Ma a te, pazzo, do questo insegnamento per congedo: dove non è più possibile amare, bisogna – passare oltre!
F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, p. 209.
Che la “crisi” sia la forma della vita, collettiva e individuale, di chi abita il nostro tempo, non è una grande scoperta. Che forse, più in generale, la crisi e il disordine che ne consegue siano la forma della vita stessa è d’altra parte una consapevolezza che la biologia sistemica va sostenendo da diversi anni[1]. Quello che si vorrebbe mettere a tema in questa sede, attraverso una serie di riferimenti e di letture disorganiche, anch’esse frutto di una crisi e quindi di un dibattersi che non si potrebbe ricondurre a unità se non da un punto di vista a posteriori, è però non tanto lo svilupparsi della crisi, l’interezza del suo processo, bensì la crisi come stasi. La stasi (nel senso italiano del termine) è, in una visione dialettica della crisi, un momento inevitabile di essa, a qualsiasi livello la si consideri (storico/sociale/politico/esistenziale). Leggiamone la definizione sul dizionario Treccani:
“staṡi s. f. [dal gr. στάσις, der. della radice στα- di ἵστημι «stare»]. – 1. In medicina, ristagno o rallentato circolo di un liquido, umore o altro prodotto di secrezione o escrezione dell’organismo. 2. Temporaneo arresto di un’attività, di uno sviluppo; sosta, ristagno. Anche, più genericam., immobilità.”[2]
Si tratta del momento di blocco, la stagnante attesa di un futuro insperato e l’immobilità del mondo nello smarrirsi del senso. Un sistema (sociale o individuale), un modo di produzione, una determinata istituzione, entra in crisi quando le modalità attraverso cui riproduceva la propria esistenza vengono meno. Ora, se il senso di una vita consiste precisamente nella propria riproduzione e se una vita è sensata qualora gli umani si riconoscano in tale riproduzione, nel sapere cioè che le modalità attraverso cui la propria vita si svolge giorno dopo giorno rispecchiano l’insieme delle aspettative su tale vita, la crisi consiste nella perdita del senso. Sappiamo che la crisi dei sistemi sociali, come ha insegnato Marx a proposito della crisi del modo di produzione capitalistico, non consiste in realtà nella distruzione della riproduzione del capitale: essa ne è, al contrario, parte imprescindibile. Il capitale si reinventa attraverso le crisi e queste sono sempre possibili, nella misura in cui la trasformazione della merce in capitale non è una necessità naturale eterna, ma al contrario può sempre interrompersi: «la forma semplice della metamorfosi include la possibilità della crisi»[3].

Reflexio is dead: live in the present. O beltà che a rimirar conduce a inerzia. Opera dell’artista Liliana Sanna, su gentile concessione a Rivista Palomar.
Eppure, a parte il fatto che precisamente in questa reinvenzione traspare con maggior forza l’assoluto arbitrio del modo di produzione, la sua costituzione profondamente politica (e dunque la possibilità di una sua messa in discussione altrettanto politica), come dicevamo non è il processo di crisi per intero che ci importa in questa sede. Non è cioè lo sviluppo della crisi colta da uno sguardo di sorvolo, capace di coglierne le cause e gli effetti, bensì semplicemente la stasi, che in quanto tale è sempre colta da un soggetto, è sempre uno spazio di tempo sperimentato. Nell’epoca dell’ansia[4], dell’esplosione della depressione e della diffusione mastodontica degli psicofarmaci[5], ha forse senso concentrarsi appunto su questo momento di mezzo. Giacché esso non è, per molte e per molti, il semplice passaggio dialettico di cui si tratta di attendere un necessario superamento. Per tante e tanti e in una certa misura per tutte, esso è semplicemente la forma della vita. L’Antropocene, ad esempio, non è che una crisi che non terminerà[6]; se esso può forse essere abitato, rimane inseparabile dalla stasi, da una dose di sofferenza e da una di nostalgia[7]. Nella vita di tante, poi, la stasi assume una forma esistenziale che dura a lungo. Per quanto essa non vada confusa con la crisi – farlo sarebbe un’operazione di sabotaggio: significherebbe eternare il dolore, renderlo connaturato all’esistenza (che in quanto tale, lo si accennava, è crisi, ma non necessariamente è stasi).
Lo spazio della stasi ci sarà facile da afferrare a partire da un testo famosissimo di Nietzsche:
E, davvero, ciò che vidi, non l’avevo mai visto. Vidi un giovane pastore rotolarsi, soffocato, convulso, stravolto in viso, cui un greve serpente nero penzolava dalla bocca. Avevo mai visto tanto schifo e livido raccapriccio dipinto su di un volto? Forse, mentre dormiva, il serpente gli era strisciato dentro le fauci e – lì si era abbarbicato mordendo. La mia mano tirò con forza il serpente, tirava e tirava – invano! non riusciva a strappare il serpente dalle fauci. Allora un grido mi sfuggì dalla bocca: “Mordi! Mordi! Staccagli il capo! Mordi!”, così gridò da dentro di me: il mio orrore, il mio odio, il mio schifo, la mia pietà, tutto quanto in me – buono o cattivo – gridava da dentro di me, fuso in un sol grido. […] Il pastore, poi, morse così come gli consigliava il mio grido: e morse bene! Lontano da sé sputò la testa del serpente -; e balzò in piedi. Non più pastore, non più uomo, – un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva! Mai prima al mondo aveva riso un uomo, come lui rise! Oh, fratelli, udii un riso che non era di uomo.[8]
La stasi è la parte della crisi in cui il giovane soffoca. Non è il momento in cui il pastore viene afferrato dal serpente, su cui Nietzsche accenna un’ipotesi (egli dormiva), né quello in cui, trasfigurato, uccide il serpente e rinasce. La stasi è il momento dell’incertezza, della sofferenza che non si riesce a far terminare sebbene sia relativamente chiaro a chi guarda (Zarathustra, in questo caso) che basterebbe un piccolo gesto, tutto sommato, per far terminare questo dolore – appunto, la crisi nella sua stasi, il senso perduto e non recuperato. Come è noto, tutta l’opera di Nietzsche ruota intorno alla perdita del senso, alla sua origine umana, troppo umana, e a un suo possibile recupero. Perché questo sia possibile, tuttavia, Nietzsche deve necessariamente attraversare un dolore (quello di cui parla in Ecce homo) che solo dopo il suo compiuto svolgimento appare votato al suo superamento. Mentre soffoca, il giovane non sa di poter smettere di farlo. Tutta la forza di Zarathustra non serve a niente contro il serpente – solo il pastore può liberarsene, ma non sa come. Possiamo immaginarci che, nel buio prossimo allo svenimento da soffocamento, nella confusione assoluta di un nodo alla gola che impedisce il respiro, il pastore deve aver sentito le urla di Zarathustra come da lontanissimo. Forse una parte del pastore perde la fiducia in quegli attimi e spera che la stasi si trasformi in morte. Quelle poche righe sono, insomma, la descrizione perfetta della stasi: non vita, non morte, ma blocco, culmine distruttivo della crisi, annichilimento del mondo come spazio di senso. La stasi è il momento dell’inazione.

Overthinker. Opera dell’artista Liliana Sanna, su gentile concessione a Rivista Palomar.
Tali elementi sono rappresentati in modo straordinario dal racconto di Joseph Conrad, La linea d’ombra[9]. Come è noto, il grande scrittore britannico descrive in questo racconto l’avventura di sé stesso, trentunenne, a guida di una nave. Il giovane (come il pastore) Conrad si trova ad attraversare appunto una linea d’ombra, cioè quella fase della vita in cui la prima giovinezza si chiude, si smette di vivere di promesse e ci si trova in un presente spesso insoddisfacente, triste, noioso. Si teme che questo presente possa diventare la forma della propria vita. La seconda giovinezza, che ad avviso di Conrad inizia appunto intorno ai trent’anni (la stessa età in cui lo Zarathustra di Nietzsche va sui monti), è costituita da un “malessere acerbo”[10]. Conrad parla dunque della sua crisi. Essa si manifesta, inizialmente, con l’abbandono della nave del cui equipaggio era membro, senza troppe difficoltà o dolori: Conrad si chiede semplicemente se non potrebbe esserci di meglio per lui fuori da questa nave e la abbandona. Ma questo abbandono, questo gesto grande e improvviso, questa rottura che è l’inizio della crisi, non lascia il posto alla gioia della sovrana decisione su sé stessi, ma precisamente alla stasi, alla perdita complessiva del senso: “Tutto l’insieme rafforzava in me l’oscura sensazione che la vita non fosse altro che uno sciupio di giorni, sensazione che in parte inconsapevolmente mi aveva fatto abbandonare un comodo imbarco, allontanato da uomini che mi piacevano, per sottrarmi alla minaccia del vuoto…per poi ritrovare la vacuità alla prima svolta”[11]. Conrad, appena scende dalla nave e rimane chiuso in un locale ad attendere di rientrare in Gran Bretagna – senza un reale motivo – si deprime: “Fui colto da un grande scoraggiamento. Un torpore spirituale. […] Non ci si poteva aspettare dal mondo nulla di originale, nulla di nuovo, di sorprendente, di significativo: nessuna occasione di scoprire qualcosa a proposito di sé stessi, nessuna saggezza da acquisire, nessun divertimento da godere. Tutto era stupido e sopravvalutato”.
Voilà, la stasi: perdita del senso, perdita del futuro, incapacità di movimento. Conrad non riesce a staccare la testa al suo serpente: eppure, si badi, tale stasi nasce dalla capacità del nostro protagonista di scatenare la crisi, di rompere con il suo vecchio presente. Il movimento ondulatorio della linea d’ombra – che prima determina una rottura rabbiosa con il presente e poi fa ricadere nella totale disaffezione rispetto al fatto stesso di essere vivi – non va edulcorato: non basta decidere, non si è mai sovrani del proprio stato, con buona pace degli stoici e di Sartre. Siamo sistemi chiusi, ma proprio per questo aperti alla contingenza dell’esteriorità. Tale momento di stasi è descritto metaforicamente in modo straordinario nel seguito del suo racconto. Conrad viene nominato, con quello che gli par essere un colpo di fortuna, capitano di una bella nave all’ancora nello stesso porto in cui si trova. Qui il movimento ondulatorio si fa ascendente: la stasi è immobile solo nella sua generalità astratta, come periodo. Preso attimo per attimo, nessun periodo è dominato solo dalla stasi; essa al contrario pare alimentarsi di piccoli risollevamenti e di alcune speranze, che nel racconto di Conrad non le sono affatto contraddittori. Il carattere incontrovertibile ed essenziale della stasi è semplicemente l’instabilità del senso, il suo fondamentale squilibrio. Appena Conrad vede la nave “quel senso di vacuità della vita che mi aveva reso così irrequieto negli ultimi mesi perse la sua amara ragion d’essere, la sua malefica influenza, dissolvendosi in un fiotto di emozione gioiosa”[12].

La moglie di Lot. Opera dell’artista Liliana Sanna, su gentile concessione a Rivista Palomar.
Tuttavia, tale felicità si dissolve appena il vascello prende il largo e ogni filo di vento cessa di soffiare. Conrad si trova in mare aperto, con l’equipaggio colpito da una violenta febbre, con appena un filo di vento a muovere lentissimamente la nave verso un porto. Il racconto si svolge così descrivendo una nave ferma, con un equipaggio letteralmente boccheggiante, con Conrad immune dal malanno fisico ma distrutto nello spirito, costretto non solo a sperimentare la perdita del senso che già lo attanagliava, ma a scontrarsi con questa nuova e devastante delusione: capitano, nel momento del rilancio, si trova di fronte a un nuovo spaventoso fallimento. Si leggano le seguenti righe al fine di comprendere la violenza della stasi, la sua capacità bloccante, il peso dell’esser fermi:
Nel cielo sta avvenendo come una decomposizione, come una corruzione dell’aria, che rimane più ferma che mai. Null’altro che nuvole, dopo tutto, che potrebbero essere foriere di vento o pioggia, o no. Strano che debba esserne così turbato. Mi sento come se tutti i miei peccati mi fossero piombati addosso. Ma l’unico problema credo sia che la nave è tuttora immota, ingovernabile, e che non ho modo di impedire alla mia fantasia di sbrigliarsi fra le disastrose immagini del peggio che ci può capitare […]. È come trovarsi legati mani e piedi, in attesa che qualcuno ci tagli la gola.[13]
Tuttavia, anche la sofferenza tipica della stasi è segno di vita, come d’altra parte ogni sofferenza: “a me toccava portarmi dentro un tumulto di dolorosa vitalità, di dubbio, di confusione, rimorso”[14]. È la vitalità, la voglia di non essere nella stasi, che fa sperimentare quest’ultima. Che d’altra parte è caratterizzata da un ulteriore elemento, che è bene sottolineare: chi è nella stasi fatica ad affrontarla. Il serpente stringe, ma non gli si vuole staccare la testa. La stasi è il momento della debolezza, così ben restituita dalle descrizioni di Conrad della nave alla deriva. Si crea così un devastante circolo vizioso. Dalla stasi si può uscire solo con un colpo di reni, con il morso del giovane pastore. Tuttavia, proprio la stasi rende talmente stanchi e sfiduciatida non consentire se non con estrema difficoltà l’abbandono di essa. Questo rende la stasi ancora più devastante, poiché fa temere di non avere l’energia per uscirne. La stasi fa dubitare di sé stessi, delle proprie forze. Essa è forse connaturata all’ipocondria, che d’altra parte è inseparabile dal dubbio nei confronti dell’essere vivi[15]: “ciò che più mi sgomenta è che non ho il fegato di andare sul ponte e affrontare la situazione. È un dovere verso la nave, è un dovere verso gli uomini che sono là in coperta […] E io che mi tiro indietro. Solo a immaginarmi la scena. Il mio primo comando. Ora capisco lo strano senso di insicurezza del mio passato. Ho sempre sospettato che non sarei stato all’altezza. E questa ne è la prova certa. Non ho fegato. Io non sono all’altezza”[16]. La durezza della stasi è in sé e per sé. In sé genera lo smarrimento di cui si è detto. Per sé genera l’incapacità di mordere la testa del serpente e, come si vede da queste ultime righe, il senso di colpa e di inadeguatezza perché se ne è incapaci. Secondo il lessico della Teoria dei Sistemi, il soggetto in stasi è un sistema chiuso, che interpreta il factum di ciò che gli accade secondo tutta una serie di operazioni specifiche, che traduce in informazioni che alimentano il proprio essere in stasi. Questo vale sia a livello individuale che collettivo, come la nostra stessa situazione storica non fa che evidenziare.

Overthinker. Opera dell’artista Liliana Sanna, su gentile concessione a Rivista Palomar.
Non è certo un caso che anche Hegel, in un testo come la Fenomenologia dello spirito che analizza una serie lunghissima di crisi – la cui soluzione dialettica è visibile solo alla fine del percorso – si imbatta a più riprese nella stasi, senza mai nominarla. La più nota di esse è certamente quella che chiama “coscienza infelice”. Quando la coscienza isola l’essenza immutabile in opposizione a sé stessa, sostiene Hegel, essa diviene infelice. In parole più semplici, il dolore emerge solo laddove si desidera ciò che non si ha; la stasi si realizza quando ciò che non si ha non lo si può avere. La speranza di unificarci con l’Immutabile è destinata a restare speranza[17], la distanza a non colmarsi mai: è questo che genera la situazione di sofferenza e illusione, di oscillazione senza soluzione che è così tipica della coscienza infelice. Jean Wahl, in un libro straordinario, ha restituito alla filosofia contemporanea tali movimenti e il loro significato profondo, anche al di là del testo hegeliano[18].
Naturalmente, il dolore è un protagonista decisivo della Fenomenologia, sin dalla prefazione. Non vi è movimento storico senza dolore, senza la sofferenza che spinge alla trasformazione. Tuttavia, negli scritti successivi di Hegel, l’attenzione del filosofo è non tanto al momento della riconciliazione, come a volte si è detto non senza alcuna ragione, bensì alla potenza del dolore, alla sua capacità creatrice: nella Logica il negativo si trasforma in una luce che vivifica il sempre identico del positivo[19]. Da questo punto di vista, è insuperabile la lezione di Adorno che spiega come nella Fenomenologia ogni sintesi sia “visione dell’imperfezione”[20] del movimento dialettico e ogni forma determinata porti entro di sé la ferita della precedente. La figura della coscienza infelice è straordinaria proprio perché sottolinea il dibattersi della coscienza stessa nella stasi in cui essa stessa si pone, sognando di unificarsi con un Immutabile che per definizione le è irraggiungibile. Hegel sottolinea costantemente come questa situazione di stasi sia originata da una decisione si potrebbe dire inconscia della coscienza stessa: è la “coscienza che si impedisce l’appagamento della consapevolezza della propria autonomia”[21]. Evidentemente è proprio il fatto che la coscienza non riconosca che in sé è tutto che rende la coscienza infelice avvicinabile a quella che abbiamo definito stasi. Essa diventa un sistema chiuso, all’interno del quale ogni fattore di apparente cambiamento viene interpretato per confermare la stasi stessa. Solo la presa di consapevolezza – improvvisa, nel testo hegeliano, dopo tanto dolore – di essere tutto toglie la coscienza dalla stasi e la proietta verso una nuova figura.
Anche il lessico della storia politico-concettuale europea colloca la stasi in una posizione di mezzo, in questa sorta di sospensione senza soluzione. Giorgio Agamben ha dedicato un noto libro alla questione della stasìs[22], il termine che i Greci utilizzavano per descrivere la guerra civile. La stasìs è il conflitto che viene dall’interno, che spezza il corpo famigliare e politico della polìs e ne confonde le dimensioni. Agamben ricollega, allo stesso tempo seguendo e allontanandosi dalle ricerche di Nicole Loraux, la stasìs al significato di “levarsi”, di stare in piedi. Sin nel suo etimo, la stasìs è dunque l’immobilità, il momento dell’indecisione: è lo spazio intermedio (secondo Agamben il luogo di indistinzione) tra l’oikos e la polis, il momento incerto. Non rileva, in questa sede, che per Agamben la stasi informi di sé anche l’ordine che, hobbesianamente, le succede. È però rilevante che anche in una semantica diversa da quelle a cui ci siamo rivolti sinora stasis sia guerra civile in quanto momento di sospensione delle distinzioni comuni. Infatti, il senso è fondato su un insieme di distinzioni, di confini che i sistemi sociali o individuali tracciano e che rappresentano le loro strutture, il loro stesso funzionamento. L’entrare, appunto, in crisi di tali strutture scatena la stasis, la perdita generale del senso, che è guerra civile e quindi sospensione, sofferenza senza apparente via d’uscita.
Il più recente libro di Roberto Esposito[23] affronta, senza nominarlo, il tema della stasi, nel duplice senso – come abbiamo appena visto – di momento di blocco, di stagnazione senza apparente speranza e al contempo di lotta interiore. Il lavoro a cui ci riferiamo è un testo dedicato all’Avversario, la figura misteriosa che appare nei versi 32,23-33 della Genesi. Si tratta di un passaggio straordinario della Bibbia:
Durante quella notte egli si alzò, prese le due mogli, le due schiave, i suoi undici bambini e passò il guado dello Iabbok. Li prese, fece loro passare il torrente e portò di là anche tutti i suoi averi. Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora. Vedendo che non riusciva a vincerlo, lo colpì all’articolazione del femore e l’articolazione del femore di Giacobbe si slogò, mentre continuava a lottare con lui. Quello disse: ‘Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora’. Giacobbe rispose: ‘Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!’. Gli domandò: ‘Come ti chiami?’. Rispose: ‘Giacobbe’. Riprese: ‘Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!’. Giacobbe allora gli chiese: ‘Svelami il tuo nome’. Gli rispose: ‘Perché mi chiedi il nome?’. E qui lo benedisse. Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuèl: ‘Davvero – disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva’[24].
Al di là del ricchissimo commento di Esposito, che si muove lungo l’intero arco della storia della cultura europea alla ricerca di riprese e commenti di questo episodio biblico, è evidente che qui la descrizione non è quella di una stasi, ma di una crisi nel suo svolgimento concreto. L’attraversare il fiume, il trovarsi nell’aperto non conosciuto, lo scontro con l’Avversario, l’arrivo dell’alba, la benedizione. Sarebbe possibile – non è questa l’opinione di Esposito – dare una lettura dialettica di tale episodio. In esso è tuttavia contenuto fino in fondo il momento della stasi, che non è tanto la lotta in generale – dove emerge invece la forza di Giacobbe, da cui addirittura l’Avversario non riesce a divincolarsi – bensì l’attimo in cui Giacobbe non riesce a vincere l’Avversario.

Reflexio is dead: live in the present. O beltà che a rimirar conduce a inerzia. Opera dell’artista Liliana Sanna, su gentile concessione a Rivista Palomar.
Non deve stupire che, nelle rappresentazioni pittoriche dedicate a questo episodio biblico, in particolare quella di Paul Gauguin, sia proprio quest’attimo che viene rappresentato. Giacobbe è quasi sottomesso dall’angelo (così Gauguin lo dipinge). Ricorda il giovane pastore del Così parlò Zarathustra. Esposito, nel suo lavoro, sottolinea in continuazione come questo episodio rappresenti per noi l’indissolubilità del rapporto tra vita e lotta, tra una lotta che forma la vita, la istituisce. Il nemico, colui con cui lottiamo, sta alla soglia tra l’interiorità e l’esteriorità. Sarebbe un errore, infatti, dire che la stasi si verifica giacché una parte di noi vuole emergere e un’altra andare sparire. Questo presuppone una specie di visione contrattualistica dell’essere, come se esso fosse composto da una serie di sistemi già formati che dialogano l’uno con l’altro. La stasi è piuttosto ciò che accade quando quella che Esposito chiama “un’assenza, un vuoto, che sta al posto dell’io”[25], che lo accompagna essendo meno che la sua Ombra, spezza il senso e mantiene Giacobbe e le altre figure e sistemi che abbiamo scorso nell’immobilità. L’Avversario è il doppio del sistema, il suo punto cieco. Da questo punto di vista, se non si può che concordare con Esposito a proposito della potenza istituente della lotta (della crisi), questo va fatto a patto di distinguere con attenzione il movimento intero della crisi dalla stasi. Se quest’ultima è il momento della perdita assoluta, essa in quanto tale non è istituente. Giacobbe trae il suo stesso nome dalla propria forza, dalla difficoltà in cui pone l’Avversario che pure lo colpisce duramente. Il suo slancio, la sua fede nella promessa del Dio del Deserto (lo stesso che, nell’interpretazione di alcuni, è incarnato dalla figura misteriosa con cui Giacobbe si scontra) gli consentono di sopravvivere, di uscire dalla stasi. È su questo, tuttavia, che il lavoro di Esposito, anche al di là del testo in oggetto, aggiunge un elemento fondamentale al nostro percorso sulla stasi. Il filosofo napoletano, infatti, sottolinea in continuazione l’insuperabilità del conflitto nella sua interezza, non semplicemente come sforzo prometeico di superamento della difficoltà. La ferita, dice Esposito, si rimargina, ma non guarisce[26]. La stasi non è solo è il rischio di ogni sistema (individuale o sociale), ma rimane, informando di sé la vita successiva a essa. Mordere la testa del serpente è possibile è necessario, per abbandonare la stasi e consentire alla crisi di sviluppare la sua potenza affermativa; ma tale potenza porta con sé un resto da cui non può emanciparsi. Il pastore porterà per sempre i segni della strozzatura e sentirà a lungo il sapore del sangue del serpente in bocca. La stasi, in quanto superata, è così certamente costitutiva dei soggetti.
In uno straordinario capitolo di un suo libro[27], Emmanuel Carrère, descrivendo la sua conversione al cattolicesimo dopo una terribile stasi, un periodo di violentissima depressione dove la perdita del senso era tale da averlo portato vicinissimo al suicidio, scrive che la sua conversione avviene dopo la lettura di un passo del vangelo di Giovanni, dove Gesù si rivolge in modo misterioso a Pietro: “Quando eri giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi”[28]. Carrère sostiene che ciò che lo ha commosso, letteralmente, sia stata la promessa del Signore di salvezza in cambio dell’abbandono totale alla sua potenza infinita. Ci sia concesso di dissentire, anche relativamente alla sua stessa crisi. Non è l’abbandonarsi che rompe la stasi, non è l’abbandono la ricerca di chi è in stasi, bensì l’essere portati.
La stasi, come nel racconto di Conrad, è l’assenza di un movimento reale, di una progressione. Il Signore promette la salvezza dalla stasi poiché promette il movimento. Ogni movimento, d’altronde, è rottura, come il Gesù dei Vangeli non fa che ricordare. Su questo anche San Paolo non si allontana, come è noto, da ciò che dirà poi Nietzsche. La grandiosità della sua predicazione è proprio questa: Cristo è venuto a portarci altrove, ad allontanarci dalla stasi di una Legge che ha perso il suo senso nel mondo di Roma. Piero della Francesca ha riportato questa, che possiamo a buon diritto chiamare affermatività, di Cristo, nel suo famoso dipinto. Quel Cristo viene a portare dove non si vuole, perché nella stasi non si vuole, non si può, andare da nessuna parte. Il Cristo di Della Francesca è come lo Zarathustra di Nietzsche. Ci chiede di mordere il serpente che ci assassina, che ci soffoca. Da questo punto di vista, che la stasi possa essere rotta solo con un salto che non è mero superamento, ma che è una rottura, un attimo che non è negazione determinata, è forse un fatto che ci restituisce una possibilità di lettura non completamente dialettica della crisi. La stasi, lo si è detto più volte, è un momento della crisi, la cui lettura marxiana (dialettica) rimane insuperata. Tuttavia, si esce dalla stasi solo mordendo la testa del serpente. Quell’attimo, che è l’attimo della rivoluzione, non condiziona certamente il movimento concreto dello sviluppo positivo della crisi, che è invece governato da molteplici passaggi. Tuttavia, senza quel morso (la scelta individuale o la decisione politica della lotta di classe) non vi può essere movimento. Esso ci porterà dove non vogliamo, nel duplice senso di dove non possiamo prevedere e di altrove dalla condizione maledetta della stasis.
Torniamo ora a Nietzsche. Il giovane pastore, per non morire nella stasi, morde la testa al serpente. Egli è la metafora di chi trasfigura, con la propria volontà, l’intero suo passato, né pronunciando nei confronti di esso un “no” terrorizzato né alzando le spalle come se fosse indifferente, ma il famoso “sì, così volli che fosse”. Questo non significa, come si può pensare banalizzando il pensiero di Nietzsche, che l’uomo fuori dalla stasi rimanga beato a contemplare la necessità di quanto gli è accaduto e di quanto gli accade. Non è la passività il significato dell’eterno ritorno. La discontinuità, pur presente, tra Così parlò Zarathustra e le giovanili Considerazioni inattuali, è stata sottolineata con troppa foga. Accettare il passato come ciò che si è volutoè un modo per dimenticarlo. Non si uscirà mai dalla stasi se si rimarrà a contemplare le cause che la hanno generata, o la stasi stessa. Non deve stupire che il pastore sia strozzato: chiunque sia mai stato terrorizzato dalla vita si è sentito allo stesso modo, pur senza avere alcun serpente al collo. Non vi è modo per riprendere a respirare che smettere di pensarci. Questa lezione nietzschiana rimane insuperata e, in realtà, è applicabile fino in fondo alla Fenomenologia dello spirito hegeliana. Solo alla fine del suo percorso la coscienza può guardarsi indietro e ammirare le proprie stasi come passaggi verso una fine gloriosa. Nel percorso, possiamo quasi percepire come la coscienza – la abbiamo rapidamente ricordata nel momento della sua infelicità – si scrolli di dosso il proprio dolore e riprenda a camminare. Non si può essere felici che dimenticando, uccidendo ciò che si era, lasciando andare:
“Ma sia nella massima sia nella minima felicità è sempre una cosa sola quella per cui la felicità diventa felicità, il poter dimenticare o, con espressione più dotta, la capacità di sentire mentre essa dura in modo non storico, chi non sa mettersi a sedere sulla soglia dell’attimo dimenticando tutte le cose passate, chi non è capace di star ritto su un punto senza vertigine e paura come una dea della vittoria, non saprà mai che cosa sia la felicità e, ancor peggio, non farà mai qualcosa che renda felici gli altri.”[29]
In questo passaggio c’è la fine della stasi come oblio delle sue cause e di sé stessa. A noi non pare che sia possibile dire altro a partire dal punto di vista di chi è dentro la stasi – collettiva o individuale, storica o esistenziale. Il pensiero dialettico è imprescindibile per cogliere il movimento reale della crisi: non ripeterlo fino alla morte sarebbe un crimine e tradirebbe il vero significato della breve ricerca qui svolta. Essa serve solo a identificare il momento interno al sistema che entra in stasi. Per lui non c’è vittoria che nella consapevolezza che quanto vive deve essere dimenticato, ucciso, morso. Per questo salto è fuori di dubbio che, come è stato sottolineato da una lunga tradizione, sia indispensabile la fede, cioè la certezza che anche nel momento in cui il serpente stringe con maggior forza, sarà possibile cogliere l’attimo, colpirlo per spezzare la presa. La stasi si cronicizza senza la fede. L’abbandono della stasi è, in sé, sempre una scommessa: Lenin non aveva la chiave del processo che avrebbe messo in atto, non ne conosceva a priori la legge. Nessun sistema, mentre è nella stasi, lo abbiamo detto, sa che la abbandonerà. Sarà poi lo sguardo di sorvolo che egli volgerà alle sue spalle – non senza provare dolore per la cicatrice che la stasi inevitabilmente lascia –, dopo, a indicargli quello stesso dolore come momento della sua crisi, come passaggio istituente della forma della sua vita.
Articolo di Paolo Missiroli
Tutte le immagini dell’articolo sono opere dell’artista Liliana Sanna, che ringraziamo
[1] F. Capra, P. L. Luisi, The Systems View of Life. A unifying vision, Cambridge University Press, Cambridge 2014; tr. it. Vita e Natura. Una visione sistemica, Aboca, Città di Castello 2014.
[2] https://www.treccani.it/vocabolario/stasi/
[3] K. Marx, MEW 23; tr. it. Il capitale I, Editori Riuniti, Roma 1968/80, p. 90.
[4] Weareplanc, We are all very anxious, online, 4/04/2014.
[5] Su tale fenomeno e sulla sua origine L. de Sutter, Narco capitalism. Life in the age of Anaesthesia, Polity Press, New York 2017; tr. it. Narcocapitalismo. Vita e psicopolitica nell’era dell’anestesia, Verona 2023.
[6] P. Missiroli, Teoria critica dell’Antropocene. Vivere dopo la Terra, vivere nella Terra, Mimesis, Milano, 2022.
[7] G. A. Albrecth, Earth emotions. New words for a new world, Cornell University press, Ithaca and London 2019, pp. 10-21.
[8] F. Nietzsche, Also sprach Zarathustra. Ein Buch für Alle un Keinen, Schmeitzner Verlag, Leipzig 1883; tr. it. Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, Adelphi, Milano 1968 (2012), pp. 185-6.
[9] J. Conrad, The shadow line. A confession, Doubleday Page&Company, New York 1917; tr. it. La linea d’ombra. Una confessione, Einaudi, Torino 1947 (2015).
[10] Ivi, p. 7.
[11] Ivi, p. 23.
[12] Ivi, p. 49.
[13] Ivi, pp. 100-101.
[14] Ibid.
[15] C. Combe, Il dubbio e l’ipocondria, in V. E. Morpurgo, G. Civitarese (a cura di), L’ipocondria e il dubbio. L’approccio psicanalitico, FrancoAngeli, Roma 2011, pp. 35-75.
[16] J. Conrad, La linea d’ombra, cit., p. 101.
[17] G. W. F. Hegel, Phänomenologie des Geistes,Goebhardt, Bamberd und Würzburg 1807; tr. it. Fenomenologia dello Spirito,Bompiani, Milano 2014, p. 313.
[18] J. Wahl, Le malheur de la conscience dans la philosophie de Hegel, PUF, Paris 1951 (1929); tr. it. di F. Occhetto, La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, Laterza, Bari 1994.
[19] G. W. F. Hegel, Wissenschaft der Logik. Erster Band. Die objektive Logik, Hrsg. von Friedrich Hogemann und Walter Jaeschke, Hamburg 1978 (1812/1813); tr. it., Scienza della logica. Vol. II, Laterza, Bari 1978, p. 67.
[20] T. Adorno, Negative Dialektik, Suhrkamp Verlag, Frankfurt 1966; tr. it. Dialettica negativa, Einaudi, Torino 1970, p. 141.
[21] G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, cit., p. 321.
[22] G. Agamben, Stasis. La guerra civile come paradigma politico. Homo sacer. Vol. II\2, Bollati Boringhieri, Milano 2015.
[23] R. Esposito, I volti dell’Avversario. L’enigma della lotta con l’Angelo, Einaudi, Torino 2024.
[24] La Bibbia di Gerusalemme, EDB, Bologna 2009.
[25] R. Esposito, I volti dell’Avversario, cit., p. 150.
[26] Ivi, p. 120.
[27] E. Carrére, Le Royaume, P.O.L, Paris 2014; tr. it. Il Regno, Adelphi, Milano 2015, pp. 29-101.
[28] Vangelo di Giovanni, 21-18, in La Bibbia di Gerusalemme, EDB, Bologna 2009.
[29] F. Nietzsche, Unzeitgemässe Betrachtungen. Zweites Stück: Vom Nutzen und Nachtheil der Historie für das Leben, Fritzsch Verlag, Leipzig 1874; tr. it. Sull’utilità e il danno della storia per la vita, in Opere, vol. III, t. I, Adelphi, Milano 1976, p. 264.