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Highway americana e linee di fuga: una lettura deleuziana di “Play It As It Lays”

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Il 13 Luglio scorso ricorrevano i 54 anni dalla pubblicazione di Play It As It Lays, secondo romanzo di Joan Didion e primo grande successo letterario di quest’ultima. Il libro, che come è noto venne dato alle stampa nonostante la somma disillusione di Didion stessa (Anilao, 2012), può essere letto in molte maniere, ed offre una pluralità di piani d’analisi che lo rende un eccellente oggetto teorico, su cui e attraverso cui la riflessione speculativa e critica trovano ampio margine di esercizio: possiamo scorgervi un testo sociale, che senza mai essere sociologico descrive le dinamiche predatorie dello Star-System hollywoodiano; possiamo leggerlo come un testo psicologico, devoto all’espressione di una condizione di progressiva perdita di coerenza e lucidità mentale da parte della protagonista; possiamo interpretarlo come un testo femminista, capace di mettere in luce le intollerabili violenze della società borghese americana, tanto plastica e patinata quanto spontaneamente misogina. In effetti, il confronto con il fallimento, lo scivolamento verso il delirio, la violenza fisica, mentale e strutturale che Didion ci restituisce, sono tutti elementi che coesistono, contribuendo a rendere Play It As It Lays il classico che effettivamente è.

Il libro racconta le vicende della vita di Maria Wyeth, attrice cinematografica in pieno declino e sull’orlo del collasso lavorativo e personale, attraverso uno stile ricercatamente frammentario sotto tutti i punti di vista: l’abbandono di ogni linearità nella narrazione, attraverso l’uso continuo e incessante di flashback e di flash forward, si accompagna a una dissezione totale del flusso testuale, mediante una strutturazione in capitoli brevissimi che oscillano tra le poche righe e il paio di pagine. In tal senso, Play It As It Lays è un romanzo fortemente cinematografico, che si sforza in tutti i modi di mettere chi legge di fronte alla necessità di trattare l’atto del racconto come un qualcosa di scomponibile, sottoposto alle esigenze dettate dalla memoria, dal ricordo, dalla rimozione traumatica, dalla distorsione alcolica o farmacologica. A tutto ciò va aggiunto il folgorante incipit del testo, in cui anche il punto di vista della narrazione viene costantemente rimesso in discussione con una triplice operazione di spostamento della voce narrante, che passa da Maria a Helene, amica di Maria e moglie del cruciale BZ, a Carter, ex marito violento della protagonista e regista di successo, contribuendo così ad un decentramento prospettico che permette di inserirsi sin da subito nelle dinamiche deliranti e a tratti psicotiche del romanzo (Hinchman, 1985).

La brevità del libro contribuisce senza dubbio a renderlo un’esperienza di lettura tanto agile quanto folgorante, tanto rapida quanto inquietante, tanto veloce quanto disturbante: in poche, brevi pagine, Didion ci costringe ad un confronto serrato ed intimo con la morte, con la depressione, con il lutto, con l’abuso, con il trauma, con la disperazione e con la psicosi, senza mai risparmiarci di guardare in fondo all’abisso dell’esperienza esistenziale umana (Geherin, 1974). Eppure, tale dimensione intimista è solo una faccia del romanzo, essenziale certo, ma incompleta senza l’altra metà che lo compone poiché, come viene spesso ripetuto, sono gli Stati Uniti d’America, in particolare l’area compresa tra California, Arizona e Nevada, i veri coprotagonisti di Play It As It Lays. Non c’è Maria Wyeth, con i suoi fantasmi, senza le immense highway su cui sfoga tutto il proprio malessere

Per decifrare in maniera interessante un testo così ben riuscito quanto poco letterariamente ortodosso, occorre forse adottare approcci altrettanto poco ortodossi. A volte, preoccupandoci meno della correttezza teorica di certe connessioni, possiamo tentare accostamenti produttivi capaci di mettere in moto le medesime coppie concettuali, quali quella Maria-highway, secondo modalità nuove e differenti. Si tratta, per dirla con Gilles Deleuze e Felix Guattari, di chiedersi se sia possibile produrre dei nuovi concatenamenti  anche a partire dal medesimo materiale. Nei termini del romanzo di Didion, come si può rendere conto, e dunque congiungere, l’esperienza di Maria con l’importanza che essa accorda all’autostrada e alla guida senza scopo e senza meta?

Una via ancora non battuta, e secondo chi scrive potenzialmente interessante, partirebbe da un carattere essenziale di Play It As It Lays, vale a dire la sua “americanità”: il libro è americano o, meglio, statunitense in tutto e per tutto, e non perché celebri i valori o lo stile di vita degli U.S.A. Quello di Didion è un romanzo statunitense perché sceglie consapevolmente di entrare in un corpo a corpo con le promesse, i sogni, le aspirazioni della propria nazione saggiandone da un lato l’inconsistenza, l’illusorietà, la finzione, dall’altro la superficialità, la vacuità, l’estrema leggerezza. Se apparentemente il dramma psichico di Maria si dispiega entro un contesto di città che hanno perso il loro splendore, di affari mancati, di fallimenti e bancarotte morali oltre che economiche, tuttavia, la posizione unicamente critica rispetto all’ambiente non restituisce adeguatamente la profondità dell’intreccio tra personaggio e ambiente, una distinzione quest’ultima che perde totalmente di consistenza di fronte al rapporto conflittualmente simbiotico tra i due elementi.

L’equidistanza di Didion sia da un’attitudine meramente critica sia da una ciecamente apologetica, oltretutto, si presta molto bene ad un’interpretazione post-critica del testo che, pur riconoscendo l’impossibilità di aderire ad un Reale terribile e insopportabile quanto quello della tarda modernità capitalistica, sa al contempo cogliere quella relazione ineludibile col mondo che Hartmut Rosa chiamava “risonanza” (Anker & Felski, 2017). Proprio nella risonanza sta allora l’americanità di Play It As It Lays, nella piena coscienza di come l’attraversamento dei luoghi sia anche, sempre e comunque, una forma di contaminazione relazionale spesso irreversibile. Guidando a lungo e senza obiettivi, mete, percorsi prestabiliti, Maria lascia che sia l’autostrada americana a far fluire i suoi pensieri, i più dolorosi e inconfessabili così come i più quotidiani e banali, mentre l’autostrada stessa lascia in un certo senso “scorrere” Maria con la sua auto. Dove è l’ambiente, il contesto, e dove il personaggio? Che confini fissi e stabili possiamo definire tra una psiche che eccede la mente materializzandosi nel paesaggio e un paesaggio che eccede la materia confondendosi con l’anima? Ha ancora senso pensare a Maria in quanto ente inserito in un contesto in quanto contenitore? L’autostrada è del resto proprio la cristallizzazione di tutte quelle contraddizioni di cui sopra: inconsistente, illusoria, finta, poiché uguale a sé stessa ovunque; superficiale, vuota, leggera, poiché in grado di portare apparentemente ovunque. Il corpo a corpo di Maria con l’autostrada è dunque il corpo a corpo con gli States, contemporaneamente opportunità di fuga e condanna al declino.

«Partir, s’évader, c’est tracer une ligne» [«Fuggire, evadere, è tracciare una linea»] dice Gilles Deleuze all’inizio di De la supériorité de la Littérature Anglaise-Américaine, noto dialogo con Claire Parnet. Per Deleuze la letteratura americana è superiore a quella europea perché il suo divenire è geografico, e per questo intrinsecamente creativo, capace cioè di generare nuovi mondi, nuove mappe, nuove deterritorializzazioni. Se nella letteratura francese i protagonisti hanno un segreto da nascondere, in quella americana il segreto è nei personaggi stessi, che si presentano creando linee di fuga, muovendosi e dunque incarnando di volta in volta un divenire differente: non più creature ripiegate su sé stesse con caratteristiche definite attaccate come etichette e un segreto posseduto e oggettificato, ma pure intensità che materializzano i propri fantasmi fuggendo e che si caricano di volta in volta degli elementi che le contaminano lungo il percorso. Nel dialogo, inoltre, Deleuze ci avverte di quanto anche il pericolo, il rischio della distruzione e dell’autodistruzione, siano sempre in agguato in ogni linea di fuga, poiché essendo quest’ultima come un delirio l’esposizione al rischio del suo deragliamento è imprevedibile e incalcolabile (Deleuze & Parnet, 1996). 

Senza volerlo e senza saperlo, Deleuze è profondamente presente in Play It As It Lays: il modo di guidare di Maria è massimamente nomadico, consiste nel tracciare una linea costruendo così nuove geografie temporanee; il personaggio di Maria non ha un segreto ma è i suoi segreti, diviene i suoi spettri e i suoi demoni; Didion non ci elenca mai una serie di caratteristiche di Maria, preferisce invece far parlare ciò che le accade di volta in volta sul percorso, le intensità che vanno a costituirla. Una lettura deleuziana del romanzo, pur essendo ben fuori dalle intenzioni di Didion, apre Play It As It Lays al nomadismo, alla schizoanalisi elaborata con Guattari, a una comprensione della sofferenza mentale di Maria che va ben oltre alle coordinate di quella stessa psichiatria che la internerà, e che prende pienamente in considerazione tutta quella complessa confluenza tra soggettività delirante e Stati Uniti d’America che Didion mette in scena.

Ecco allora che la highway americana, terribile ma leggera, si rivela essere come l’inspiegabile nothing di cui Maria si ammala…

Articolo di Simone Zanello

Bibliografia

Anilao, A. (2012, February 1). An Interview with Joan Didion. Believer Magazine. https://www.thebeliever.net/an-interview-with-joan-didion/

Anker, E. S., & Felski, R. (2017). INTRODUCTION. In E. S. Anker & R. Felski (Eds.), Critique and Postcritique (pp. 1–28). Duke University Press.

Deleuze, G., & Parnet, C. (1996). De la supériorité de la littérature anglaise-américaine. In Dialogues (pp. 45–91). Champs, Flammarion.

Geherin, D. J. (1974). Nothingness and Beyond: Joan Didion’s Play It As It Lays. Critique: Studies in Contemporary Fiction, 16(1), 64–78.

Hinchman, S. K. (1985). Making Sense and Making Stories: Problems of Cognition and Narration in Joan Didion’s ‘Play It as It Lays’. The Centennial Review, 29(4), 457–473.

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