Note su “La società dell’ansia” di Vincenzo Costa

13 minuti

L’ultimo libro di Vincenzo Costa, La società dell’ansia, edito da Inschibboleth, prosegue il lavoro di estensione della fenomenologia dell’esperienza ad ambiti più strettamente sociali e politici, aprendo un nuovo cantiere per una sociologia critica e fenomenologicamente orientata. Il tema è quello delle emozioni, ma considerate dal punto di vista della loro produzione sociale.

Il presupposto di partenza è che «a generare il legame sociale non è il piano cognitivo e discorsivo, le ragioni e le narrazioni» (p. 9), bensì l’articolazione emozionale. «Una società è allora, innanzitutto, un modo di produzione e distribuzione delle emozioni» (ibidem) alle sue parti: vantaggi emozionali che si manifestano come autostima, sicurezza, serenità, senso di potenza; e danni emozionali come ansia, depressione, senso di impotenza, governate dalla struttura delle interazioni sociali – le posizioni di potere e di status.

Con una decisa presa di distanza dalle teorie dell’agire comunicativo, per Costa la produzione dell’ordine sociale – la sua riproduzione, e la possibilità del suo collasso – va basata non sull’intesa discorsiva o cognitiva, e nemmeno parsonianamente sui valori, ma su un terreno che li precede: sui processi dell’interazione sociale da cui scaturiscono le emozioni, o meglio: sull’atmosfera emozionale che permea la società e organizza le singole emozioni. Contro “l’egemonia discorsiva” che a suo modo fornisce una risposta alla dissoluzione neoliberale dei legami affettivi tradizionali, guardando alle emozioni come forze potenzialmente disgregatrici e quindi da depotenziare con la forza normativa delle ragioni, bisogna ripartire dai «modi del sentire», e non dai significati, non da valori astratti, un dover-essere calato sopra un mondo della vita prescrivendo “come si dovrebbe sentire”, contribuendo così a una sorta di alienazione emozionale. Bisogna ripartire «dall’apertura emozionale già data» (p. 21), da quell’apertura storica su cui si struttura la società, e che determina a quali valori l’esistenza sia sensibile, a quali emozioni protendersi (“anticiparsi”) perché inserite in una sequenza emozionale di approvazione sociale, e cominciare prenderle sul serio, ascoltarle anziché condannarle o moralizzarle.

Nell’esistenza umana, punto di concrezione di un’epoca, le emozioni non sono disturbi, ma l’intermediario tra azione e struttura, esistenza e società. Le emozioni afferrano il mondo, sono la condensazione in cui risuona l’ordine strutturale e simbolico in cui siamo posti: «ci segnalano la nostra situazione nel mondo» (p. 33), il nostro posizionamento in uno spazio di possibilità aperte (avvertite nella felicità), o venute meno (tristezza), o sottratte da altri (rabbia). Ma se viene a mancare il loro riconoscimento, e quello che ci dicono sull’esistenza; se proprio la rabbia e il risentimento, forme di autocoscienza preriflessiva dell’interazione sociale, sono represse, continuamente osteggiate dal senso di colpa della narrazione discorsiva e cognitiva; o ancora se nei nostri contesti di vita il senso di oppressione e di rancore sono costretti a un lavoro emozionale che li rielabori e trasformi in cordialità, resilienza, positività; questi restano, restano come reazioni, continuano a risuonare nel corpo senza nome: nell’ansia, in un’inquietudine sorda, nella depressione, nella perdita di autostima, in un umore cupo, o in un’irritabilità senza ragioni apparenti. L’antica cura di sé, che a partire dal “modo di sentire” cercava contatto e riappropriazione delle proprie emozioni, degenera così in un compito inesausto di modificazione del “modo di pensare”. Il malessere prodotto dalla società si interiorizza nel disagio psichico: «esso è il riverbero esistenziale di un più generale malessere che attraversa la società» (p. 48). Di fronte alla rabbia e all’invidia, maturate nella forma delle interazioni sociali, a nulla vale anteporre i valori. Le emozioni non nascono dai valori, né da valutazioni cognitive («la narrazione contro i discorsi d’odio forse genera la colpa nel provare odio, ma non impedisce di provarlo» [p. 40]), ma emergono dal nostro essere nel mondo.

E se l’atmosfera che attraversa la società contemporanea è quella dell’ansia; non l’ansia psicotica ma l’ansia sociale che «struttura le interazioni tra le persone e segnala l’aprirsi di crepe entro l’articolazione emozionale» (p. 45), questa ci dice qualcosa sul mondo che viviamo: non si tratta di una sovrastima individuale di fronte a eventi impadroneggiabili, ma è ciò che dagli eventi matura una “dipendenza ontologica”, riflessi nella struttura del vissuto. Ci dice insomma qualcosa in maniera preriflessiva e immediata di una società «che ha fatto della prestazione e della comparazione il suo principio di funzionamento» (p. 51), che ha costruito un soggetto «che deve cercare la propria consistenza nel successo sociale» (ibidem), strutturalmente esposto alla vergogna della “minaccia socio-valutativa”, e all’insicurezza ontologica; qualcosa su come, a partire dall’individualismo e dal progressivo sfaldamento del supporto sociale, il modo di produzione capitalistico accumuli e distribuisca i sentimenti di inadeguatezza, paura, sconfitta esistenziale, maturati dalle interazioni all’interno di un clima emozionale in cui l’esistenza si pone. «La produzione della vergogna è il modo in cui il potere si appropria delle esistenze» (p. 52). Un clima sociale insomma di precarietà (“insicurezza ontologica”) che penetra nella famiglia, nel suo modo di sentirsi al mondo, e quindi nell’esistenza infantile che recepirà quel senso di diffidenza e ostilità – implementate dalla narrazione meritocratica – verso un mondo senza orizzonti di futuro, senza progettualità, con sintomatologie individuali che non fanno altro che riprodurre il sistema stesso, riecheggiando la stessa rete delle interazioni e degli “orizzonti di attesa della comunità” a cui il soggetto appartiene.

Ora, questa continua specularità tra esistenza e società fa da cartina tornasole per «individuare le caratteristiche emozionali del capitalismo odierno» (p. 83), e le condizioni sociali di diseguaglianza che le producono. Costa parla di una lotta di classe emozionale:  «nella misura in cui lo status sociale e la ricchezza divengono il segno socialmente visibile del proprio valore […], la lotta per la ricchezza, prima di essere una lotta per il benessere e per le merci, è allora una lotta per ripartizione delle risorse emozionali» (p. 92). Qui la depressione si manifesta come «una sensazione preriflessiva di espropriazione esistenziale» (p. 98), un’anticipazione implicita che nei ceti marginali «deve proteggere dall’ansia eccessiva che scaturirebbe dall’agonismo in un contesto troppo sfavorevole» (p. 99), riducendo le aspirazioni e inibendo le azioni, con un meccanismo del tutto simile all’habitus che descriveva Bourdieu. Il libro di Costa si dilunga dunque sulle trasformazioni della società di massa, e sui cambiamenti dello ‘stare insieme’ neoliberale: la “criminalizzazione dei legami” di dipendenza reciproca, la perdita della “cultura della comunità” a vantaggio di una continua “contrapposizione commisurante” con gli altri, non solo contribuiscono a un ordine sociale che si incarna nelle esistenze in un “modo di sentire”, insomma come un riverbero emozionale che fa dell’ansia la prima motivazione all’agire, ma vanno grottescamente di pari passo all’imperativo della felicità, all’imperativo di modificare le proprie emozioni in “resilienza”, “buon umore”, “effervescenza”, alterando il “modo di sentirsi nel mondo” in un’alienazione da sé stessi, e sovrapponendosi a quelle che riappariranno come sintomo. Le ultime battute sono dedicate alle questioni irrisolte della logica del dono di Mauss, tipica di “società sicure”, e lasciandone aperti sviluppi futuri.

Un’ultima considerazione, non troppo banale da ripetere. Il libro di Costa esce sul crinale di un periodo in cui assistiamo a un’estrema psicologizzazione privata della sofferenza. Di fronte alla quale imperversano anestetici, “terapie brevi” che premono per un adeguamento motivazionale alle regole del gioco o, da un’altra prospettiva, premono per accettare positivamente i rapporti di dominio (“non basta l’obbedienza, ci vuole proattività, devi essere te stesso”). E su cui quel circolo vizioso tra psicologizzazione e depoliticizzazione viene rafforzato. Più radicalmente, se il dolore cessa di essere verità, se il comportamento emotivamente sofferente cessa di essere quel punto di concrezione tra individuo e società, la mediazione tra struttura e azione, o, per dirla con Adorno, “oggettività che pesa sul soggetto”, la sua anestesia comporta la perdita della critica di ciò che è oggettivamente mediato, e ne porta i presupposti – la critica del sociale. La sofferenza, i comportamenti ansiogeni e depressivi, le emozioni come l’invidia e il rancore, una volta messi a tacere, non sono più un criterio di verità del vissuto, e non portano più alcuna rilevanza politica, ‘non dicono più niente del tuo posto nel mondo’. In fin dei conti anche Freud scriveva, con qualche simile consapevolezza a riguardo, che le nevrosi hanno sempre “motivazioni reali”, motivazioni tessute con realtà vissuta e che il terapeuta deve saper ascoltare, e prendere sul serio. Ma di fronte al rapporto inversamente proporzionale tra interiorizzazione intrapsichica e rivoluzione politica che sempre più sbocca nel privato, nelle paradossali “rivoluzioni interiori”, nei “training emotivi di positività”, nelle pratiche di self-help che, anziché fare i conti con la sofferenza emotiva, predicano forme assolute di volontarismo e di ottimismo coscienzialistico che altro non fanno che sovra-responsabilizzare un soggetto di alcuni rapporti di per se stessi extrasoggettivi, sarebbe utile tenere a mente regola d’oro del materialismo. “Non giudicare l’essere vivente mediante la sua coscienza di sé”, perché la coscienza non basta. E ricominciare ad allargare il campo della visuale alle cose più grandi noi: ai rapporti produttivi delle strutture sociali e all’articolazione emozionale del nostro presente, su cui l’esistenza si innesta.

Lascia un commento

Your email address will not be published.

Ultimi articoli di Linda Dalmonte