È abitudine distinguere tra pensieri e chi li pensa. Del resto, le idee sanno emanciparsi dai loro creatori e sopravvivere a quest’ultimi, per essere poi riprese e camminare su altre gambe. Progresso e tradizione trovano in questo la propria condizione di possibilità, come due facce di una medesima medaglia. La distinzione tra l’autore e le idee che esprime viene inoltre presupposta anche in sede critica, non soltanto per salvare un pensiero dalle eventuali bassezze di chi vi sta dietro, ma anche laddove si tende invece a revocare questa stessa distanza, poiché risulta fallace attaccare la persona anziché ciò che questa sostiene (è il caso dello argumentum ad hominem). La distinzione tra un autore e il suo pensiero – se mai potrà dirsi tale – è insomma qualcosa di palese, sulla cui certezza riposano molti concetti della cultura filosofica occidentale. L’idea di oggettività, giusto per fare un esempio, rimanda a qualcosa di condiviso, un’inerenza all’oggetto piuttosto che alla privata intimità di chi lo pensa. Si consideri, altrimenti, la critica di Husserl allo psicologismo: non è certamente per via della costituzione psichica degli esseri umani che vale il principio di non contraddizione, tant’è che ammettere il contrario, affermando che l’impossibilità di una compresenza di cose opposte (semplificando) verrebbe aggirata da esseri dotati di una diversa capacità di rappresentazione, equivale a sostenere che le operazioni sul monitor della calcolatrice dipendano dai circuiti di quest’ultima – falso.

Naturalmente, così posta la questione è tutt’altro che chiara, e la stessa distinzione autore/idea si scompone in realtà in molti altri problemi: che rapporto c’è tra il piano empirico e singolare, al quale appartiene l’autore X, e ciò che pensa? Cosa divide il pensiero di una certa persona dal contenuto a cui questa si rivolge? Cosa sarebbe la validità che prescinde dall’autore, e fino a che punto può prescindere da qualsiasi forma di soggettività? Malgrado queste domande (o forse proprio per queste), la distinzione autore/pensiero non viene affatto scossa; non solo continua ad essere ritenuta evidente di per sé, ma sprona tanta filosofia a renderne conto, vale a dire, a formulare categorie che consentano di mantenerla, come se fosse 1) un fatto 2) da spiegare.
Non ci sarebbe nulla di sbagliato nel fare ciò, se non fosse che la filosofia, anziché riflettere davvero sulla distinzione, è finita anch’essa per prenderla per buona, impostando dibattiti a partire da essa, anziché sopra di essa. Si veda il caso delle recenti dispute sullo statuto accademico della filosofia, ossia su come (e molto più spesso: su cosa) si debba fare ricerca in filosofia: occuparsi di un autore, o di un tema? E ancora, è possibile prescindere dal posizionamento storico di un tema, oppure no? Un conto, insomma, sarebbe occuparsi dei problemi, un altro dedicarsi agli autori che li hanno elaborati. La polemica risente anche del divario tra “analitici” e “continentali”, specialmente se un tema prescinde dall’autore in quanto è argomentato: sarebbe l’argomentazione a far sì che una tesi si regga sulle proprie gambe – ammesso che il modo in cui si argomenta, nonché i termini adottati, possano prescindere dal contesto storico-culturale. Ed ecco che all’interno della fazione continentale, che tende a diluire la centralità dell’argomentazione, si trovano ulteriormente coloro che ritengono di dover indagare “storiograficamente” i temi trattati da tali autori, altri che, invece, lo faranno “teoreticamente”, come a dire che, se non si può prescindere da un autore, si può comunque raggiungere un ambito di validità che travalichi il contesto storico dell’autore, per raggiungere il presente – insomma fare storia, non storiografia. Un tema può attraversare la storia anziché dirsi extra-storico in forza di una supposta validità logico-argomentativa.
Giusto per dare un esempio, Bonaventura da Bagnoregio ripartisce una branca della filosofia (la philosophia naturalis) in metafisica, matematica e fisica. Questa suddivisione può essere discussa di per sé, magari dimostrando che la tal disciplina non rientra (più) nel novero delle scienze teoretiche, per questo e quel motivo. Oppure, si può insistere sull’affinità di tale divisione con quella aristotelica, facendone prova di una sostanziale continuità nello sviluppo dell’ontologia, per poi essere smentiti dallo storico che mostra come Bonaventura non disponesse del riferimento di Aristotele, bensì di Agostino e della tradizione stoica.
Ora, ciascun approccio è di per sé lecito entro il proprio ambito di validità: il problema sta nel capire quale di questi debba insignirsi dello statuo accademico, e laddove l’Università è semplicemente pensata come insieme di saperi, ecco che la convivenza si fa tutt’altro che pacifica. (Questa definizione dell’Università è solo apparentemente a buon mercato, quantomeno perché il “va bene tutto” funziona finché ci sono finanziamenti per tutti). Ma prima ancora di discutere della destinazione del dibattito bisognerebbe impegnarsi in un’analisi della storicità e dell’essere nella storia, a partire dalla quale si rendono possibile a) un confinamento entro un contesto storico, b) un trascendimento della storia in toto e c) un movimento trans-storico. Paradossalmente, un’indagine di questo tipo manca perché verrebbe percepito come fazioso, allorché proveniente da uno degli schieramenti del dibattito. Non è più vero insomma che si debba fare filosofia per rifiutare la filosofia, perché la stessa filosofia si riduce a termine del confronto anziché al luogo in cui si disputa. In generale, colpisce il fatto che la filosofia non sia chiamata a rivedere lo schema che origina il conflitto, ma si stanzi in esso, come a dire che il punto sta nel far prevalere una posizione sulle altre, piuttosto che ridefinire le regole del gioco. Ciò non è che uno dei sintomi del ridursi della filosofia ad una disciplina, tanto scientifica quanto accademica.

Cosa succederebbe, tuttavia, se si volesse andare ancora più in profondità, rivedendo i termini stessi della separazione tra l’autore e il suo pensiero? Jaspers riteneva che Bruno non potesse abiurare come Galilei perché, a differenza di quest’ultimo, la sua era una verità esistenziale, parte dell’esistenza – la sua – anziché dell’ordine matematico-naturalistico. Così Heidegger, affermando che l’essere, anziché declinarsi nella terza persona dell’indicativo presente, è anzitutto un “io sono” perché “sempre mio”. Cosa si sta dicendo qui? Si possono formalizzare queste indicazioni – in realtà niente affatto isolate entro la storia della filosofia – rendendole in qualche modo oggettive, facendole parlare di un carattere formale di ogni esistenza, dell’essere in quanto tale. In quest’ottica, esisterebbero verità esistenziali così come ne esistono di scientifiche, e l’esser sempre mio sarebbe la caratteristica dell’essere di ciascuna esistenza, anziché dell’autore della sentenza. Ma non staremmo a nostra volta abiurando una tesi assai scivolosa? Non è forse una indebita cauterizzazione riconoscere ad ognuno ciò che è invece mio? E ancora: perché, in luogo dell’esistenza personale ed individuale dell’autore, si incappa soltanto nel formale? Non ci è stato insegnato da un secolo che c’è ben più tra il soggettivo e l’oggettivo – che c’è un mondo?
Veniamo al punto. Gli autori non si limitano a formulare tesi: essi danno forma a mondi. I loro pensieri si muovono di fatto in una dimensione più ampia della validità formale, senza che in alcun modo si debba farla coincidere con la loro mente. Gli autori sono piuttosto gli esploratori di un mondo ignoto, che si disvela nelle loro parole. L’inconscio e gli oscuri processi della genialità offrono una prima indicazione, ma rimangono troppo ancorati ad un lessico soggettivo: il mondo non si raggiunge espandendo la psiche, né l’immaginazione. Non si tratta nemmeno di un orizzonte di senso, quantomeno perché l’orizzonte è piatto, mentre invece il mondo di un pensatore conosce salite e ripidi burroni, paludi e altipiani battuti da ventate di aria fresca. È ora di congedarsi dall’idea di un senso implicito che irradia linfa ai discorsi, e decidersi una buona volta a mettere a fuoco lo sfondo altrimenti sempre sfocato e vago, il “contesto”, il residuo mai esplicitabile, con i molti altri scacchi alla possibilità di pensare (differenze che non fanno la differenza, diceva Vattimo). Ciò che finalmente si vedrà è un paesaggio. I pensieri configurano e si muovono in un paesaggio, e il mondo di un autore è dato dalla varietà dei suoi paesaggi. Pianure al posto di fondamenti, fosse al posto di scavi testuali; fiumi invece di deduzioni, cieli invece di speculazioni. Questi territori non sono tenuti insieme dalla volontà dell’autore o dai suoi argomenti, ma dal paesaggio, la cui unità è di un genere del tutto nuovo, oltre la coerenza e il testo (con i suoi margini).

Quanto risulterà miope allora l’espressione “vive nel suo mondo”! Se è tale, non esiste mondo che un domani non permetterà che altri lo abitino. Il mondo non è, cioè, la costruzione privata di un pensatore, non è la sua mente. Analogamente, non è un insieme di verità extra-soggettive in attesa di essere scoperta. Il mondo è sempre inventato e scoperto insieme, secondo il felice significato del verbo invenio. Soprattutto, il mondo sconforta chi lo pensa, destinandolo all’erranza: per questo non potrà mai coincidere con un’intimità privata. Non ogni autore sa o vuole costruire mondi; la materia richiesta per una simile impresa è molta, ma in generale si ignora la ricetta per la creazione di un mondo, e del resto nemmeno interessa così tanto, perché il punto non è creare un mondo, bensì saperlo abitare. Azzardiamo una tesi più generale: non è ad altri mondi nell’universo che occorre guardare per salvarsi dal nostro, né si deve scambiare quest’ultimo con la Terra, e questa, a sua volta, con l’immagine data dalle scienze della Terra. Il problema dell’abitare è complesso, e se la ricerca filosofica vuole contribuirvi deve anzitutto chiedersi dove e cosa abitiamo. La domanda non è meno inquietante della revoca dell’idea progressista in esergo a questo testo: lasciarsi alle spalle la distinzione autore/pensieri implica che non esiste alcun perfezionamento delle idee attraverso il ciclo continuo delle generazioni di essere umani, come se questi fossero il supporto materiale di un ideale in corso di definizione. L’umano, il terrestre e il mondano chiedono un pensiero più radicale per definirne i rapporti.
Il mondo non è un sistema, né una totalità che pretenda di contenere tutto. Così, quando si studia un autore, la critica troppo spesso si limita a sottolinearne le mancanze: cosa non è stato detto o letto, poiché se da un autore ci si aspetta qualcosa, si tratta sempre della massima completezza. Solo in questo modo ci si illude che a parlare non sia più una soggettività, un “mondo privato” (espressione che si dovrà ritenere ossimorica). Dove questa mancanza viene invece avvertita, ecco che si incentivano i confronti, come rimedio all’incompletezza dell’autore – ma è vano rimediare alla soggettività di un pensatore ricorrendo ad un’altra soggettività, com’è del tutto immotivato credere di trovare l’oggettività laddove due o più soggettività divergono. Contatti tra due autori avvengono senz’altro, ma laddove sono in gioco mondi sono coinvolte anche modalità e dinamiche che richiedono nuove categorie per essere pensate. Si è ad esempio insistito tanto sull’inevitabilità del fraintendimento, ma questo non è che un vicolo cieco, che riporta ancora una volta alle controversie sopra ricordate: o contesteremo ad Hegel la correttezza storiografica della sua lettura di Aristotele, oppure ne valorizzeremo “i frutti”; in entrambi i casi, tuttavia, resteremmo fuori dai processi geologici che collegano i due paesaggi di pensiero. Autori possono essere vicini senza essersi mai letti né parlati, oppure la loro diversità può essere talmente abissale da tracciare uno spazio abitabile, come una vallata. Non è detto che la verità stia in pianura. Concetti come “le influenze”, l’espressione “più o meno diretto” per designare la gradualità della ripresa di un autore, le “riformulazioni”, le “traduzioni”: sono tutte categorie opache da dismettere, del tutto inutili all’esplorazione di mondi.
Un pensiero diventa un paesaggio non quando prescinde dall’autore, né tantomeno quando si regge su di sé. È più che legittimo discutere della validità di una tesi, magari riportandola al proprio contesto oppure fraintendendola. Tuttavia, l’inadeguatezza di questo approccio si manifesta ogniqualvolta una tesi mostra tutta la sua banalità, oppure è falsa in modo sconcertante, o vaga, o ancora “misticheggiante”. Troppo spesso non si vede che, invece, un pensiero filosofico è anzitutto l’apertura di una dimensione, di uno spazio su cui costruire altro, entro cui muoversi e respirare, precipitare, facendo esperienza di ciò che si aggira negli abissi. I pensieri non nascono per essere valutati, bensì esplorati. Fare ricerca, in filosofia, significa così esplorare un paesaggio, anziché reiterare una metodologia standardizzante e miope. Bisogna inoltre distinguere la critica dall’atteggiamento borghese che inchioda un autore a quanto ha scritto, così come non va confusa l’esplorazione con la costante apologia.

Ma chi conosce il lavoro di scavo in un autore troverà già questi ammonimenti alquanto superficiali, pensati con categorie grossolane. Non è possibile confutare un autore, non si può ricostruirne la mente. Ad un tale livello di profondità, lo scoprire diventa un inventare, e si diventa filosofi a propria volta. Lo spazio esplorato fa tutt’uno con il movimento avventuroso. I filosofi hanno pensato tutti la stessa cosa non perché tematizzassero un medesimo tema, ma in quanto i loro pensieri sono diventati le linee di un medesimo paesaggio. Un autore non è insomma niente di empirico, di psicologico, di intimo. Continuerà ad esistere un contesto socio-politico al quale appartiene, così come si potranno formalizzare le sue asserzioni, ma tutto ciò non tocca il lavoro che si fa su un autore, quando questo viene esplorato come mondità. Arriva un punto, in un cui le considerazioni personali non possono essere più intese come il contesto (della scoperta) da cui poter prescindere. Il modo di pensare di un autore non è più separabile dai contenuti: lo stile predomina su di essi, e si fa linea di paesaggio. Tradurre vuol dire portarsi su quella linea per vedere un altro paesaggio, cosa c’è oltre, nella parte in ombra.
Il discorso filosofico richiede sempre un certo scarto rispetto alla immediatezza dell’esperienza ordinaria. Si tratta della piega che sprona la spiegazione, la distanza tra ciò che diamo per assodato e la sua dubitabilità: se non fosse possibile approfondire l’esperienza (non semplicemente espanderla con nuove nozioni e scoperte – questo è l’ambito delle scienze), non ci sarebbe spazio per la filosofia. In questo senso, la distinzione tra l’autore e i suoi contenuti rientra tra i casi di tale distanza, per cui prescindere dai motivi “contingenti” dietro alla formulazione di un certo pensiero è un gesto analogo alla riduzione dell’esperienza comune e quotidiana ad elementi indubitabili e non ulteriormente scomponibili. Ciononostante, il gesto – meta-fisico – che anima la filosofia offrendole una distanza non viene meno riformulando il confine autore/pensiero nell’idea di paesaggio, poiché anche questa stessa distanza confluisce nel paesaggio, precisamente come profondità. Un pensiero filosofico differisce da un pensiero ordinario fintanto che è profondo, ed è profondo non perché sia sorretto da un’argomentazione difficile (o vaga), ma perché smuove ulteriori esplorazioni.

Ma, allora, cosa resta all’argomentazione, se non sempre e solo argomenti ad homines? Nella Retorica, Aristotele scrive che l’ethos di un oratore può contribuire a sostenere quello che dice. Si è tradizionalmente inteso questo passo nel senso che il carattere dell’autore è influente, incentivando così a tenere distinta la sfera della validità del discorso da quella di chi lo formula, relegando, insieme, la retorica al luogo in cui si mischiano elementi argomentativi propriamente razionali e aspetti dai quali si può invece prescindere, come appunto la condotta dell’autore. Tuttavia, quanto sopra proposto consente una lettura alternativa del passaggio aristotelico. Ethos: comportamento, modo di stare al mondo, quindi: abitare. Un autore non è pertanto il surplus da espungere per far risaltare la purezza logica, ma ciò che offre la possibilità di abitare il mondo a cui dà forma. È all’esplorazione di questa ipotesi che invitiamo a rivolgere gli sforzi impiegati altrimenti in dispute sempre meno filosofiche – e fuori dal mondo.
Articolo di Marco Cavazza
L’immagine copertina e la prima immagine sono dell’artista Carmine Bellucci