Per un’Etica della Continuità: Spinoza e i classici del Pragmatismo Americano

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La visione di Palomar: verso il Pragmatismo Americano

Nel suo romanzo Palomar, Italo Calvino dedica una sezione delle meditazioni dell’omonimo protagonista ad una delle questioni capitali dell’inquiry filosofica, la relazione tra soggetto-oggetto, colta in tutta la sua ambiguità ontologica ed epistemologica. Com’è che ci rapportiamo al mondo? Come possiamo tracciare una cartografia, alla Deleuze, che ghermisca, senza inciampi riduzionistici, le pieghe di una relazione tanto complessa?

Come si fa a guardare qualcosa lasciando da parte l’io? Di chi sono gli occhi che guardano? Non è anche lui un pezzo di mondo che sta guardando un altro pezzo di mondo?

Il signor Palomar non è poi così convinto che il “dualismo cartesiano”, radicato nella tradizione metafisica occidentale, con le sue spartizione sostanzialistiche tra interno ed esterno, ego cogito e mondo, mente e corpo, funzioni davvero. La verità del suo cash-value – come direbbe William James – non lo convince fino in fondo. Dubita metodicamente. Ma non che è forse il mondo guarda il mondo? Monismo=Pluralismo, scrivono Deleuze e Guattari in Mille Piani. Continuità, anziché divisione.

Ma cosa implica pensare la continuità? Cos’è propriamente quello che facciamo quando pensiamo la continuità? Parafrasando le domande di Nietzsche in Aurora, che cosa vogliamo precisamente con tutto ciò?

Pensare la continuità: Spinoza e pragmatismo americano

Pensare la continuità in luogo della divisione conduce ad abiti di pensiero e azione potenzialmente trasformativi, ad una rinnovata etopoietica nei nostri abiti di rapporto con il mondo, che scopriamo essere non l’Altro da noi, ma una nostra rimodulazione tonale, espressiva, e “noi” di lui”. La sostanza è in tutti i suoi modi, e tutti i modi sono nella sostanza, spinozianamente. La continuità che risuona nell’edificio teatrale dell’Etica (pubblicata postuma nel 1677) rimediata dalla lente panenteistica del suo autore, il medesimo “clamore d’essere”, alla Deleuze, torreggia nelle pagine degli autori classici del Pragmatismo Americano. Senza che sia qui possibile tracciarne con precisione i contorni, basti sottolineare che nelle pagine degli autori pragmatisti la direttrice sotterranea è quella della continuità, rimodulata secondo tonalità espressive differenti: il Sinechismo, (dal greco συνεχής «continuo»), nella metafisica ideal-realista di C. S. Peirce, sorretta da tichismo ed agapismo, il Principio di Simmetria nell’universo pluralistico dei Saggi di Empirismo Radicale di W. James, e il Paradigma della Transazione organismo-ambiente nello strumentalismo sperimentalistico di J. Dewey.

Tonalità che meritano uno scavo concettuale adeguato, da rimandarsi ad un articolo successivo. Basti qui sottolineare la filiazione comune della triade appena delineata: l’evoluzionismo darwiniano, che a fine ottocento penetrando all’interno del Club Metafisico dell’Università di Cambridge grazie all’operazione di mediazione di C. Wright, ribalta a testa in giù, nietzschianamente, gli idola tribus del pensiero metafisico. Costringe e ci costringe ad un’ortopedia posturale, ad una conversione (nel senso greco dell’ad-vertere) trasformativa della Weltashauung cartesiana, sostanzialistica e dualista, tutta nostra, con cui ci pensiamo in rapporto al mondo. Un urto, uno sforzo ginnico di pensiero che resta tutt’oggi per lo più impensato, folle, funambolo, indigesto.

Noi siamo noi, il mondo il mondo, Natura non è Cultura, Umano non è Tecnico, Mente non è corpo, Materia non è Spirito. Società non è Natura. Dentro non è Fuori. Questa è la nostra costituzione di Mai Moderni, per dirla alla Latour.

Oltre il dualismo: notazioni per un’etica della continuità

Si può pensare altrimenti? O Palomar resta un passo avanti a noi?

Cosa significa pensare la continuità? E secondo l’attitudine vocazionale pragmatista, quali sono gli effetti etici di un pensiero che sa pensare la continuità?

Spinoza tendeva all’acquiescentia in se ipso, alla beatitudo forticata dalla potentia intelligendi, che riconosciute le necessità della propria natura giunge alla liberazione dalla schiavitù degli affetti, dei pregiudizi e delle superstizioni. L’edificio dell’Etica è un percorso a stazioni, dal vestibolo metafisico al naos etico.

Peirce fondava la propria logica sull’etica, da intendersi come scienza della condotta, retta da fede, speranza e carità, ed orientata alla crescita concreta della ragionevolezza della comunità di ricerca. Il suo triplice edificio delle Scienze Normative, Estetica-Logica-Etica, si regge intorno alla capacità di acquisire abiti deliberati ed autocontrollati di rapporto con il mondo.

Noi?

Un ringraziamento particolare va alla Professoressa Rossella Fabbrichesi, ordinaria di Teoretica Filosofica e Filosofia delle Pratiche presso la Statale di Milano, nonché specialista internazionale del pensiero di C. S. Peirce. Il riferimento in apertura a Palomar, e molte delle notazioni teoretiche qui introdotte nascono dalla frequentazione assidua del suo pensiero dinamogenico.

Alexia Buondioli

Laureata in Filosofia Teoretica ed iscritta alla magistrale di Scienze Filosofiche presso Unimi, individuo nella scrittura e nel viaggio le mie frontiere esistenziali. Mi nutro di attività sportiva, relazioni interpersonali e caos creativo.

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