Teoria per il cambiamento climatico: Andreas Malm in sintesi

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Il punto di partenza di Andreas Malm, autore centrale all’interno del dibattito sul cambiamento climatico, coincide con una posizione marxista classica: la teoria serve all’azione. Nelle prime pagine del suo libro The Progress of This Storm, Malm assegna alla teoria sia un ruolo “negativo” che uno “positivo”. Da un lato, in linea con l’insegnamento di Bhaskar, la teoria deve svolgere una funzione di chiarificazione, eliminando le oscurità e correggendo concettualizzazioni errate: “la teoria può rendere la situazione più chiara mentre altri potrebbero confonderla”. Dall’altro lato, la teoria deve indicare il percorso che conduce all’azione. Quindi, prima di tutto, la teoria ha uno scopo pratico.

La teoria stessa fa parte del problema: “se tutto deve essere rivalutato in un mondo in riscaldamento, questo deve valere anche per la teoria: anche la teoria è chiamata a rendere conto di sé, a dimostrare la propria rilevanza e dichiarare i propri contributi”. Il cambiamento climatico e la crisi ecologica richiedono che la teoria si riconfiguri per fornire soluzioni pratiche nel contesto attuale. Questo legame tra il lato negativo della teoria e il suo ruolo positivo è reso chiaro dall’uso che Malm fa del concetto di “presente“: lo scopo della teoria è teorizzare il presente, mentre la teoria è per il presente. Il nostro presente è una “tempesta”, come scrive Malm richiamando Walter Benjamin, in cui il capitale fossile, nella sua corsa verso l’autovalorizzazione, accelera il progresso della storia verso una catastrofe definitiva.

Secondo Malm, la teoria emerge come risposta a un’irruzione storica (un mondo in riscaldamento e le sue conseguenze distruttive per la vita umana), che deve essere chiarita per aprire o indicare il cammino verso l’azione. L’azione segue direttamente dalla teoria. Sebbene questo processo sia circolare, possiamo dedurre dal testo che i suoi criteri sono due. Il primo è la presenza di una crisi. In questo caso, una crisi ecologica: “Riconoscere che c’è una crisi ecologica con grande potenziale di influenzare gli esseri umani significa rompere con il dualismo della sostanza”. Questo riconoscimento è fondato, secondo Malm, su una visione realista della scienza, che fornisce dati concreti riguardanti il mondo naturale. Il secondo criterio è la chiarezza, che possiamo intendere come la capacità di distinguere, nei discorsi attuali, comprese le interpretazioni filosofiche sul cambiamento climatico, ciò che non ostacola l’azione.

Questo approccio “pratico” alla teoria guida la scelta dei concetti che devono chiarire il cammino verso l’azione, e il materialismo storico rappresenta la migliore opzione tra i possibili quadri teorici. E questo per due ragioni. Primo, contro l’ibridismo di Latour e il nuovo materialismo in generale, il materialismo storico non collassa la distinzione tra natura e società e, secondo, consente di pensare alla loro relazione e alla loro differenza reciproca. Il quadro generale di Malm è rappresentato da ciò che egli chiama “monismo della sostanza e dualismo delle proprietà”. Esiste una sostanza unica e unificata – la materia – che presenta “una pluralità” di proprietà, tra le quali natura e società costituiscono due di esse. Ma cosa sono allora “natura” e “società”? Scegliendo una postura realista, orientata alla scienza e dialettica – contro un’ontologia costruttivista, neo-materialista e piatta – Malm fornisce una definizione basilare e operativa delle due: mentre la natura rappresenta l’insieme delle strutture e dei processi materiali che non sono prodotti dall’attività umana e che forniscono le condizioni di ogni pratica umana, la società è un’articolazione particolare di quelle strutture materiali che emerge da esse e al loro interno. Pertanto, come specifica Malm, le relazioni sociali “sono esattamente materiali in sostanza e assolutamente impensabili al di fuori della natura, ma mostrano anche proprietà emergenti diverse da quelle della natura”. La natura, quindi, è ontologicamente prioritaria rispetto alla società: è autonoma, dove “autonoma” significa la capacità di stabilire la propria legge.

Come indicato, natura e società sono due proprietà diverse della stessa sostanza materiale. Malm adotta quindi una struttura stratificata in cui la società e la natura rappresentano due diverse “super-totalità” annidate l’una dentro l’altra come matrioske russe: la società si appoggia sulla natura, è fatta di natura ma, allo stesso tempo, differisce da essa. La natura è un “terreno” per la società, mentre la società “può essere differenziata dalla natura perché è germogliata dal terreno e si è diramata in direzioni innumerevoli nel corso di ciò che chiamiamo storia”. Qui “germogliata” deve essere inteso come “emersa”, e una proprietà emergente, nel resoconto di Malm, designa una proprietà di un sistema che risulta dall’organizzazione delle sue parti. Inoltre, una proprietà emergente deriva dall’interazione delle parti che compongono una totalità. Questo è il senso in cui deve essere inteso l’ontologia proposta da Malm: come un monismo della sostanza (materia) e un dualismo delle proprietà (natura e società). Questa definizione di base di natura e società si allinea con l’interpretazione specifica di Malm del materialismo storico, che, nella sua reinterpretazione, pone le sue basi precisamente sulla connotazione di “storico” e “materiale” così come articolato nel binomio. “Materialismo” significa che gli esseri umani sono fatti di materia; “storico” indica che le relazioni sociali non possono essere dedotte da essa. Il “materialismo storico”, conclude Malm, “è un dualismo delle proprietà del monismo della sostanza”.

In gioco in queste pagine c’è il tentativo di Malm di pensare la relazione tra natura e società senza ridurre l’una all’altra. Pertanto, il punto di partenza di Malm è che pensare alla natura e alla società in termini emergentisti significa sottolineare la doppia relazione di dipendenza (o, possiamo aggiungere, continuità) e differenza (o, possiamo aggiungere, discontinuità) che lega le due: poiché emerge dalla natura, la società rimane legata alla natura stessa. Da un punto di vista ontologico, è proprio perché sono parti continue del mondo materiale che società e natura si intrecciano. Ma se sono legate da una relazione di emergenza, d’altra parte ciò che emerge possiede nuove proprietà rispetto al suo livello; inoltre, può modificarlo e trasformarlo. Questo è il caso della società e, più in generale, del cambiamento climatico, interpretato da Malm – attraverso la lente del suo racconto del materialismo storico – come l’effetto della “causalità discendente” che la società può esercitare sulla natura: le relazioni sociali si combinano con quelle naturali, alterandole. Il cambiamento climatico, sostiene Malm, avviene all'”interfaccia” tra natura e società.

Poiché non sono la stessa cosa, è sempre possibile separare analiticamente quali proprietà sono sociali e quali sono naturali. Quindi il problema per l’azione: distinguere tra ciò che è sociale (di creazione umana) e ciò che è indipendente da esso, eliminando ciò che altera la natura. È qui che risiede uno dei principali punti di divergenza di Malm rispetto alla prospettiva di Latour: per essere efficaci nel contesto attuale, è necessario identificare e distinguere i vettori sociali che modificano la natura. Contro il nuovo materialismo, Malm afferma che questa autonomia “è senza agency”, poiché l’agency appartiene solo agli esseri capaci di intenzione. Questo non significa che la natura non sia capace di rispondere: al contrario, la sua autonomia coincide proprio con l’influenza esercitata in ritorno – come feedback – sulla sua trasformazione. E questa azione di ritorno aumenta i suoi effetti in proporzione alla “causalità discendente” che la società esercita sulla natura stessa. Così si presenta il paradosso: la storia del capitalismo fossile è la storia dei tentativi della classe capitalista di emanciparsi dalla natura, precisamente dall’autonomia della natura, esacerbandone la risposta.

Qui avviene il passaggio di Malm dall’ontologia alla pratica. In The Progress of This Storm non c’è spazio per un’indagine approfondita delle conseguenze pratiche del monismo della sostanza e del pluralismo delle proprietà di Malm. Tuttavia, nelle ultime pagine del libro è possibile trovare un’indicazione preziosa, che anticipa parzialmente i successivi sviluppi. Malm chiama questa proposta “autonomismo ecologico“. Approfondendo la tradizione italiana dell’operaismo, Malm sostiene che poiché il lavoro (come la natura) è ontologicamente prioritario rispetto al capitale, il lavoro stesso costituisce l’arma da usare per combattere la crisi ecologica. “Arma” non è usata a caso: l’azione corrisponde alla guerra, il che significa che ogni sforzo deve essere rivolto a fermare il capitale fossile; o meglio, il primo è interno al secondo. Come scrive Malm nei suoi testi successivi e più dedicati alle implicazioni pratiche, il lavoro e la natura rappresentano condizioni di produzione di cui il capitale deve avvalersi.

In Climate, Corona, Capitalism, tuttavia, non è il lavoro che detiene l’agency per fermare il capitalismo, ma piuttosto lo Stato. Ciò che Malm chiama “comunismo di guerra” o “leninismo ecologico” si basa sulla capacità dello Stato capitalista di reindirizzare attivamente le sue politiche verso l’arresto forzato delle emissioni di CO2 (poiché, come sappiamo, il capitale è capitale fossile). L’idea del leninismo ecologico consiste nel trasformare rapidamente e immediatamente la crisi dei sintomi in crisi delle cause, lasciando che il capitale imploda privandolo della sua stessa fonte. Utopicamente, ogni azione sociale – sia individuale che statale – dovrebbe essere diretta verso questo fine: “il leninismo ecologico si avventa su ogni opportunità per orientare lo Stato in questa direzione, rompere con il business-as-usual tanto quanto necessario e sottoporre le regioni dell’economia che lavorano verso la catastrofe a un controllo pubblico diretto”. Fermare la produzione di combustibili fossili attraverso la politica internazionale e azioni di sabotaggio; massicce riforestazioni; anche la geoingegneria, sotto forma di procedure di rimozione di CO2 dall’atmosfera, potrebbe giocare un ruolo in questo processo, a condizione che sia al di fuori delle logiche di accumulazione e mercificazione: “Ogni imperativo strategico deve essere quello di incanalare le energie di maggiore intensità contro i fattori trainanti”, inclusa l’azione violenta contro i gasdotti e le gomme dei SUV.

Nel resoconto di Malm, quindi, ridurre il cambiamento climatico è sinonimo di “ridurre” il capitalismo. La crisi ecologica rappresenta il percorso verso l’intensificazione dei feedback distruttivi prodotti dalla natura stessa. Questo si riflette nella concezione della storia di Malm: la catastrofe – la “tempesta” – continuerà a progredire e, quindi, ad accelerare, se il suo stesso motore propulsore non viene fermato. La linea di temporalizzazione capitalistica tende a sussumere i molteplici vettori che insistono nel presente. Non c’è via d’uscita dalla crisi ecologica al di fuori delle lotte contro il capitalismo. L’ontologia svolge un ruolo centrale in questo quadro, poiché, essendo sempre possibile distinguere tra natura e società, l’azione coincide con il disimpegno tra le due e l’arresto dei fattori sociali che alterano la legge autonoma della natura. Il disimpegno è la chiave: separare e ridurre, anche separare le aree naturali selvagge dai fattori antropogenici, è ciò che la teoria deve indicare, e l’azione deve perseguire.

Giovanni Fava

Classe 1996; filosofia, Antropocene, geologia. Perlopiù passeggio in montagna.

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