Nel 1917 il critico letterario russo Viktor Šklovskij pubblica un articolo fondamentale per la teoria della critica letteraria, L’arte come procedimento. L’articolo, che finì per essere il manifesto del formalismo russo, si poneva in polemica con la teoria letteraria precedente, specie con la concezione secondo cui «la poesia è un particolare modo di pensare e precisamente un pensiero che si attua per mezzo delle immagini»[1]. Ciò che viene contestato qui è che, se la poesia si attuasse unicamente tramite le immagini, allora le immagini dovrebbero essere mutevoli, come mutevole è la poesia, mentre risulta che «le immagini sono quasi immobili; d’un secolo all’altro, da un paese all’altro, da un poeta all’altro, si trasmettono senza mutare»[2]; è chiaro quindi che manchi qualcosa di fondamentale a fare della poesia ciò che essa è: ci possono essere due poesie che hanno lo stesso soggetto, la stessa “immagine” (il tramonto, per esempio) e tuttavia essere completamente differenti, possono farsi portatrici di emozioni e suggestioni anche opposte tra loro.
Ecco allora che è semplicistico, se non addirittura scorretto, affermare che alla base della poesia vi sia l’immagine; piuttosto, ciò che rileva è il modo in cui viene percepita e viene descritta dal poeta l’immagine stessa. Si chiameranno, scrive Šklovskij, allora «poetici in senso stretto gli oggetti che sono stati creati con particolari procedimenti, aventi il fine di farli percepire con la massima certezza possibile, come artistici»[3]. Questo modo di intendere la poesia e il vedere poetico induce a pensare ad una fondamentale differenza nel modo in cui ci si pone di fronte agli oggetti: un oggetto si può “vedere”, ma può anche diventare nient’altro che lo sfondo dell’agire quotidiano, un palcoscenico in cui l’essere umano porta avanti il suo spettacolo: è chiaro che quest’ultimo modo di rapportarsi agli oggetti non costituisce un vedere poetico, ma fa sì che gli oggetti cadano nell’ambito dell’«inconsciamente automatico»[4].

In altri termini, la prima volta che si assiste ad un fenomeno naturale, ad esempio, si rimane estasiati ma, dopo un po’, quello stesso fenomeno che prima era stato considerato estasiante, finisce col diventare uno dei tanti fenomeni che fa da sfondo alla vita di ognuno: è questo l’inconsciamente automatico, ed è a questo livello che si pone la differenza tra poesia e linguaggio comune:
col processo di automatizzazione si spiegano anche le leggi del nostro linguaggio prosaico, con le sue frasi non completate, e le sue parole pronunciate a metà, […] gli oggetti vengono sostituiti da simboli. […] Con questo metodo algebrico, gli oggetti vengono considerati nel loro numero e volume, ma non vengono visti: li conosciamo soltanto per i loro primi tratti[…]. L’oggetto passa vicino a noi come imballato, sappiamo che cosa è, per il posto che occupa, ma ne vediamo solo la superficie. […] L’oggetto si inaridisce [5].
Per spiegare come questo processo sia più frequente di quanto si possa pensare, nel suo articolo Šklovskij cita Tolstoj, che nei suoi Appunti dal diario, scrive:
Avevo pulito in camera, e fatto il giro della stanza, mi sono avvicinato al divano, senza riuscire a ricordarmi se l’avevo spolverato o meno. Poiché questi movimenti sono abituali ed inconsci, non potevo neppure avvertire che ormai era impossibile ricordarsene. Sicché, se avevo già pulito il divano e me ne ero dimenticato, cioè se avevo agito inconsciamente, era come se non l’avessi fatto. Se qualcuno consciamente mi avesse visto, avrebbe potuto farmelo tornare in mente: ma se nessuno aveva visto, o aveva visto ma inconsciamente; se tutta la complessa vita di molti passa inconsciamente, allora è come se non ci fosse mai stata [6].
È qui che entra in gioco l’arte, e nello specifico la poesia: lo scopo dell’arte non è quello di trasmettere e comunicare un’immagine, ma di trasmettere «l’impressione dell’oggetto”, come “visione” e non come “riconoscimento”»[7]. Per fare questo, la poesia si serve di alcuni procedimenti, come lo “straniamento” e “l’aumento della durata della percezione”: il processo dello “straniamento” consiste nel non chiamare l’oggetto con il suo nome, ma nel descriverlo come se lo si vedesse per la prima volta, utilizzando nomi di parti corrispondenti che si ritrovano in altri oggetti; a questo procedimento, di cui Tolstoj era un maestro, si affianca l’aumento della durata della percezione, ovvero l’utilizzo di un linguaggio che ne complichi la forma, al fine di aumentare la difficoltà del processo conoscitivo riguardo la percezione dell’oggetto in questione: così, quell’oggetto che prima era solo “riconosciuto”, ora è anche visto, è percepito.
I due procedimenti, in questa prospettiva, sono fondamentali [8], perchè rendono possibile la percezione totale dell’oggetto, aumentando la durata della percezione[9], laddove- nell’arte- «il processo percettivo è fine a se stesso e deve essere per questo prolungato: l’arte è una maniera di sentire il divenire dell’oggetto, mentre il “già compiuto” non ha importanza nell’arte»[10].
Quello che la poesia fa è quindi «cambiare la forma, senza mutare l’essenza» [11], ed è per questo che non sono tanto le immagini a caratterizzare la poesia, e in generale l’arte, quanto la modalità peculiare della poesia e dell’arte di porsi nei confronti delle immagini.
Quanto esposto finora potrebbe sembrare niente più che una teoria della critica letteraria. Tuttavia si possono riscontrare diverse analogie con alcune proposte provenienti da campi differenti, per convincersi del fatto che il messaggio del saggio di Šklovskij esuli da questo ambito, ed abbia, per così dire, un portato molto più esteso.
In un breve quanto famoso scritto del 1897, il poeta italiano Giovanni Pascoli, di provenienza e formazione diverse rispetto a Šklovskij, enuclea la sua estetica: lo scritto in questione è Il fanciullino. Pascoli qui sostiene che dentro ogni persona si nasconda un fanciullino, personificazione dello spirito di infanzia che è presente in tutti, e che con il passare del tempo tende a essere messo in disparte, senza sparire mai del tutto: «noi cresciamo, ed egli resta piccolo[…], egli tiene fissa la sua antica meraviglia»[12].
Al fanciullino, proprio come ad ogni bambino, «tutto pareva nuovo e bello, ciò che vi aveva visto[13]; “scopre nelle cose le somiglianze e relazioni più ingegnose»[14]. Il fanciullino, che come si vedrà[15], è ciò che permette l’esistenza di una autentica poesia, non è altro che una metafora per indicare uno sguardo differente nei confronti del mondo, uno sguardo pieno di meraviglia e di incanto, uno sguardo che, per utilizzare i termini di Šklovskij, non riconosce, ma vede. Il fanciullino vede le cose ogni volta come se fosse la prima volta, e per questo si sofferma sui dettagli, si lascia trasportare dalle emozioni che il mondo circostante suscita in lui, senza permettere alle cose di cadere nell’ambito dell’ inconsciamente automatico.

Ciò che distingue la visione del fanciullino da quella di un adulto non è il contenuto, non sono le immagini, ma il modo con cui il fanciullino si pone, infatti «non vuo[le] né ripeter il detto né trovare l’indicibile; non vuo[le] essere né un’inutilità, né una vanità. Vuo[le] il nuovo, ma sa che nelle cose è il nuovo, per chi sa vederlo, e non s’indurrà a trovarlo, affatturando e sofisticando. […] Il nuovo non si inventa: si scopre»[16]. Da quanto riportato, si può dedurre come quello del poeta non sia propriamente “un mestiere”, una professione, ma un peculiare modo di vivere, nel quale non ci si sforza di trovare la poesia, di “fare poesia”: il vero poeta ha un sentimento poetico che “trova la poesia in ciò che lo circonda, e in ciò che altri soglia spregiare, non di chi non la trova lì e deve fare sforzi per cercarla altrove”[17]; ancora, “il poeta è poeta, non oratore o predicatore, non filosofo, non istorico, […]. A costituire il poeta vale infinitamente più il suo sentimento e la sua visione, che il modo col quale agli altri trasmette e l’uno e l’altro”[18].
Visione è quindi il termine chiave per la poesia, tanto per Šklovskij, che per Pascoli, una visione che faccia percepire “un particolare inavvertito”[19], di qualcosa che in realtà è sempre sotto gli occhi di tutti, occhi che però sono ormai intorpiditi e abituati al mero riconoscimento superficiale delle cose: ciò che è detto quotidianamente poetico, non è nulla di nuovo, ma qualcosa che c’è da sempre e ci sarà per sempre, e che aspetta solo gli occhi di un “fanciullino” che sappia renderlo tale.
Così come è possibile trovare delle analogie rispetto alla natura della poesia nelle concezioni di Šklovskij e Pascoli, è possibile rintracciarle anche nel motivo per cui, secondo loro, la poesia viene meno.
Si è visto sopra come per Šklovskij la poesia non faccia altro che riaccendere, rivitalizzare ciò che è presente a tutti, ma che solo da pochi è realmente percepito, causa l’automatizzazione cui la vita quotidiana induce.
Una simile motivazione è in realtà offerta anche da Pascoli: il termine fanciullino richiama alla mente un qualsiasi bambino che, come tale, non ha fatto ancora esperienza del mondo, e si ritrova a meravigliarsi e ad interrogarsi su tutto ciò che lo circonda: questo permette una visione profonda e non fugace delle cose[20]. Tutto cambia con il passare del tempo, con l’istruzione, con gli impegni e il disincanto rispetto al mondo. È importante notare infatti come lo sguardo del fanciullo sia uno sguardo immediato sulle cose, senza riflessione o ragionamento che possa distoglierlo dall’incanto. L’uomo adulto invece sa molte cose, è istruito, e l’istruzione porta con sé, insieme a molti vantaggi, il rischio di spegnere il fuoco della meraviglia, fondamentale nella poesia e nell’arte in generale, e di dare per scontato tutto ciò in cui ognuno è immerso.
Questo non significa che Pascoli auspichi ad una ignoranza globale, ma sostiene che «lo studio deve essere diretto a togliere più che ad aggiungere: a togliere la tanta ruggine che il tempo ha depositata sulla nostra anima, in modo che torniamo a specchiarci nella limpidezza di prima; ed essere soli tra noi e noi.[… ] Lo studio deve farci ingenui. […] Lo studio deve togliere gli artifizi, e renderci la natura».[21] Ciò di cui parla il grande poeta è quindi uno studio che possa riaccendere negli uomini la meraviglia, quella stessa meraviglia che i greci ponevano alla base della filosofia, e che Pascoli pone alla base della poesia, con la quale la vita di ognuno torna ad essere tale, torna ad essere dinamica e presente ad ognuno, senza rischiare che passi inavvertitamente.
Se questa correlazione tra arte e istruzione può sembrare azzardata, forse assumerà più consistenza se letta alla luce di ciò che ha scritto uno dei più importanti filosofi della storia, Arthur Schopenhauer.
All’interno del suo capolavoro, Il mondo come volontà e rappresentazione, in particolare nel primo libro, Schopenhauer indaga la natura della conoscenza dell’essere umano, passando in rassegna i vari tipi di sapere. Giunto ad analizzare le scienze, il filosofo sostiene come esse trovino a loro fondamento ultimo una conoscenza indimostrata, ma immediatamente certa: in altri termini, una conoscenza intuitiva. Una conoscenza intuitiva è una conoscenza non mediata dalla ragione, ma che appare immediatamente certa alla mente dell’uomo. Nell’analisi schopenhaueriana, il problema delle scienze in generale consiste nel fatto che spesso non abbiano come loro fondamento una conoscenza intuitiva e immediatamente certa, apparendo invece come catene deduttive sospese nel nulla. La matematica invece si discosta da questa analisi, poiché ha come proprio fondamento una intuizione pura, il tempo, e per questo la matematica appare come scienza completa. Tutto questo sembrerebbe non avere alcun punto di contatto con quanto detto finora. E tuttavia, riferendosi al modo in cui spesso si insegna e si porta avanti la matematica, il filosofo sostiene che, preferendo una istruzione basata sul ragionamento deduttivo e sillogistico, «si priva del tutto chi impara della possibilità di comprendere le leggi dello spazio[22], anzi lo disabitua alla ricerca autentica del fondamento e dell’intima connessione delle cose, spingendolo invece ad accontentarsi di un sapere storico»[23].

Ora, al di là del contesto della matematica, quello che è utile al discorso che si sta affrontando, è che un determinato tipo di istruzione può disabituare l’uomo alla conoscenza intuitiva e immediata che, anche per Schopenhauer, è alla base della produzione artistica, che invece viene rallentata da una conoscenza razionale, tan’è che «il concetto, nell’arte, resta sempre sterile e può soltanto guidare la tecnica[…]. Ogni arte autentica deriva sempre dalla conoscenza intuitiva e mai dal concetto»[24].
Ciò che stupisce della teoria schopenhaueriana sull’arte è che, nonostante si tratti di un tipo di conoscenza intuitiva, priva di concettualizzazione, e che per questo potrebbe sembrare assolutamente soggettiva, essa possiede invece carattere oggettivo. Infatti l’artista «contempla un mondo diverso da quello degli altri uomini, e tuttavia non fa che penetrare più profondamente in questo mondo che si offre alla vista di tutti, in quanto riesce ad avere una rappresentazione più pura e più precisa nel suo cervello»[25], dal momento che riesce ad avere una conoscenza immediata, quindi non influenzata dalla volontà. Ancora una volta torna il tema dell’oggetto d’arte come qualcosa che è presente agli occhi di tutti, ma che è visto in maniera diversa dal poeta, dall’artista. L’uomo normale, dice Schopenhauer, si trova
immerso nel vortice e nel tumulto della vita, alla quale appartiene la volontà; il suo intelletto è tutto pieno delle cose e degli avvenimenti della vita; ma di queste cose, e della sua esistenza, nel loro significato oggettivo, egli non si accorge […]. Per il genio al contrario, il cui intelletto è separato dalla volontà, e quindi dalla sua persona, niente di ciò che concerne l’individuo gli nasconde il mondo e le cose; egli le percepisce distintamente, le vede come sono in se stesse, in una intuizione oggettiva.[26]
È chiaro allora, alla luce di quanto detto, come parlare di poesia, che ne parli un critico letterario, un poeta o un filosofo possa allo stesso tempo essere estremamente facile e estremamente difficile. Potenzialmente tutto potrebbero essere poesia, come anche nulla: una cosa infatti rimane ferma nelle teorie analizzate: non è l’immagine in sé ad essere poetica, né tanto meno bastano i versi per parlare di poesia: ciò che fa la differenza è la modalità con cui si accede al mondo circostante, decidendo di fare di quest’ultimo un mero sfondo dell’agire, o qualcosa di più.
Articolo di Domenico Marra
[1] V. Šklovskij, “L’arte come procedimento”, p. 75, in “I formalisti russi”, Einaudi, Torino, 2003
[2] ivi, p. 77
[3] ivi
[4] ivi, p. 80
[5] ivi, p. 81
[6] l. Tolstoj, Diario di Leone Tolstoj (1896-99), Milano, 1924, p.90
[7] Šklovskij, p. 82
[8] cfr. B. Ejchenbaum, La teoria del metodo formale, p. 44, in “I formalisti russi”, Einaudi, Torino, 2003
[9] cfr. B. Ejchenbaum, p.43
[10] Šklovskij, p.82
[11] ivi, p.83
[12] G. Pascoli, Il fanciullino, p. 25, Feltrinelli, Milano, 2024
[13] ivi, p.28
[14] ivi, p. 32
[15] “Sappiate che per la poesia la giovinezza non basta: ci vuole la fanciullezza”, Il fanciullino, p. 37
[16] ivi, p. 37
[17] ivi, pp. 41-42
[18] ivi, p.49
[19] ivi, p.59
[20] “Tu sei il fanciullino eterno, che vede tutto con meraviglia, tutto come per la prima volta. L’uomo le cose interne ed esterne non le vede come le vedi tu: egli sa tanti particolari che tu non sai.[…] i primi uomini non sapevano niente; sapevano quello che sai tu, fanciullo. Certo ti assomigliavano, perchè in loro il fanciullo intimo si fondeva, per così dire, con tutto l’uomo quanto egli era”- Il fanciullino, p.35.
[21] ivi, p. 57
[22] Si noti come la conoscenza dello spazio per il filosofo sia una conoscenza intuitiva e a priori. Ai nostri scopi, si potrebbe intendere ciò come il disabituarsi a dare rilievo alla conoscenza intuitiva che, come si vedrà, è il tipo di conoscenza fondamentale per la creazione artistica.
[23]A. Schopenhauer, “Il mondo come volontà e rappresentazione” p. 118. Einaudi, Torino, 2013
[24] ivi, p. 97- Il concetto è il risultato della conoscenza astratta e razionale. È interessante notare altresì come per Schopenhauer il concetto possa essere utile solo alla tecnica, anche artistica, ma ciò che è fondamentale nell’arte, il suo materiale, deve essere necessariamente intuitivo. Questa concezione, con le debite differenze, si trova tanto in Šklovskij, dove le due tecniche riportate sopra possono solo essere d’aiuto per trasmettere la visione che il poeta per primo ha, quanto per Pascoli, per il quale il verso può essere d’ausilio per la poesia, ma non si esaurisce in questo (cfr. Il fanciullino, pp. 51-52)
[25] A. Schopenhauer, “Supplementi a “il mondo come volontà e rappresentazione”, p. 488, Einaudi, Torino, 2013
[26] ivi, p. 494