È possibile trovare qualcosa che colleghi tra loro le diverse filosofie sviluppatosi nel corso della storia del pensiero? Si può rintracciare un fil rouge che porti da Protagora a Cartesio, da Platone a Nietzsche? Si può leggere la storia della filosofia come lo sviluppo coerente di uno “Stesso”?
Heidegger, nel saggio Il nichilismo Europeo, prova a dare un’interpretazione “filosofica” dello sviluppo della storia della filosofia, osservando come si tratti di una storia unica, coerente: la storia dell’essere, letta però dalla prospettiva dell’ente.
La riflessione heideggeriana sembra prendere le mosse da un celebre frammento, il numero 617, contenuto in La volontà di potenza di Nietzsche, in cui si afferma come «Imprimere al divenire il carattere dell’essere – è questa la suprema volontà di potenza»[1]. Questo frammento è uno dei punti di partenza per il saggio Il nichilismo Europeo, in cui Heidegger afferma che nel frammento nicciano si compie la metafisica occidentale, traendone uno spunto per spiegare come questa, che convenzionalmente viene fatta nascere con Platone, si concluda proprio con Nietzsche e che nel suo sviluppo non sia guidata da differenze qualitative di ampia misura. Piuttosto, sottolinea Heidegger, i pensatori occidentali hanno condiviso uno Stesso, ovvero hanno mantenuto immutata la distinzione tra ente ed essere, che «si rivela come quello Stesso da cui ogni metafisica scaturisce»[2].
Sebbene nelle diverse concezioni metafisiche appaiano importanti differenze, queste si fondano tutte su questa distinzione, tendendo però a “appiattirsi” sulla dimensione dell’ente: «la metafisica parla dell’ente in quanto tale nel suo insieme, dunque dell’essere dell’ente […] nondimeno, la domanda se, e come, l’uomo si rapporti all’essere dell’ente, non solo all’ente, a questo o a quell’ente, rimane non domandata. […] Il riferimento all’essere, finché prevale il rapporto con l’ente, quasi non viene pensato e, semmai, è preso sempre e soltanto come la sua ombra»[3]. La celebre definizione aristotelica secondo cui la metafisica è la “scienza dell’essere in quanto essere”[4], dovrebbe quindi, secondo questa lettura, in realtà recitare che la metafisica è la “scienza dell’ente in quanto ente”, in quanto sembra che si sia interrogata unicamente sull’ente, su ciò che Heidegger chiama Seiendheit, dimenticando la fondamentale presenza dell’essere.
Questo però, per Heidegger, ha avuto dei risvolti concreti nello sviluppo della storia dell’uomo: l’uomo ha agito in questo modo per una necessità ben precisa, quella di assicurarsi ciò che lo circonda, di assicurarsi, di rendere stabile, ciò che stabile non è: «fissare (festzustellen) l’ente come ciò che è assicurato»[5]; per fare questo ha agito ponendosi progressivamente come soggetto e dominatore dell’ente nel suo insieme.
Ma in che modo questa prassi si è sviluppata tra gli uomini, quali sono i suoi sviluppi principali, e sopratutto come è possibile affermare che filosofie cosi distanti tra loro, come il platonismo, il cartesianesimo e il pensiero di Nietzsche, siano in realtà legate tra loro?
Con Nietzsche, l’uomo diventa «misura unica e incondizionata di tutte le cose»[6]. Il termine misura, richiama alla mente un altro pensatore, Protagora, al quale viene attribuita l’espressione secondo cui «l’uomo è misura, [μέτρον] di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono, di quelle che non sono, in quanto non sono»[7]. Anche nel frammento protagoreo, l’uomo appare come misura, e la sua tesi viene riletta da Heidegger come il seme che darà vita ad una concezione soggettivistica e antropocentrica dell’essere umano, il cardine della storia della metafisica che condurrà infine a Nietzsche. Heidegger aggiunge poi che la tesi di Protagora è spesso associata a quella di Descartes: «in entrambi i casi [in Protagora e in Cartesio] è espresso quasi tangibilmente il primato dell’uomo»[8], tuttavia tra le due tesi vi sono profonde differenze, infatti «il detto di Protagora dice qualcosa di ben diverso dal contenuto della tesi cartesiana» e tuttavia «solo la loro diversità ci consente di dare uno sguardo dentro lo Stesso. […] Questo Stesso è il terreno dal quale muovere per capire in modo sufficiente la dottrina nietzscheana dell’uomo come legislatore del mondo e per riconoscere l’origine della metafisica della volontà di potenza»[9]. In questi passi, si afferma come le teorie di Protagora e di Cartesio siano, nonostante l’apparente somiglianza, differenti, pur condividendo uno Stesso, che rimarrà tale anche in Nietzsche.
La lettura heideggeriana del detto protagoreo verte sul concetto di “presenza”, scaturito dalla traduzione del verbo “ειμι”, in “esser presente”: l’uomo è sì misura, ma solo di ciò che gli si presenta davanti, di ciò che gli si svela – l’uomo è limitato alla cerchia del presente: questo implica però una regione che non è presente all’uomo, e di cui lui non è misura. La regione di ciò che è presente e di ciò che è percepibile è la «regione della svelatezza»[10]. L’uomo si trova davanti ad una cerchia stabile, stabilità che non viene però allargata a tutto il campo dell’essere, infatti l’uomo deve ammettere «il riconoscimento di una velatezza dell’ente e […] una indecidibilità in merito all’esser presente e all’essere assente […] senza negare l’occulto più lontano e senza arrogarsi una decisione sul suo essere presente o assente»[11]. L’uomo è tale quindi solo nella dimensione della moderatezza e della limitazione rispetto al esser-presente. Siamo quindi molto lontani dalla concezione dell’uomo della metafisica moderna. L’ ἐγώ non ha le caratteristiche del soggetto moderno, infatti «non v’è nessuna traccia dell’idea che l’ente in quanto tale debba regolarsi (sich richten) sull’io che può contare solo su se stesso in quanto soggetto»[12]: la concezione dell’uomo come giunge a compimento solo nell’età moderna, in particolare con Cartesio.
Per i Greci, «sub-iectum è la traduzione […] di ὐπο-κείμενον, e significa ciò che soggiace e sta a fondamento, ciò che da sé sta già dinanzi.[…] Soggetto sono i minerali, i vegetali, gli animali, non meno degli uomini»[13]. Soggetto è per i greci quindi non colui che conosce e che percepisce, ma tutto ciò di cui si può predicare qualcosa, tutto ciò a cui ineriscono le categorie aristoteliche. Sul soggetto così inteso, si fondano le conoscenze e le percezioni: si pensi, a riguardo, alla concezione che diversi filosofi greci avevano della conoscenza, ovvero qualcosa che va dal percepito e arriva al percepente, e non il contrario.
Nell’epoca moderna l’essere umano diventa soggetto, diventa quindi fondamento stesso delle sue conoscenze:
per che cosa il subiectum è ciò che sta a fondamento, se all’inizio della metafisica moderna l’uomo diventa, in senso marcato, il subiectum?»[14]. L’uomo quindi deve assicurarsi le proprie conoscenze, diviene il fondamento di esse, ed ecco che si pone la domanda su come queste possano essere assicurate dall’uomo per se stesso: «la tradizionale domanda-guida della metafisica […] si trasforma all’inizio della metafisica moderna nella domanda del metodo, della via per la quale […] è cercato qualcosa di assolutamente certo e sicuro[15].
A questo punto diventa decisiva la tesi cartesiana del cogito, ergo sum, che esprime qualcosa di fondamentalmente diverso: l’uomo non è più la misura di ciò che gli è presente, ma di tutto il rappresentabile: quando l’uomo si rappresenta qualcosa, in quella stessa rappresentazione, si rappresenta se stesso, «l’uomo che rappresenta subentra in ogni rappresentare- non successivamente, ma fin dall’inizio, in quanto egli, colui che rappresenta, ossia pone-dinanzi, (vor-stellt) porta di volta in volta il rappresentato dinanzi a sé»[16]. In questo modo l’uomo assicura le conoscenze che ha del mondo, e la verità perde il carattere di ciò che è svelato, per essere concepita come ciò che l’uomo attraverso il rappresentar-si e il mettere in dubbio, rende certo: la verità acquista la prerogativa della certezza, e questo grazie ad un metodo che rende possibile ciò.
Tornando a Descartes, il soggettivismo da lui introdotto nella metafisica occidentale sarà fondamentale per Nietzsche, che lo porterà al suo massimo completamento. Nietzsche si propone come distruttore della metafisica occidentale, del platonismo e del cristianesimo, inaugurando il pensare in termini di valori. In realtà, osserva Heidegger anche Nietzsche è immerso totalmente in un pensare metafisico, e questo è testimoniato, per esempio, dall’uso del termine “categorie” per indicare i valori supremi di scopo, unità ed essere: «il fatto che Nietzsche[…] chiami “categorie” questi valori supremi […] mostra quanto decisamente egli pensi nella traiettoria della metafisica»[17]. Anche lui quindi si muove sulla scia metafisica, interpretando come valori, ovvero come dei punti di vista per l’accrescimento e per il potenziamento, tutto ciò che prima veniva inteso come assoluto.
Ciò significa che l’uomo è signore e dominatore di ogni cosa esistente, che tutto possa ricadere nel suo agire: «non solo il rap-presentato è in quanto tale prodotto dell’uomo; ma ogni creare e formare di qualsiasi specie, è prodotto e proprietà dell’uomo quale signore assoluto, signore su ogni tipo di prospettiva in cui il mondo viene formato e ottiene potere come incondizionata volontà di potenza»[18]. In questo modo ogni azione che lui compie sul mondo è frutto di istinti e di bisogni legati solo alla sfera corporale, dacché «l’uomo è soggetto nel senso di istinti e passioni presenti come “ultimo fatto”, cioè in breve nel senso del corpo. È ricorrendo al corpo come filo conduttore metafisico che si attua ogni interpretazione del mondo»[19]. La filosofia nicciana è quindi il completamento di una metafisica che, attraverso l’accentramento sempre maggiore dell’uomo, ne ha fatto un signore e dominatore assoluto.
Affermare che la filosofia nicciana sia metafisica, non significa affermare che non ci siano differenze tra questa e l’inizio della metafisica, ovvero il platonismo, ma «che il pensare in valori diventa l’attuazione del compimento della metafisica»[20]: già in Platone infatti si tende a non pensare la distinzione ontologica, o meglio a pensare l’essere come qualcosa di funzionale all’ente: «l’idea suprema è contemporaneamente concepita come ἀγαθόν […] l’idea in quando tale, ovvero l’essere dell’ente, riceve il carattere di ἀγαθοειδές, di ciò che rende idoneo a…- che rende idoneo l’ente a essere un ente» [21]. L’essere quindi è interpretato come qualcosa di funzionale all’ente, e questo può essere inteso come il germe che porterà, attraverso gli sviluppi successivi, al soggettivismo prima, e al pensare in termini di valori, poi.
Secondo Heidegger, si può quindi leggere tutto il pensiero occidentale come il progresso di un’unica storia, la storia dell’essere, e intendere il pensatore non come autonomo e dipendente esclusivamente da se stesso, ma come se le sue
esperienze fondamentali […] non scaturiscono né dalla sua predisposizione, né dalla sua formazione, ma accadono provenendo dalla verità essenzialmente presente dell’essere, e l’essere trasmesso in proprietà alla regione di tale verità costituisce ciò che è noto […] come l’ “esistenza di un filosofo […] i pensieri non sono mai il mero parere di questo singolo uomo; ancor meno sono la tanto menzionata “espressione del suo tempo”. I pensieri di un pensatore […] son la risonanza della storia[22].
A questo riguardo, è interessante notare come, stando a questa interpretazione, la storia della filosofia sia legata in maniera inevitabile anche alla storia dell’uomo: nel corso dei secoli l’uomo è passato dall’essere un ente tra i tanti, timorato da Dio o dalla natura, al concepirsi come dominatore unico di quest’ultima, con risultati che oggi stanno diventando sempre più evidenti.
È chiaro allora come il frammento 617 de La volontà di potenza – espressione della fine della metafisica – che manifesta nient’altro che l’azione più propria della volontà di potenza e che ha portato a commisurare «il valore del mondo a categorie che si riferiscono a un mondo puramente fittizio»[23] rappresenti lo sviluppo coerente di una storia della filosofia, la cui base è fondata su una distinzione presente, ma non “pensata”, quella tra essere ed ente.
Articolo di Domenico Marra
[1] F.Nietzsche, Volontà di potenza, Bompiani 2018, p.337
[2] M. Heidegger, Nietzsche, Adelphi 1994, pp.703-704
[3] ivi, pp.701-702
[4] Aristotele, Metafisica, libro Γ, cap. I, 1003 a, 21-26
[5] M.Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano, 1994, p.660
[6] M.Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano, 1994 p. 640
[7] Platone, Teeteto, 152a
[8]M.Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano, 1994 p.645
[9] ivi, p. 646
[10] ivi, p.648
[11] Ivi, p.649- 650
[12]ivi, p.650
[13] Ivi, p.651
[14] Ivi, p.651
[15] ivi, pp.651-652
[16] ivi, p.661-662
[17] M.Heidegger, Nietzsche, Adelphi, Milano, 1994, p.600
[18] ivi, pp.690-691
[19] ivi, p.690
[20] ivi, p.719
[21] ivi, 720-721
[22] ivi, p.573
[23] Nietzsche, Volontà di Potenza, p.13