(Ri)pensare l’anthropos che conosce: contro l’oblio del fattore “x”

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Contro l’Oblio del Fattore “X”: (Ri)Pensare l’Anthropos

Non solo “cos’è conoscenza?, ma “chi conosce?”, “qual è il suo posizionamento?” Quando si fa epistemologia (ri)pensare l‘anthropos che conosce è un requisito di metodo improrogabile per non procedere accecati dall'”abbaglio del segno”.

«La grandezza dell’uomo è di essere un ponte e non uno scopo: nell’uomo si può amare che egli sia una transizione e un tramonto. Io amo coloro che non sanno vivere se non tramontando, poiché essi sono una transizione» (Friedrich Nietzsche, Così Parlò Zarathustra, Prologo).

“Un ponte e non uno scopo”. Nel tentativo di riflettere di epistemologia ci si adagia qui ed ora – occorre anzitutto dichiarare da dove si parte – alla poeticità del prologo di “Così Parlò Zarathustra” – tra le opere nietzscheane, forse, la più vocazionalmente didascalica – per una ragione ben precisa. Tra i personaggi concettuali prediletti da chi scrive, avendo modellato la sua vita intellettuale intorno alla questione ineludibile del “tramonto dell’uomo”, per noi qui “anthropos,”, Nietzsche dispone dei requisiti necessari per vestire i panni del nostro Zarathustra.

Il ponte oltre l’uomo. Opera dell’artista Liliana Sanna, su gentile concessione a Rivista Palomar.

In questioni di epistemologia non si può prescindere da “questioni di umanità. L’uomo è ponte e non scopo nel cammino epistemologico della conoscenza nella misura in cui ne è di necessità co-autore – la conoscenza è sempre pubblica, mai privata -, seppur non fine ultimo. Si conosce a partire da dove si è entro il solco della propria increspatura squisitamente singolare, ma nell’atto “universale” del conoscere si compartecipa a quel tutto che è ancora da farsi. Singolare Universale nei termini dell’ultimo Sartre.

La grandezza dell’uomo risiede nella sua “capacità di tramontare”, per l’appunto, che è altro non è che l’esito di un processo continuo, asketico, di vigilanza (auto)-genealogica sul proprio conoscere. Per cui certamente non si conosce che a partire da ciò che si è, ma nel conoscere ci si trasforma ed insieme si trasforma “quel che c’è del mondo” – espressione siniana- che è medesimo ed altro da noi. Si diviene. Come nell'”Etica” di Spinoza dove ciascun modo trascolora nella sostanza, e la sostanza si esprime per tramite di ciascuno dei suoi modi, l’uomo è ponte del processo comune o comunitario che definiamo “conoscenza”, e la “conoscenza” si concreta tramite le sue pratiche. La grandezza dell’uomo è di essere un ponte, non un fine ultimo. Ecce Zarathustra.

Il segno come analogon: l’abbaglio di De Saussure

“Da Copernico in poi l’uomo scivola dal centro verso una x”. (Nietzsche, Frammenti Postumi).

Tratta dai “Frammenti Postumi”, la notazione nietzscheana ci consente di procedere oltre il guado già tracciato raccogliendo l’attenzione teoretica intorno alla questione della conoscenza. Decentrando metodologicamente il tema dell’anthropos – epoché necessaria- si tratta di indagare il cammino veritativo del conoscere interrogandone il medium espressivo, il segno. Che cos’è un segno?

Logos alato. Opera dell’artista Liliana Sanna, su gentile concessione a Rivista Palomar.

La risposta saussuriana, “qualcosa che sta al posto di qualcos’altro”, presuppone una schematicità diadica, significato (senso convenzionale) e significante (fonemi e grafemi), che eludendo il campo materiale dell’instanziarsi del segno non coglie l’universale entro cui si dà la singolarità di ogni anthropos; fa come se il flusso segnico potesse procedere indipendentemente, in quanto squisitamente astratto, pura teoresi, dalla pratiche del suo farsi. Circoscrivendo la linguistica allo studio delle regole formali (orto-grammaticali e sintattiche) della lingua e ai significati delle parole nei diversi idiomi, De Saussure oblia gli apriori storico-culturali dei processi epistemici ricadendo nell’abbaglio del segno per cui le parole si danno senza le cose, e le cose senza le parole.

La risposta saussuriana alla domanda sul segno sottende la diade agonale che scinde teoria e prassi, traducendosi in campo epistemologico nella più nota contrapposizione tra oggetti e soggetti, “reificati” di conoscenza. Da un lato le parole e dall’altro le cose come se fossero substantiae (dal latino sub-stare: stare su) dotate di in-seità e per-seità onto-epistemologica autosufficiente, in sé e per sé auto-fondate, essenze a-storiche feticizzate. Telos ultimi, anziché transiti. Per De Saussure il segno è un analogon, copia interna del dato reale esterno, unione di significato e significante, in rapporto rappresentazionale con il referente di cui si fa simulacro. Imponendo un abisso ontologico tra interno ed esterno, il rappresentazionalismo, per cui l’ente è altro dall’idea di cui è copia, e viceversa, oblia la mediazione pratica tra parola e mondo di cui il segno è figura. Singolare vs Universale, Privato vs Pubblico, Oggetto vs Soggetto. Ecce l’abbaglio del segno.

ll segno come rimando: lo schema tradico di C. S. Peirce

Per ripristinare la relazione tra parole e cose, senza operare tagli cartesiani tra substantiae distinte, occorre dunque pensare alternativamente la dimensione rappresentativa del rimando segnico. Qual è il carattere del per, ossia del medium segnico? Come si può definire il segno?

“Un segno o representamen è qualcosa che sta a qualcuno per qualcosa sotto qualche rispetto o capacità”.

Tra i padri fondatori del Pragmatismo Americano, accanto a William James, Charles Sanders Peirce ha pensato alternativamente al segno a partire da una schema concettuale triadico di natura inferenziale. Segno, oggetto ed interpretante si danno simultaneamente e l’uno per l’altro in un rinvio inferenziale strutturalmente aperto al farsi e rifarsi infinito delle pratiche significative entro cui si stagliano gli oggetti e i soggetti della conoscenza. Mai assoluti, nel senso di sciolti dalle pratiche storico-sociale entro cui si incarnano, i segni stanno per qualcosa, come nota Peirce, per qualcosa, non qualcuno, che li interpreta.

Logos alato 2. Opera dell’artista Liliana Sanna, su gentile concessione a Rivista Palomar.

Il terzo polo della relazione segnica, l’anello mancante dello schema diadico saussuriano, definito “interpretante” non corrisponde all’interprete, e dunque al soggetto classico, preso in sé e per sé, solipsisticamente, ma al contesto (traducibile in inglese come “frame” o “context”) inteso come il campo significativo più vasto delle pratiche storico-sociali entro cui si radicano ora il segno ora il suo portatore, ossia il nostro “anthropos“.

“[..] la realtà è indipendente non necessariamente dal pensiero in generale, ma solo da ciò che voi e io o ogni numero finito di uomini può pensare di essa; e dall’altro lato che, per quanto l’oggetto dell’opinione finale dipenda da quest’opinione, tuttavia ciò che l’opinione è non dipende da ciò che voi o io o qualsiasi uomo pensi.” (Peirce, Come Rendere Chiare le Nostre Idee, 1878).

Ecce Peirce.

Contro l’Oblio dell’Anthropos: vigilanza e posizionamento

Ciascuno di noi contribuisce, ossia compartecipa, alla produzione, sempre da farsi, della conoscenza a partire dalla sua incrinatura singolare – per utilizzare un’espressione siniana – ossia dalla sua postura qui ed ora, senza che sia gli/le sia possibile svincolarsene olisticamente. Siamo figli della nostra epoca, e come notava Foucault, ogni epoca ha le sue parole e le sue cose. Non si dà conoscenza che sia assolutamente privata, a meno di non obliare fittiziamente i suoi apriori storico culturali. Occorre invece riconoscere che ogni agente singolare contribuisce al cammino collettivo o universale del sapere, prodotto all’infinito nelle pratiche significative della comunità di ricerca.

Conoscere se stessi, dunque, in chiave non banalmente introspettiva nel senso di psicologistica, è una postilla di metodo ineludibile per non procedere accecati nel cammino della conoscenza. Eludere la domanda sul proprio posizionamento significa squalificare qualunque pretesa di oggettività nei propri discorsi, sulla base di un’assunzione impossibile: essere altro dal mondo, e disporre di un punto di vista esterno, trascendente, scisso dall’immanenza assoluta del campo delle pratiche in cui siamo iscritti come co-attori e co-prodotti singolare.

Non conosciamo che a partire dalla nostra postura qui ed ora. Insomma, si tratta di imparare a tramontare per non farsi “ultimi uomini”, narcisisti in materia di conoscenze viventi qualunque sia l’oggetto di indagine.

Logos alato. Opera dell’artista Liliana Sanna, su gentile concessione a Rivista Palomar.

“Guai! Si avvicinano i tempi in cui l’uomo non partorirà più stella alcuna. Guai! Si avvicinano i tempi dell’uomo più spregevole, quegli che non sa disprezzare se stesso. […] Oggi si è intelligenti e si sa per filo e per segno come sono andate le cose: così la materia di scherno è senza fine. Sì, ci si bisticcia ancora, ma si fa pace al più presto – per non guastarsi lo stomaco. Una vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte: salva restando la salute” (Nietzsche, Così Parlò Zarathustra).

Tutte le immagini dell’articolo sono opere dell’artista Liliana Sanna, che ringraziamo.

Alexia Buondioli

Laureata in Filosofia Teoretica ed iscritta alla magistrale di Scienze Filosofiche presso Unimi, individuo nella scrittura e nel viaggio le mie frontiere esistenziali. Mi nutro di attività sportiva, relazioni interpersonali e caos creativo.

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