Maurice Merleau-Ponty (1908-1961) ha consegnato alla contemporaneità una filosofia peculiare, vicina ai risultati delle scienze e critica rispetto al riduzionismo che esse operano, esistenziale e allo stesso tempo teoretica, fortemente incentrata sull’immanenza ma assolutamente non indifferente alla trascendenza che essa cela.
Una fenomenologia che volge il proprio sguardo al corpo e che proprio da esso inizia il proprio cammino, quasi raccogliendo dal sentiero percorso le tematiche che altre forme filosofiche avevano precedentemente gettato via: la corporeità, la malattia, il limite.
Il corpo
La centralità della condizione corporea è evidente fin da subito nella riflessione filosofica di Merleau-Ponty: in Fenomenologia della percezione (1945) il corpo è senza dubbio presentato come il protagonista della riflessione fenomenologica del filosofo francese, e ad esso è non a caso interamente dedicata la prima sezione dell’opera, particolarmente densa di rimandi ai temi sviluppati nelle pagine successive.
Per Merleau-Ponty il corpo è l’unica soggettività accettabile e la corporeità umana, accompagnata dalla coscienza che in essa sorge, si presenta a questo mondo fitta di significati e mossa da un desiderio che è innanzitutto “fame” di mondo e volontà di svilupparsi in esso e attraverso esso: sulla scia di queste riflessioni vengono presentate alcune nozioni assolutamente centrali, come quelle di intenzionalità motoria e di schema corporeo, poste in essere proprio nel tentativo di ribadire la centralità della vita pratica su quella riflessiva e di delineare il modo in cui la corporeità modifichi se stessa per acquisire senso nel mondo e dar luogo al senso nel proprio mondo.
Riappropriandosi filosoficamente della centralità del corpo, la riflessione di Merleau-Ponty fa emergere tutto ciò che è ad esso sotteso, consegnandoci un approccio diverso e ponendo come centrali le questioni del limite e del “difetto”: l’accettazione della propria corporeità permette infatti alla soggettività di ritornare a tematizzare la propria limitatezza e di scoprire non solo che il soggetto non governa il proprio agire perché agisce spesso spontaneamente nel mondo ma anche e soprattutto che tale mondo si rivela come ambiguo e problematico proprio perché sfugge al dominio e al pensiero dell’individualità a cui prima era ridotto.
La soggettività che l’autore fa emergere da Fenomenologia della percezione appare infatti tanto depotenziata quanto realistica: essa non è strettamente padrona di se stessa né del mondo che la circonda, è piuttosto gettata nella contingenza, aperta alla possibilità, toccata, nel bene e nel male, da ciò che le sta attorno; essa è passibile di malattia in quanto non è più qualcosa che rifugge da questo mondo ma più coerentemente è un ente che nasce nel mondo, sviluppa il proprio senso e cessa di esistere in esso.
La malattia
Il tema della malattia è, in virtù di tutto ciò, centrale nella riflessione di Merleau-Ponty e tale centralità si rivela ancor prima della sua opera più nota, imponendosi nelle riflessioni dell’autore già a partire dalla prima delle sue pubblicazioni filosofiche.
In Struttura del comportamento (1942) si afferma infatti:
Ma d’altra parte la coscienza scopre, in particolare nella malattia, una resistenza del corpo proprio. Poiché una ferita agli occhi è sufficiente a togliere la vista, ci accorgiamo di vedere attraverso il corpo. Poiché una malattia basta a modificare il mondo fenomenico, ci accorgiamo che il corpo fa da schermo tra noi e le cose[1].
La visione cessa, con questo passaggio, di essere considerata cartesianamente come “pensiero di visione” e assume le caratteristiche di un evento che si delinea non solo verso i corpi ma attraverso il corpo: la malattia rende in questo senso meno trasparente il velo sovente costituito dalla nostra corporeità e rende evidente alla soggettività come il proprio agire, il proprio desiderare, il proprio pensare si innalzino dal proprio corpo trovando un inizio e un’esistenza proprio a partire da esso.
La malattia dunque può radicalmente modificare l’esistenza dell’individuo: in certi casi può corroderla e farla cessare, in altri è rivolgimento dell’esistenza verso le proprie condizioni; la soggettività viene dunque chiamata, da se stessa, a ripensare, nonostante e attraverso la malattia, la propria vita nell’unità di un senso nuovo, cercando di direzionare il proprio vivere e costruendo una nuova normatività.
Ed è in questo senso che forse “Non sarà più un paradosso affermare che il Greco era astigmatico perché produceva corpi allungati”[2]: una condizione patologica adoperata in maniera esistenziale e reintegrata nel senso del vivere si trasforma, per l’appunto, in significato vitale e in esperienza estetica.
Il punto di sostanziale rilevanza (e antimodernità) dell’approccio filosofico dell’autore non è però semplicemente costituito dalla scelta di reintegrare la tematica della malattia nella trattazione filosofica, ma anche e soprattutto nell’adoperare certe condizioni patologiche per edificare tesi inerenti proprio la normalità che la malattia sembrerebbe spezzare: in ciò alcuni casi di afasia diventano istantaneamente strumenti per dimostrare l’intima correlazione che si stabilisce tra percezione e linguaggio come se, venendo meno nella malattia, lo strumento linguistico mostrasse meglio il modo in cui esso articola profondamente il comportamento della soggettività nel mondo.
La modernità cartesiana
Richiamate le tematiche della centralità del corpo e della malattia, si potrebbe ora obiettare a Merleau-Ponty che non solo la “fenomenologia si confonde con lo sforzo del pensiero moderno”[3] ma che essa si caratterizza, nella sua metodologia filosofica, anche e soprattutto per uno sforzo di pensiero antimoderno, contrario alla modernità cartesiana e al tipo di soggettività che essa, in particolar modo nelle Meditazioni Metafisiche, consegna al dibattito filosofico.
Tale tematica è particolarmente evidente proprio a partire della prima sezione dell’opera cartesiana: Descartes estende il dubbio al reale e agli oggetti e fa chiedere all’io narrante se sia possibile non pensare come suo il proprio stesso corpo, così abituato a pensarlo in intima connessione con il proprio sé.
“E per nessuna ragione si potrebbe mai negare che esistono davvero le mie mani, e tutto intero questo corpo che è mio, a meno che io non mi consideri simile a certi pazzi che hanno il cervello così sconvolto dai pesanti vapori della bile da sostenere fermamente di essere dei re…”[4]
Due, quindi, le condizioni che potrebbero far sfumare la certezza del soggetto rispetto all’ancoratezza al proprio corpo: la follia, e dunque la malattia, e lo stato di sonno, tematica affrontata nell’opera proprio a partire dal paragrafo seguente.
Il punto centrale dell’argomentazione cartesiana e della sua problematicità è costituito proprio dalla dicotomia sonno-follia: esposta infatti la possibilità della malattia, la riflessione dell’io narrante prosegue oltre a sondare la condizione del sonno, non prendendo seriamente in considerazione la possibilità che il soggetto meditante sia malato.
Tale scelta argomentativa ha innestato nel dibattito filosofico contemporaneo, in particolar modo in quello francese, non poche riflessioni; sulla scelta dell’io cartesiano si sono interrogati, e confrontati, Michel Foucault (1926-1984) e Jacques Derrida (1930-2004): il primo sostenne nella propria tesi dottorale[5] che l’esclusione della follia dal sistema cartesiano debba essere interpretata come il segno dell’esclusione della diversità dalla società, non a caso il Cinquecento vede sorgere i primi istituti di internamento, il secondo sottolineò invece che l’accettazione da parte dell’io narrante della possibilità di essere più o meno folle avrebbe privato l’io della sua legittimazione a fare filosofia e ad interrogarsi.
Indipendentemente dall’interpretazione specifica che si affibbia all’argomentazione cartesiana, e da questo punto di vista non è forse strettamente necessario pensare le due interpretazioni come nettamente esclusive l’una rispetto all’altra, diviene però lampante l’errore di questa filosofia del moderno che è quella cartesiana: il non aver considerato che “questo mondo si offre anche agli animali, ai bambini, ai primitivi, ai folli che lo abitano a modo loro e che coesistono con esso”[6] e dunque di aver dato luogo ad una filosofia senza uomo.
Non essendo passibile di malattia, di possibilità di difetto, il soggetto cartesiano cessa dunque di essere assimilabile all’ente umano e alla limitatezza che esso reca con sé: l’uomo non riconosce se stesso in questa filosofia e risulta dunque legittimo affermare che “un cartesiano non si vede nello specchio: vede un manichino, un “fuori”.[7]
La filosofia di Merleau-Ponty consente invece alla soggettività di riappropriarsi del proprio corpo e della trascendenza che esso cela: la vita umana diviene in conclusione totalità aperta e contingente, passibile di movimento e di rottura, limitata e assieme consapevole del fatto che il proprio limite e la propria ambiguità consistono nella sua esistenza e la strutturano.
Articolo di Gabriele Iacono
[1] M. Merleau-Ponty, La struttura del comportamento, a cura di A. Scotti, Mimesis, Milano-Udine 2019, p. 284
[2] Ivi., pp. 302-303
[3] M. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, trad. it. di A. Bonomi, Bompiani, Milano 2023, p. 31
[4] R. Descartes, Meditazioni metafisiche, tr. it. S. Landucci, Laterza, Roma-Bari 2021, p.29
[5] M. Foucault, Storia della follia nell’età classica (1963)
[6] M. Merleau-Ponty, Conversazioni, SE, Milano 2002, p.44
[7] M. Merleau-Ponty, L’occhio e lo spirito, SE, Milano 1989, p. 30.