delle] disposizioni cattive»: qualsiasi desiderio, anche virtuoso, come la beneficenza, «non appena si trasformi in passione sarà comunque […] non soltanto dannosa pragmaticamente, ma anche riprovevole moralmente» (Ibidem). Non a caso, nella sua Fondazione della metafisica dei costumi, Kant affermava, con tono perentorio: «tutti i concetti etici hanno la loro sede e la loro origine interamente a priori nella ragione» (Kant 1785/2017, II, p. 99). Pertanto, se le passioni sovrastano la ragione (questo fenomeno già lo aveva intuito David Hume[2], argomentandolo però senza attribuirgli una componente negativa), l’etica crolla, e con sé il comportamento virtuoso.
Eppure, la «ragione, nella rappresentazione del bene morale, può trovare il modo di ravvivare il volere (nei discorsi religiosi o politici, rivolti al popolo, o anche nella solitudine, rivolgendosi a se stessa) connettendo le proprie idee a intuizioni (esempi) […] e dunque non già subire l’effetto, ma essere causa di un’emozione che vivacizza l’anima rispetto al bene» (Kant, 1800/2008, I, III, § 75, p. 260). La ragione, talvolta, esaurisce la sua forza che spinge gli uomini ad adeguare la loro volontà alla legge morale: «la natura ha aggiunto agli impulsi morali verso il bene, per ravvivarli, anche lo stimolo patologico (sensibile) come surrogato temporaneo della ragione» (Ibidem).
Descrivere e prescrivere (e una possibile conclusione per la morale)
La distinzione tra emozione e passione è sancita. Entrambe sono due “malattie dell’animo”, a detta di Kant, ma la prima, talvolta, è utile a preservare la moralità del soggetto, che però rimane un fatto squisitamente razionale.
Per quanto Hume colse argutamente che sulla nostra volontà agiscano con maggior influenza le nostre passioni, rispetto a quanto riesca la nostra ragione, l’etica non può appiattirsi a questa dimensione descrittiva. Tentare la normatività, in senso morale, significa impegnare l’essere umano al comportamento buono. Tale sforzo non può che essere un impegno della ragione, che detta le corrette motivazioni per agire, in primis il rispetto per la legge morale, quindi per tutti gli esseri umani.
Andrea Iotti
Bibliografia
Hume, D. (2008). Trattato sulla natura umana, Roma-Bari, Italia: Laterza (Originariamente pubblicato nel 1739).
Kant, I. (2008). Antropologia dal punto di vista pragmatico, Torino, Italia: Einaudi (precedentemente pubblicato nella sua seconda edizione nel 1800).
Kant, I. (2017). Fondazione della metafisica dei costumi, Milano, Italia: Bompiani (originariamente pubblicato nel 1785).
[1] L’Antropologia a cui qui si fa riferimento è la traduzione italiana del testo originale pubblicata nella sua seconda edizione, risalente al 1800.
[2] Si veda Hume 1739/2008, II, III, 3, pp. 433-439. In questa sezione, Hume argomenta come le passioni esercitino maggior influenza sulla nostra volontà di quanto riesca a fare la ragione umana.