Della scomparsa della diade destra/sinistra si può parlare in diversi modi, e con scopi più o meno espliciti. Nel dibattito degli anni Ottanta, segnato dalla fine del comunismo nella storia mondiale e dal trionfo della democrazia liberale, la critica alla distinzione destra/sinistra poteva maturare in seno all’orizzonte della perdita di alternative reali, di fronte alla quale si aveva buon gioco nel dichiarare la fine delle ideologie minimizzando le differenze politiche, tantopiù se all’alba di quel nuovo Manifest destiny verso un mondo unico e omogeneo, presuntivamente pacificato secondo le categorie del mercato. In questa contingenza, destra/sinistra si sarebbero ridotte a semplici varianti del neoliberalismo: due alternative vuote, artificiosamente reimpostate di fronte al fatto della globalizzazione, e di cui – perfino dal versante socialista – si sarebbe potuta ribadire una «natura inservibile»[1] di contro a Bobbio e al criterio – resosi presto pilastro teorico – dell’eguaglianza come valore discriminante. E non solo perché, a conti fatti, «esse applicano le stesse ricette economiche e sociali»[2], in linea cioè con la prosecuzione del modo di produzione capitalistico e dell’equilibrio di mercato; ma, più radicalmente, per la loro strumentalità al nuovo spazio economico: c’è il sospetto di una nuova tassonomia fatta ad arte per riorganizzare la politica in maniera innocua, così da respingere come “radicali” ed “estremiste” le alternative reali, escluse dal bipolarismo costruito. Tanto da suscitare una tesi, scriveva Costanzo Preve, «molto più folle e scandalosa, quella della profonda affinità di fondo tra cultura di sinistra e il “fatto della globalizzazione”»[3]. Oppure, questa la tesi di Vincenzo Costa nel suo Categorie della politica. Dopo destra e sinistra (Rogas 2023), da far pensare a una ricaduta oligarchica, a «una regressione a un’organizzazione concettuale ottocentesca e all’articolazione politica che precedette l’introduzione del suffragio universale e la conseguente affermazione dei partiti popolari di massa» (p. 12).
Ma la critica di Costa assume un senso del tutto diverso da quella che poteva avere negli anni Ottanta: «la diade va abbandonata perché stermina le differenze di cultura politica e ha una funzione egemonica che si è rivelata fallimentare» (p. 10). Una tesi che non vuole sostituire una nuova diade (popolo/élites, basso/alto) a quella esistente; più radicalmente, si tratta di «lasciarsi alle spalle l’organizzazione binaria che caratterizza il pensiero politico» (ibidem), perché a ben vedere rispecchierebbe «una distinzione interna all’articolazione delle classi dominanti, chela universalizzano e la proiettano su un mondo della vita che si caratterizza per linee di faglia completamente differenti» (p. 9). È proprio sul mondo della vita (seppur non meglio definito), sulla centralità dei vincoli interni all’esperienza delle classi, che Costa arriva a definire il progressivo svuotamento di significato delle culture politiche di destra e sinistra, ricostruito a partire dal dibattito degli anni Ottanta, fino all’attuale crisi della rappresentanza democratica.
Sono quindi ripercorse le trasformazioni degli anni Novanta interne al passaggio dai partiti popolari di massa alla “Sinistra progressista” (così come rivendicata dai suoi sostenitori); quel processo che sostituisce al problema della rappresentanza politica il problema dalla gestione tecnico-amministrativa dell’esistente; il consenso alla rappresentanza, il dover-essere al poter-essere. E nel modo di funzionamento essenzialmente tecnocratico di una democrazia liberista, in questo contesto, coloro che si dichiarano di destra e sinistra nascondono una sostanziale affinità, se non addirittura un legame di reciprocità fondativa: la “Sinistra progressista” si definirà per reazione alla Destra berlusconiana, senza mai costruire in positivo la propria identità (anzi, «una definizione positiva della propria identità, oltre le prescrizione del quadro concettuale del sistema politico liberale, significherebbe la fine della “Sinistra progressista”: farebbe implodere un coacervo di istanze e interessi differenti che solo nell’opporsi al pericolo “fascista” trovano una parvenza di unità» [p. 14]), fino a dimenticare due radicali slittamenti di significato.
Anzitutto, rispetto al soggetto storico dell’emancipazione (1) che lungo il Novecento aveva potuto contrassegnare l’orientamento della tradizione socialista e quella del popolarismo cattolico, cioè le classi subalterne, la “Sinistra progressista” non solo smetterà di parlarne, ma toglierà loro la parola, interpretandole come classi “reazionarie”, schiere d’ignoranti (o “legioni di imbecilli” come diceva Umberto Eco), residui del passato, portatrici di valori particolaristici: attaccamenti alle tradizioni, radicamenti territoriali, che nello schema liberale si fanno sinonimi di arretratezza, pigrizia, istintualità, incarnati insomma dagli “sconfitti della globalizzazione” ostili alla crescita e all’innovazione. L’obiettivo novecentesco di inclusione delle masse popolari nella vita politica subisce quindi una paradossale inversione (ben esemplificata, in Italia, dalla legge elettorale del ’93 dei “listini bloccati”), in parallelo alla generale subordinazione del politico alle forze economiche e finanziarie. Sopra cui le parole cambiano ancora di senso: la nozione di “riformismo” (2) venne ad indicare non più «trasformazione sociale, ma efficienza sistemica»; ossia «una politica che tende a mantenere l’efficienza del sistema attraverso lo smantellamento dei diritti sociali: “riforme” venne a significare “introduzione di elementi di liberalismo”, “privatizzazioni”, precarizzazione del lavoro» (p. 17).
Su queste trasformazioni reali e concettuali, diverse considerazioni (qui ripercorse concisamente e solo per risultati) sono dedicate alla funzione storica della narrazione neocontrattualista, paradigma divenuto presto la base culturale della “Sinistra progressista“. Una narrazione che, ancora prima di prepararle il terreno affinché assumesse «la dottrina del mercato come orizzonte ultimo della vita politica» (p. 20), ha avuto l’effetto di introdurla a un modo di pensare ostile agli interessi delle classi popolari: l’universalismo astratto, disincarnato, e a-storico, l’ipotesi di uno sguardo da nessun dove come base del concetto di giustizia (Rawls), avrebbero portato «alla dissoluzione di ogni differenza e dei differenti. Le differenze (le comunità, le tradizioni, le identità collettive, le appartenenze di classe) diventano per la cultura progressista in linea di principio di “destra”, poiché per il neocontrattualismo esistono e devono essere valorizzate solo le differenze tra individui» (p. 24), e non quelle collettive, in ragione di un posizionamento presuntamente universale, di un criterio «quasi tecnico di razionalità discorsiva» (p. 26), che prelude a diversi processi. Da un lato, lo svuotamento di significato della rappresentanza, sostituito da forme plebiscitarie tra scelte precostituite, concomitante alla spinta verso i governi tecnici (e stati d’eccezione), e quindi al fisiologico annientamento del conflitto e della critica sociale; dall’altro, una forte inclusione delle particolarità (o dei diritti identitari) ma nei limiti del mercato; un’inclusione, cioè, che sarebbe ammessa nella misura in cui non turba l’ordine del mercato, oppure del socialmente irrilevante.
È interessante come a questo punto Costa carichi il concetto di mondo della vita (ben noto nel campo fenomenologico) di una valenza politica, per affrontare i nodi del rapporto tra governati e governanti, popolo ed élite, ormai tramontato qualsiasi progetto di inclusione delle masse popolari nei processi democratici. La prassi politica della ‘Sinistra progressista’ affermatasi dagli anni Novanta si sarebbe infatti arroccata sull’imposizione di un dover-essere: c’è la tendenza a negare l’autorganizzazione interna del reale, e il possibile interno ad esso, per imporre un dover-essere astratto e universale, un’idea prescrittiva di giustizia svincolata dall’oppressione reale e vissuta, cioè dall’esperienza effettiva, dai significati e dai significanti interni a un mondo della vita, a una vita comunitaria che la subisce; ma calata dall’alto, calata proprio sulla cultura di chi sopporta sulla carne l’ingiustizia e il dominio: le classi popolari, accusate di ignoranza, invidia, conservatorismo, tradizionalismo religioso, pertanto potenzialmente destrorse e “fasciste”. La critica della classi dominanti si rovescia così in critica delle classi popolari. E quel compito di traduzione che idealmente aveva sorretto un progetto politico-emancipativo novecentesco – gramscianamente e sturzianamente quello di esplicitare, elaborare, fornire concetti, dare voce al mondo della vita «nelle sue trame di senso» implicite, nei suoi bisogni, nelle sue esigenze – s’interrompe: perché quando il mondo della vita viene oggettificato e ridotto a materia amorfa, inerte, priva di strutture di significanti (“i poveri non sanno quello che vogliono”, “scioperano di venerdì per farsi il ponte”), allora questa si dovrà adeguare alla colonizzazione del sistema politico, e la mediazione si rompe.
Tra mondo della vita e sistema politico-istituzionale il rapporto diventa unidirezionale, imposto dall’alto; c’è uno scollamento, una mediazione interrotta di cui l’astensionismo e il populismo sono sintomatici. E per l’intellettuale liberal-progressista, non più interessato alla comprensione delle contraddizioni del reale, lo scopo diventa allora l’indignazione: «diviene un moralizzatore […]. Il lavoro culturale sembra essere divenuto quello di modificare le emozioni, in modo da rendere le persone più “devote” agli ideali liberali» (p. 46).
Non si tratta solo di ridefinizioni interne alla Sinistra progressista: alle trasformazioni dell’altra sinistra, quella ‘non progressista’, la Sinistra antagonista (o “estremista”), Costa dedica ampio spazio, analizzando criticamente la funzione storica di una certa filosofia francese (soprattutto nelle sue degenerazioni postmoderne) che ne ha fatto da base culturale. In questo quadro, il trapasso dalle «classi subalterne» al «diverso» – nuovo soggetto storico dell’emancipazione; la riconcettualizzazione del dominio in chiave di «dispositivo disciplinare» e quindi la totale pervasività di un tema, il potere, che espandendosi annulla i limiti che definivano le classi sociali (l’oppressione reale, e il chiaro confine tra emancipazione e assoggettamento), insieme all’enfasi verso un paradigma essenzialmente linguistico, spesso dai contorni aristocratico-individualistici (l’esigenza del «desiderio dissidente»), i temi del corpo e della sessualità diventati “politici” per eccellenza, il gergo dell’autenticità calato sopra la società di massa, finiscono per convergere con le tendenze della Sinistra progressista, completando la facciata di una sinistra senza popolo: quando la critica allo sfruttamento si fa critica alla normalità, condotta da nicchie di significato chiuse, iniziatiche, sovversive, «entro questo nuovo universo di discorso la cultura popolare diventa il bersaglio preferito della critica, che non ha più come oggetto la demistificazione del potere, ma la demistificazione della cultura popolare (p. 74).
Tracciato questo contesto, la diade Destra e Sinistra appare non solo come un’imposizione nominale sopra un reale ben più complesso, vivo, e automorfo nei suoi significati: non si tratta solo di constatare che come descrizioni reali Destra e Sinistra siano categorie poco giovevoli alla comprensione del presente (si pensi al valore dell’eguaglianza per la Destra sociale, o a come la competizione tra i gruppi dirigenti – De Benedetti e Berlusconi – venga inverosimilmente narrata come conflitto tra interessi di classe), ma di problematizzarle alla radice in quanto costrutti concettuali, in quanto criteri ideali che non ci consentono di «cogliere l’articolazione e il dinamismo del reale» (p. 101), schiacciandoli in un binarismo concettuale sterile. Costa si pronuncia chiaramente sul dibattito degli anni Novanta: «l’enfasi su D/S servì a ricondurre entro l’orizzonte liberale quel che restava dei grandi partiti di massa che avevano caratterizzato la vita politica dopo l’introduzione del suffragio universale» (p. 48); quelle culture politiche popolariste di cui la nascita del Pd ha rappresentato «lo sterminio» (p. 56). Una tassonomia, quindi, la cui affermazione (liberale) poteva così assolvere una funzione egemonica: universalizzare il punto di vista sul mondo e sulla storia di una classe dominante nelle sue variazioni interne (reazionarie o illuministe, generalizzando), escludendo a priori l’alternativa socialista, e cancellando le altre dicotomie possibili per organizzare l’esperienza. Una diade prescrittiva e non descrittiva, che faceva del sistema politico un «luogo di negoziazione e/o conflitto tra le fazioni della classe dominante» (p. 113), estraneo alle classi popolari, anzi in grado di oscurare il conflitto tra classe dominante e le classi subalterne, ridotte a un elettorato passivo chiamato a prendere le parti di quello schieramento predefinito dell’élite, ed escludendo come «irrazionalità» ed «estremismo» ciò che – interno alle esigenze di classe – si presentava come sua alternativa. Una tassonomia rispetto cui «il libro di Bobbio fu una risposta rassicurante, ma destinata a restare ineffettuale» (p. 48). Una risposta scritta sul crinale di grandi trasformazioni economico-politiche, che la sua tesi fu destinata a certificare: «generò l’illusione di una continuità, ebbe la funzione di coprire le trasformazioni dentro la Sinistra e la Destra. Offrì l’illusione di una differenza dentro il sistema dei partiti: confezionò la sinistra come simulacro e definì un campo omogeneo di cui D/S erano variazioni sul tema» (p. 55), perché caratterizzò la sinistra «come orientata dalla stella polare dell’uguaglianza, ma senza determinare come questa sia possibile in un mondo dominato dal mercato» (p. 48), il primo generatore di diseguaglianza, e quindi basando il discrimine sopra un significante vuoto. Ma se invece che a un’opposizione binaria si ricorresse – questa la proposta di Costa – a un nuovo modello topologico, «costituito da un’organizzazione di differenze che possono collegarsi tra loro in una varietà di modi, a seconda del contesto e del problema determinato che la vita pone» (p. 10), saremmo più fedeli all’ontologia politica del presente. Si potrebbero articolare coppie di opposizioni in un modello ad albero, oppure a stella, le quali trovano senso nella relazione a cui appartengono, a partire dal contesto in cui sono radicate: in questo modo la nozione di uguaglianza potrebbe facilmente relazionarsi a quella di identità (si ricordi il nodo della “sinistra senza popolo”), e andare a capire più da vicino il mondo della vita, per orientare di nuovo la prassi politica.
[1] Costanzo Preve, Destra e sinistra. La natura inservibile di due categorie tradizionali, Pistoia, CRT, 1998.
[2] Ivi, p. 5.
[3] Ivi, p. 7.