L'”occhio del periodo”. Su Michael Baxandall e l’arte del Quattrocento

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Michael Baxandall (Cardiff 1933 – Londra 2008) fu uno storico dell’arte britannico. Studiò letteratura a Cambridge e solo in seguito si appassionò alla storia dell’arte. Ne approfondì lo studio a Vienna con Gombrich, a Pavia (al Collegio Borromeo), a Monaco e al Warburg Institute di Londra. I punti di riferimento della sua formazione furono la biblioteca di Aby Warburg, dove lesse Ruskin, Wölfflin, Panofsky, formandosi sulla scuola iconologica warburghiana, e Gombrich, con il quale concordò una tesi di dottorato che non concluse mai, ma che divenne la base dei suoi studi sul Rinascimento italiano. Del suo «profondo debito intellettuale nei confronti del Warburg institute, delle sue librerie, dei suoi cataloghi»[1] parla nella sua autobiografia, pubblicata postuma sotto il titolo di Episodes: a memory book. La presenza di Gombrich nella sua formazione, invece, non la si può ritenere rilevante e, a causa del breve lasso di tempo in cui lo frequentò, si può solo supporre delle discussioni tra i due studiosi, come suggerisce Carlo Ginzburg nella prefazione a Episodes.

In Painting and Experience in Fifteenth Century Italy (1972) Baxandall formula il concetto di “Period Eye” (“Occhio del periodo”), intuizione teorica pionieristica che troverà seguito nell’ambito della Storia dell’arte e degli Studi visuali. Egli sostiene che il modo di vedere sia determinato dalla società e dalla cultura, e per questo – sulla scorta dello storicismo – cambi attraverso le epoche. L’arte del Quattrocento fu concepita per un occhio del Quattrocento, il quale era capace di cogliere ciò che per il nostro sguardo non è più visibile. Per rendere acessibile ciò che il passare dei secoli ha adombrato si rivela necessario portare alla luce la trama nascosta di relazioni sociali che hanno fatto da sfondo alla creazione dell’arte del Quattrocento.

Il modo in cui si intenziona l’arte, per cominciare, è determinato dalla concezione che dell’arte si possiede in una determinata epoca. Ad esempio, la nostra idea di arte è un retaggio della tradizione tardo-romantica, la quale pensa l’estetica come una regione autonoma dello spirito e l’opera d’arte come libera espressione creatrice dell’artista. Il Quattrocento, invece, è un secolo di pittura su commissione; dunque, a “creare” il quadro non è solo l’artista, ma vi contribuisce anche il mecenate con le sue richieste specifiche. Inoltre, lavoravano all’interno di istituzioni e convenzioni (commerciali, religiose, percettive, sociali) diverse dalle nostre: l’opera, quindi, poteva esser vincolata, ad esempio, alla giurisdizione di una teoria ecclesiastica sulle immagini, con regole consolidatesi nel tempo a cui il pittore era obbligato attenersi. Nel Quattrocento le aspettative della classe dei committenti pesavano sulla realizzazione di un’opera. Il giudizio del fruitore era fondamentale nella carriera del pittore, perché in base ad esso avrebbe guadagnato o perso committenze future. Dall’altra parte, però, anche il committente era tenuto a dare un giudizio intelligente sul quadro: in virtù delle sue capacità analitiche anch’egli ne avrebbe guadagnato in prestigio. Così, il pittore per fare cosa gradita al suo pubblico inseriva nel quadro degli elementi che richiedevano specifiche abilità percettive, appellandosi alle capacità visive del suo pubblico, plasmate dalla sua formazione intellettuale, dal mestiere e dalla conoscenza dei testi sacri, oltre che, più in generale, dalla sua visione del mondo. Baxandall scrive che

un uomo del Quattrocento, quello della classe il cui giudizio vale per il pittore, trattava affari, frequentava la chiesa, conduceva una vita sociale e da tutte queste attività acquisiva delle capacità di cui si serviva per osservare i dipinti. C’erano differenze fra i singoli individui, così, è al comune denominatore delle capacità presenti nel suo pubblico che il pittore si uniformava per soddisfarlo”[2].

Un comune denominatore nella formazione intellettuale del pubblico era la conoscenza della matematica e della geometria. Più nello specifico, le abilità tenute in maggior pregio erano la riconduzione a forme semplici di oggetti irregolari (utile per misurare) e l’individuazione di proporzioni. La riduzione a forme semplici era, infatti, un’abilità imprescindibile nel commercio: le casse e i barili dentro cui arrivavano le merci non avevano misure standard, e bisognava comunque essere in grado di misurare il loro volume in modo preciso, riconducendoli a forme misurabili. Le istruzioni per svolgere il calcolo le possiamo trovare nel De abaco, un manuale di matematica per mercanti scritto da Piero della Francesca. Pittori e committenti condividevano l’istruzione di base e, di conseguenza, le capacità di analisi. Le competenze impiegate da Piero per analizzare e dipingere le forme erano le stesse usate da un pittore e da qualsiasi commerciante in un contesto mercantile. Dunque, per suscitare interesse e provocare l’intervento del loro pubblico, i pittori facevano spesso esplicito uso di oggetti necessari per misurare, tipicamente mercantili, come cisterne, colonne, torri di mattoni e così via. Ad esempio, nella Madonna del parto di Piero della Francesca il padiglione posto alle spalle della Vergine è un esplicito invito per il pubblico a misurare. A sua volta, il pubblico, per una sorta di “deformazione professionale”, avrebbe sùbito visto nel padiglione una precisa forma volumetrica, ovvero il composto di un cono e di un cilindro, e solo successivamente quello che vedremmo noi, ovvero un semplice padiglione.

Baxandall

Analogamente, il vistoso cappello di Niccolò da Tolentino, comandante dei fiorentini nella Battaglia di San Romano, nel dipinto di Paolo Uccello, è suscettibile di varie interpretazioni. Noi non siamo più abituati a cogliere con un colpo d’occhio una forma geometrica e quindi vediamo solo un cappello appariscente; ma un uomo del Quattrocento vedeva anche un «composto di un cilindro e di un disco poligonale rigonfio a forma di cappello» e Lorenzo de Medici «li avrebbe visti entrambi ed accettati come una specie di successione di scherzi geometrici»[3].

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Un uomo del Rinascimento, come scrive Baxandall, era un uomo di chiesa, e aveva un’approfondita conoscenza della storia sacra. Possedeva per questo molti più elementi per riconoscere che cosa il pittore stesse raccontando, e su questa conoscenza il pittore poteva fare assegnamento nella realizzazione del suo dipinto. Qualcuno completamente ignorante in materia di dottrina cristiana potrebbe benissimo vedere nell’Annunciazione di Piero della Francesca una sacra devozione, da parte di un angelo e di una donna, della colonna che li separa. Essendo noi non completamente alieni alla storia sacra e possedendo almeno in parte i rudimenti di storia dell’arte, riconosciamo che cosa la scena illustri: il momento in cui l’Arcangelo annuncia alla Vergine il suo destino. Tuttavia, figli di un’epoca secolarizzata, non sapremmo distinguere di quale preciso momento dell’Annunciazione si tratti. In questo caso, Maria nutre ancora riserbo nei confronti dell’angelo: l’istante rappresentato è quello che precede la definitiva accettazione da parte della Madonna del suo destino.

Baxandall

Un altro elemento fondamentale per un occhio del Quattrocento è il valore morale e religioso delle scene dipinte, qualcosa a cui uno sguardo moderno non è più sensibile. I quadri erano a soggetto religioso nella maggior parte dei casi e servivano per far conoscere a chi non fosse alfabetizzato le storie sacre, per fare da complemento ai sermoni durante le celebrazioni religiose e per fornire al fedele immagini vivide per le visualizzazioni interiori durante gli esercizi spirituali. Inoltre, scrive Baxandall, «le qualità pittoriche che ci sembrano teologicamente neutrali – proporzione, prospettiva, colore, varietà, per esempio – in realtà non lo [erano]»[4] affatto. Il quadro, con la sua atmosfera tersa, i suoi colori vividi e chiari e la sua precisa struttura armonica, era l’esperienza terrena che più si poteva avvicinare alla visione celestiale, come riporta il De deliciis sensibilibus paradisi di Bartolomeo Rimbertino.

Lo studio di Baxandall non ha solo un intento estetico ma anche storiografico. Egli ritiene infatti che la pittura possa acuire la nostra percezione della società, restituendo sotto forma di immagini tutta quella parte di conoscenza che i libri e i trattati non hanno potuto trasmetterci, così da diventare un documento storico di fondamentale importanza. Perché diventi tale, però, bisogna saperlo leggere, come si decifra un testo in una lingua quasi sconosciuta, allenando l’occhio e nutrendolo delle conoscenze acquisite. Un quadro può raccontarci «cosa volesse dire intellettualmente e sensibilmente essere una persona del Quattrocento»[5] ma è anche una porta d’accesso al non detto di una società così lontana cronologicamente e ideologicamente dalla nostra.

Articolo di Maria Carolina Mitchell


[1] «In Episodes Baxandall speaks at length of his profound intellectual debt to the Warburg Institute, it’s library, it’s catalogue» [traduzione mia] M. Baxandall, Episodes: a memory book, 2010, Londra: Frances Lincoln Ltd., p. 11.

[2] M. Baxandall, Pittura ed esperienze sociali nellItalia del Quattrocento, 2001, Torino: Giulio Einaudi Editore, p. 51.

[3] Ivi, p. 88.

[4] Ivi, p. 94.

[5] Ivi, p. 141.

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