Su «Forze di riproduzione. Per una ecologia politica femminista» di Stefania Barca

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«Primo: il lavoro riproduttivo non è un lavoro. Secondo: non è riproduttivo». Touché.
I lettori del Capitale di Marx potrebbero tagliar corto e mettere così da parte quelle proposte teoriche che cercano di dar conto del lavoro di cura – il lavoro ‘invisibile’, lo sfruttamento non retribuito: domestico, di assistenza, di gestione della casa. Movimenti che in Italia, con a capofila Silvia Federici, auto-rivendicano qualche continuità con il marxismo, e ‘puntano il dito’ contro alcuni punti ciechi del Capitale, presunti ‘occultamenti’ rispetto alla questione di genere – attirandosi così le critiche di chi, più cautamente, non minimizza la discussione sulla riproduzione sociale, ma rindirizza il tiro al processo scientifico di valorizzazione, e alle “analisi non soggettive delle determinazioni del capitale”.
Ma in Forze di riproduzione. Per una ecologia politica femminista (Edizioni Ambiente, 2024) di Stefania Barca, al di là dello schieramento portato avanti (un “ecofemminismo socialista”), poco importa della questione che i lavori riproduttivi contribuiscano direttamente o meno al pluslavoro. Qui si vuole dare visibilità, fare “giustizia narrativa” (p. 19), per preparare un intervento politico.

Il manifesto di Stefania Barca, nuova traduzione di Forces of Reproduction: Elements in Environmental Humanities (Cambridge University Press, 2020), è insieme una critica della “narrazione egemonica dell’Antropocene”, e un tentativo di dare voce alle alternative, cioè alle forze che si occupano della cura degli esseri umani, nella loro interdipendenza con l’ambiente biofisico – le forze riproduttive. Contro l’idea che le forze di produzione stesse – la scienza e le tecnologie – possano salvare l’umanità dalla crisi climatica e dalle contraddizioni dell’Antropocene, nelle varianti dell’ecomodernismo o della geoingegneria, si vuole adottare un punto di vista diverso: rendere visibili le forze “contro-padronali” e i tentativi di chi “si oppone attivamente alla sistematica distruzione della natura”. Nel farlo, le “prospettive ecologiche, decoloniali, di classe e di specie” (p. 19) si tengono insieme.

Ma se per l’ortodossia non sono “lavori”, cosa sono queste forze riproduttive? Per rispondere, Barca dichiara di combinare l’ecofemminismo con il materialismo storico, in particolare facendo riferimento al pensiero di Mary Mellor (autrice di Feminism and Ecology, 1997), e ai lavori di sociologia di Ariel Salleh e di Maria Mies. Adottare questa prospettiva sul campo di gioco significa anzitutto cominciare a considerare le “donne” da un punto di vista non biologistico, non in nome di un’essenza transtorica, ma dal punto di vista storico: il corpo di una donna è il corpo incarnato che subisce lo sfruttamento riproduttivo e la subordinazione domestica.
Se si allarga questa ‘soggettivà’ a tutti coloro che sono dominati – questa l’operazione di Barca – si arriva a parlare di specifiche forze, le forze della classe meta-industriale globale, composta da tutti quei soggetti che si occupano della vita, riproducono l’umanità prendendosi cura dell’ambiente biofisico. “Mantengono in vita il mondo, eppure la loro azione ecologica è ampiamente ignorata dalla narrazione dominante” (p. 18). Proseguendo il lavoro pionieristico dell’ecofemminismo di Val Plumwood, filosofa austrialiana, il libro si sviluppa analizzando quattro forme del “modello padronale” universalista, quattro frontiere spesso assimilate e ammutolite rispetto a una visione egemone, dominante, eurocentrica e maschile, che ha costruito le altre per esclusione da sé: la classe, la razza, la natura, l’animale non umano.

È un’analisi che si serve di un repertorio di autori e autrici molto vasto, e spesso non ancora tradotti in Italia. Fil rouge, la questione materiale: le pratiche di esternalizzazione degli scarti verso paesi terzi, le frontiere estrattive, i costi della transizione verde, il consumo energetico dei data center, il mercato delle emissioni, analizzati a doppio filo con la riproduzione delle diseguaglianze sociali. Una questione spesso ‘dimenticata’ dalle narrazioni ‘mainstream’ della Grande accelerazione (l’eccezionale crescita economica occidentale dal secondo dopoguerra), che basandosi sulle curve di Kuznets ambientali (EKC) potevano assumere che l’accumulazione economica, spinta oltre un certo livello, potesse in fin dei conti risolvere le problematiche ecologiche. Una narrazione ingenua, e spesso accolta da quei filoni filosofici che hanno tessuto gli elogi della smaterializzazione informatica e finanziaria degli anni Ottanta e Novanta, a torto dimenticando i costi sociali ed ecologici della crescita incontrollata, e rispetto a cui non si discosterebbe granché la Planetary Bundaries Theory in voga negli ultimi anni. La teoria dei confini planetari, sviluppata nel 2009 da un gruppo di ricercatori guidato da Johan Rockström del Stockholm Resilience Centre e al centro dell’agenda verde, non mettendo a questione l’economia politica globale, proporrebbe per Barca una visione tecnocratica e accondiscente alle pratiche di greenwashing delle grandi imprese, contribuendo così a de-politicizzare la crisi ecologica, e i suoi danni.

Kunznetz curve (fonte: wikipedia)
Kunznetz curve (fonte: wikipedia)

A fare da corollario al Manifesto, nella seconda parte sono tradotti due saggi che rimarcano l’integrazione della giustizia ambientale con quella sociale, un’integrazione che muova da “coalizioni politiche dal basso” (p. 185) che non si riducano al punto di vista della classe media urbana e sub-urbana, ma che tengano insieme l’esperienza di quanti “hanno subito i costi della crisi ecologica, e hanno dovuto lottare per la propria sopravvivenza” (p. 188). Per farlo, si comincia riconoscendo il valore delle memorie, delle storie, delle contro-narrazioni del Progresso: “memorie collettive e racconti di emancipazione in cui sia mostrato che le persone comuni – donne e uomini della classe lavoratrice, popoli indigeni, gruppi sociali razzializzati – sono sempre state capaci di immaginare relazioni non distruttive e non estrattive con il proprio ambiente, e di lottare per esse” (p. 187-188). Questo è il compito più urgente per una Storiografia ambientale: una disciplina a confine tra gli Environmental Studies, l’ecologia politica, la sociologia e l’antropologia – e di cui Barca ha costruito buoni presupposti di partenza, anche se spesso sfuggenti.
Proprio rispetto all’impianto di fondo del libro, sarebbe stata utile una sistemazione più ‘filosofica’ di alcuni concetti: che posto ha – ontologicamente – la natura, e quale il capitale? E come stanno tra loro? Che relazione si pone tra il capitale, lo spazio sociale, e quello naturale-geografico? Come definiamo l’Antropocene? Forse delle risposte mirate avrebbero consentito una proposta più concreta, una risposta politica, che a volte pare molto vicina a quella del geo-comunismo di Paul Guilibert – filosofo non citato nel libro. Un proposta che in Barca rimane solo accennata, spesso con alcuni termini ricorsivi – “eco-sufficienza”, “decrescita” -, ma che avrebbero meritato una riflessione più rigorosa.


 

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