La forma dell’abitudine in Henri Bergson

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La teoria dell’abitudine, come trattata da Henri Bergson nella sua opera Materia e Memoria(1896), viene approfondita nel secondo capitolo del testo, dedicato alla memoria e al cervello, in cui il filosofo francese distingue tra due tipi di memoria: la memoria immaginativa e la memoria-abitudine. La prima si costituisce come una raccolta di immagini-ricordo, delineando gli eventi e il loro contesto, formando così un corollario immaginativo che accompagna l’individuo nella sua esperienza del mondo. La seconda, che sarà oggetto centrale di questa analisi, è la memoria-abitudine, caratterizzata da un processo motorio-mnemonico: attraverso la ripetizione costante dell’azione il ricordo si imprime nel corpo generando un’automatizzazione che diviene impersonale, quasi estranea all’identità costruita dall’individuo. In che modo la ripetizione contribuisce alla formazione dell’abitudine?

Cp-naissance: conoscenza innata, sentire immediato. Opera dell’artista Liliana Sanna, per gentile concessione a Rivista Palomar.

Bergson descrive il processo della memoria-abitudine come una sorta di accumulazione di meccanismi motori all’interno del sistema nervoso, che porta l’organismo ad agire in modo automatico, quasi come una macchina[1]. La ripetizione di un’azione, attraverso la quale si acquisisce un ricordo, non solo impronta quest’ultimo nella memoria corporea, ma costruisce un’abitudine, un automatismo che si radica nel corpo. Questo tipo di memoria, dunque, è strettamente legato al presente: la ripetizione delle azioni fa sì che il corpo reagisca continuamente, consolidando i ricordi in un ciclo perpetuo di azione, percezione e riconoscimento.

È proprio in questo rapporto tra corpo e azione che emerge l’analogia tra l’organismo umano e la macchina. Bergson paragona l’uomo a un automa che attraverso l’azione meccanica ripetitiva si distacca dalla sua vita interiore e si riconosce nei suoi movimenti ripetitivi, conferendo loro un carattere impersonale. L’uomo usa il suo corpo come strumento, riconoscendosi nei suoi movimenti standardizzati e in essi plasma e infonde la sua memoria. Il corpo, che in Bergson è una tra le immagini di un mondo composto di immagini, si relaziona con l’esterno applicando i ricordi per poi ricondurre a sè il proprio operato. Ciò che riceve il corpo-immagine proiettandosi sulle cose è il riflesso delle sue azioni potenziali su di esse. Le azioni potenziali sulle immagini, utilizzate come strumenti, è ciò che fa sì che l’uomo acquisisca coscienza delle sue capacità, dei suoi limiti. Sini trattando del corpo-automa utilizza il termine protesi per indicare uno strumento esosomatico in uno procedimento che prevede l’esteriorizzazione del corpo, che si cosalizza per esercitarsi nelle sue azioni vitali, trasferendosi in un oggetto materiale. Qualcosa di inattivo diviene attivo come uno strumento per mezzo del suo uso, ciò che riteniamo fuori da noi diventa un fenomeno esosomatico, proprio perché attraverso l’agire scorgiamo il riflesso delle nostre azioni sugli oggetti. È a partire dall’azione retroflessa del supporto che “fa segno” che si origina l’azione della mente[2]. L’agente si riconoscerà grazie alla retroazione della protesi cosi come per Bergson la percezione riflessa si basa sull’interazione che la coscienza funzionale ha con le immagini.

Le catene dell’abitudine. Opera dell’artista Liliana Sanna, per gentile concessione a Rivista Palomar.

Tutto questo sistema gira intorno al corpo che per il filosofo francese è il centro d’azione: Bergson considera il corpo come una macchina che riceve ricordi e li riproduce costantemente attraverso l’azione nel presente, stabilendo un’abitudine in questo processo che lo rende impersonale, una sorta di automa. Bergson quando nel suo saggio Il riso(1900) tratta della natura del comico, descrive tale fenomeno come l’aspetto della persona per cui essa rassomiglia a una cosa, quell’aspetto degli avvenimenti umani che imita, con la sua rigidità di un genere tutto particolare, il meccanismo puro e semplice, l’automatismo, il movimento senza la vita[3]. Bergson descrive la comicità come di una rigidità meccanica, di una trasfigurazione di una persona in una cosa ed il riso appare quando si applicano delle regole, delle rigidità all’essere vivente, lo si rende cosa. La risata oscilla tra la distinzione di Leib e Korper, tra corpo vivente, sentito e corpooggettivo, anatomico, meccanico. Vi è uno sdoppiamento del corpo, che diviene estraneo proprio in questo metodo meccanico che rende l’azione un processo di esternalizzazione. Dietro alla macchina vi è la ripetizione, dalla quale scaturisce l’effetto comico come accade per esempio nella ripetizione meccanica di una frase o di una situazione. In una ripetizione comica di frasi ci sono generalmente due termini, un sentimento compresso che si distende come una molla e un’idea che si diverte a comprimere di nuovo il sentimento[4].

Lo storytelling ed il pensiero emergente. Opera dell’artista Liliana Sanna, per gentile concessione a Rivista Palomar.

Per comprendere appieno la teoria dell’abitudine di Bergson, è necessario tenere presente questo doppio movimento di contrazione ed esplicazione, che riguarda sia la memoria sia l’azione. L’abitudine è frutto della contrazione del passato nel presente, un processo che viene continuamente reiterato attraverso l’azione. Tuttavia, per Bergson, il pensiero non deve rimanere intrappolato in questo automatismo: egli propone, infatti, una via d’uscita attraverso il metodo intuizionista. In che modo l’intuizione permette di superare l’automatismo della ripetizione?

L’intuizione, secondo Bergson si riferisce alla simpatia per cui ci si trasporta all’interno di un oggetto, in modo da coincidere con ciò che esso ha di unico e, conseguentemente, di inesprimibile[5]. L’intuizione, in questo senso, consente di superare l’automatismo meccanico dell’abitudine e di accedere a un livello più profondo della memoria, legato alla durata reale, che rappresenta il flusso continuo dei nostri stati psichici. Questo metodo intuizionista cerca di liberarsi dalla ripetizione automatica delle azioni per cogliere il reale nel suo farsi, non come un dato già formato. L’azione, dunque, non è più una mera ripetizione di schemi passati, ma diventa la concretizzazione di uno stato virtuale, la manifestazione della molteplicità delle intenzioni e delle potenzialità che risiedono nella nostra durata interiore. L’individuo praticando su di sé, rappresenta sé stesso come una moltitudine di fatti. Il virtuale per concretizzarsi non deve procedere per eliminazione o limitazione, ma deve creare, con degli atti positivi, le sue linee di attualizzazione[6].

Resistenze operative lungo la catena di montaggio dei ricordi. Opera dell’artista Liliana Sanna, per gentile concessione a Rivista Palomar.

In conclusione, è bene sottolineare in Bergson la distinzione tra riconoscimento automatico e riconoscimento attento. Il primo si basa sull’abitudine e sull’automatismo, il secondo, invece, prevede l’intervento della memoria immaginativa, che ci permette di ricondurre l’oggetto percepito ai ricordi e di riattivare il flusso della durata. In questo atto di riconoscimento attento l’azione, non più automatica ritorna indietro, nel senso che retroagisce come in un sistema di feedback loop, facendo coesistere l’agente e l’oggetto dell’azione. Partecipare a questo processo continuo, attraverso quello che Bergson chiama concentration de l’esprit o sforzo appercettivo[7] significa slegarsi dalla serialità simbolica giungendo a cogliere uno stato virtuale dove l’azione è in uno stato di possibilità, dove la ripetizione è differenza.

Articolo di Leonardo Gregori

Tutte le immagini dell’articolo sono opere dell’artista Liliana Sanna, che ringraziamo.


[1] H. Bergson, L’evoluzione creatrice, Utet, Torino 1971, p. 189.

[2] C. Sini, L’uomo, la macchina, l’automa, Bollati Boringhieri, Torino 2009, pp. 82-83.

[3] H.Bergson, Il riso, Laterza, Bari 1991, p. 44.

[4] H. Bergson, Il riso, cit. p. 39.

[5] H. Bergson, Introduzione alla metafisica, Laterza, Bari 1971, p. 2.

[6] G. Deleuze, Il bergsonismo e altri saggi, Einaudi, Torino 2001, p. 86.

[7] H. Bergson, Materia e memoria, cit., p. 84.

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