Dialogo tra due insegnanti di filosofia, uno agli inizi (A) e uno più esperto (B)
A: Sai, quando decisi di intraprendere questo lavoro, giurai di smantellare il muro tra insegnanti e alunni – parte di una muraglia ben più ampia – anziché ingrossarlo diventando l’ennesimo mattone. È un proposito tanto corretto quanto banale, lo so, eppure oggi mi chiedo se lo stia veramente osservarlo.
B: Come mai questa preoccupazione?
A: Perché le battaglie che combatto ogni giorno mi sembrano alla fine rivolte contro gli studenti. Mi spiego subito. Tutto mi chiede di “farla semplice”, e non solo gli studenti, ma anche i libri di testo, che propongono ridicoli riassunti, e persino ai concorsi all’insegnante viene chiesto di essere tutto fuorché difficile. Io però non ci riesco, anzi: non voglio, mi rifiuto.
B: Riconoscerai, però, che saper semplificare ciò che è complicato è parte integrante del nostro mestiere. La complessità, di per sé, non è mai un valore da perseguire, tant’è che anche a livello universitario un articolo complicato non paga – perché non lo legge nessuno, e quando succede nessuno lo capisce, e se ciò accade comunque non lo si cita, visto che altri meno disposti a perderci tempo non lo capirebbero, e quando un articolo non viene citato è come se non esistesse. Io conosco quelli come te: quando un compito va bene, prima di esserne lieto ti chiedi se tu non l’abbia fatto troppo semplice, e te ne rammarichi. O mi sbaglio?
A: Sì però le cose sono difficili, perché del resto la realtà è complessa. E potremmo a lungo disquisire sulla difficoltà di pensare il semplice, sulla differenza tra ciò che è semplice e ciò che invece è facile, e se facilitare significhi rappresentare la complessità in quanto tale. Non è però questo il punto. Quando ovunque leggo che non bisogna caricare gli studenti di compiti complessi o sfinirli con domande senza risposta, bensì valorizzare le loro capacità, io mi oppongo apertamente. A parte che questo lessico (capacità, competenze, conoscenze acquisite), ottuso quanto imperante, non sottende alcuna ontologia, cosa c’è da valorizzare? Il fatto stesso che vadano a scuola significa che devono imparare. Cosa significa imparare? Che devono “attivare” “abilità” collaterali, cioè utili a fare tutt’altro? – cosa, non si sa. Ma finiamola. Vanno spremuti, non coccolati, perché è proprio nella coccola che si cela il vizio e lo sfruttamento. Io voglio remare contro questa cultura della semplificazione, del “va bene così come siamo”: no invece, non va bene per niente! Dire che questi ragazzi vanno bene significa accettare le ideologie di cui sono imbevuti, loro e i loro genitori, ancora traumatizzati dalla scuola e perciò inclini a spezzare una lancia contro di essa. Gente che non sa leggere, non sa scrivere, non sa pensare (ma magari sa incassare l’assegno): dovremmo dire che va bene? Cosa c’è da valorizzare? E infatti un domani non ci sarà nemmeno più bisogno della scuola, perlomeno di questa scuola, che fa di tutto per sottrarre questi poveri e fragili piccoli alle avvilenti lezioni frontali. Invece io voglio proprio evitare che fuori dalla scuola circolino persone che ricercano la semplicità, che vivono nella semplicità, che finanziano e votano per la stupidità. Bisogna intervenire finché sono studenti. Ma dicendo queste cose, lo so, io finisco per erigere un muro.
B: Quando tu dici questo, presupponi che l’insegnamento avvenga in questo modo: la complessità di un argomento si traduce magicamente in una maggiore complessità nel carattere, o nella mente, dello studente. Tuttavia, in questo processo manca proprio quell’elemento mediano che è l’insegnamento, che è ciò che distingue un buon insegnante (non già uno che la fa difficile) da chi ha davvero traumatizzato i genitori dei nostri studenti; motivo per cui chi conosce bene un argomento non è detto che lo sappia insegnare…
A:…no, allora, ti interrompo subito, perché è tempo di invalidare questo ottuso luogo comune. Si tratta infatti di una sciocchezza: io potrei ramificare le mie lezioni su Kant fino all’esasperazione, ma non lo faccio perché distinguo tra ciò che è importante per uno studente di scuola rispetto ad un uditore universitario, e so compiere una simile distinzione proprio sulla base della mia conoscenza dell’autore. Il punto è che la conoscenza approfondita serve a rispondere alle domande e alle richieste di chiarimento, a fare esempi, e soprattutto, a presentare le informazioni secondo un ordine logico che ne agevoli l’assimilazione: ecco dove sta l’insegnamento, anziché escogitare improbabili giochi di ruolo. Non si tratta insomma di sapere semplicemente tanti contenuti, né di dirli in modo difficile. Poi, naturalmente, in primis si fa di tutto per evitare che queste richieste di chiarimento partano dagli alunni, che non sono più forzati alla comprensione dello schematismo kantiano, e quindi va bene anche che la conoscenza di chi insegna sia limitata, circoscritta, e sai circoscritta a cosa? A saper evitare i punti difficili, per mettere al centro le capacità dello studente, cioè, la sua stupidità.
B: Allora dove sta il problema? Mi sembra un buon intento, nonostante i tuoi toni sempre esasperati.
A: Il problema è che tanti miei colleghi non sanno Kant, e del resto questa conoscenza approfondita di cui ti parlavo non è nemmeno richiesta loro, e anzi ti dirò che viene perseguitata, disincentivata, proprio perché il punto non è trattare di cose complicate, ma rendere le lezioni sempre più facili e banali – “partecipate”, si dice, perché solo le sciocchezze avvincono questi studenti. Una metessi perversa.

B: Chi è che potrebbe dire di conoscere Kant, di conoscerlo bene? Suvvia.
A: Ecco, tu tocchi un’altra grande questione. Conosci l’università, allora saprai anche che ci sono professori che, pur insegando una materia come filosofia – ma tu dirai: proprio per questo – credono di saperla lunga. Per loro è impensabile apprendere qualcosa da un dottorando, figuriamoci da uno studente, e anzi l’intero sistema accademico è concepito per scongiurare questa possibilità.
B: Dove vuoi arrivare?
A: Voglio dire che nel nostro ambito c’è sempre chi se la crede e chi invece problematizza anche i suoi traguardi più prestigiosi. Quando si insegna un autore, se lo si conosce bene, si riesce ad evitare che vengano inculcati dogmi, prospettando una più ampia complessità di fondo, che opportunamente traspare anche nell’insegnamento delle cose più semplici, che quindi non sono più tali. Ma oggi ciò non avviene, perché anziché conoscere la filosofia…anzi, mettiamola così: anziché essere filosofi, ci viene chiesto di essere educatori – ma nemmeno, non saprei bene dire cosa dobbiamo essere. Se vogliamo stare ai termini dell’argomento di prima, la questione è passata da conoscere Kant, ma non saperlo spiegare, a saperlo spiegare senza conoscerlo.
B: Via via, come fai a dirlo? I concorsi servono a questo: un minimo di conoscenza è richiesto, ed è ciò che viene trasmesso agli studenti; se poi questi vorranno approfondire, come dici tu c’è un modo da scoprire.
A: E invece no, questo minimo nucleo di conoscenze è totalmente assente. Sai cosa vogliono gli studenti, la cui mancanza li mortifica? Elenchi puntati, li chiamo. Quali sono i momenti della Fenomenologia dello Spirito? Quali sono i tre tipi di anima per Aristotele? Conseguentemente, i livelli di intelligenza e di stupidità si riassettano su questi standard, per cui capita che gli studenti non siano nemmeno più in grado di imparare l’ordine della Fenomenologia. E del resto la conoscenza richiesta ai futuri insegnanti è fatta di questi elenchi. Sfoglia tu stesso un qualunque manuale, un qualunque concorso. Forse proprio la scomposizione del sapere nella iniqua trinità competenze-conoscenze-abilità, (e ricordo che noi filosofi abbiamo il compito di vigilare sul riporsi del sapere) ha fatto sì che il modo in cui vengono trasmessi i contenuti incida su questi ultimi, ora ridotti appunto ad elenchi puntati. Se le cose stanno così, io voglio essere un altro mattone, stavolta di un muro contro l’aridità e l’ignoranza.
B: Vacci piano, tu in classe puoi fare come vuoi, lo sai; non te la prendere con i concorsi; è come passare l’esame di guida e imparare davvero a guidare. Impara l’arte, e mettila da parte; buon viso a cattivo gioco: tutti questi detti ti fanno capire quanto sia normale tutto questo. Ma bisogna saper andare al di là del testo, oltre lo standard, che è ottuso per definizione. Se conosci così bene le cose come dici, abbassarti per una volta a rispondere ad un test a crocette dovrebbe essere un gioco da ragazzi.
A: Ma io non voglio, anzi, non posso! Non ce la faccio a pensare in modo così stupido. Anzi, ai concorsi sbaglio proprio gli argomenti che conosco meglio, perché non riesco ad essere superficiale come mi viene richiesto. Né voglio essere un’anima bella che lotta contro il sistema: io sono il sistema, e devo distruggerlo da dentro. Mi si chiede di pensare, di lavorare, in un modo che segna la morte di ciò che insegno; non posso semplicemente chiudere un occhio. Io, e tutti quelli come me, moderno Socrate, moderno Giordano Bruno: non possiamo rinunciare alla nostra vocazione, non possiamo abiurare. E la gente non lo capisce, non ci capisce, non ci capirà mai.
B: Bravo, hai detto bene, Socrate. Socrate ci ha però condannati tutti con il suo gesto, e sai perché? Perché noi, a differenza sua, lavoriamo. Eh già, differenza non da poco! Noi abbiamo un compito, come dici anche tu, ma di tutt’altro tipo: non un incarico, bensì una mansione. Ecco cosa ci viene chiesto di essere: né filosofi né educatori, bensì insegnanti. Il lavoro che facciamo non corrisponde alla nostra vocazione? Sai che novità: è forse questo il dramma del nostro tempo. Chi crede di essere un idealista, denunciando questa “ingiustizia”, non è che un ragazzo viziato; questa è la realtà. Ma non ti credere, non intendo dire che dobbiamo chinare il capo e subire in silenzio. Invece, si tratta di riconoscere che la nostra vita – la vita da filosofi – non coincide con il nostro lavoro, e per fortuna, perché in questo modo è salvaguardata dall’idiozia del lavoro, e questo vale in generale, per ogni lavoro; solo un coglione come Socrate poteva inventarsi una simile fesseria, che però non va mai presa alla leggera, perché come vedi qualcuno resta sempre fregato dalla fatale identificazione di lavoro e filosofia, e dall’elevazione di ciò al rango di “missione”. Noi non dobbiamo opporci alle cose, ma seguire il loro stesso indirizzo. Il lavoro fa schifo? Bene, è giusto così, perché ciò ci consente di ritagliare lo spazio per l’autentico lavoro filosofico, che può prevedere il confronto con i ragazzi come no. In altri termini, è fallimentare erigere muri nel deserto; si tratta di capire che è il deserto stesso un muro, cioè, che è l’ignoranza ad isolarsi, anziché straripare e corrompere.
A: Tipico, questo tuo modo di ragionare, dei tuoi studi, e forse anche della tua età. Vorrei discuterne a lungo, ci sarebbe molto da dire. Ma torniamo al nostro discorso. Io non credo che davvero si possa isolare la nostra attività filosofica, la nostra missione di liberare tutti dalla caverna – non alzare gli occhi al cielo: il viziato sei tu, a deridere chi prova ancora passione per ciò che fa. Ed è forse così sbagliato sognare, ma che dico, pretendere, pretendere che, per una volta tanto, il nostro sia un lavoro a tutti gli effetti? È sbagliato battersi affinché il lavoro stesso sia dignitoso? Guarda che senza lavoro io non vivo, non so te. Ma sai chi ci minaccia? Cosa rende il nostro lavoro ottuso? Il dominio diffuso e tirannico delle scienze dell’educazione.
B: Beh, cosa ti aspetti? Lavoriamo nell’insegnamento!
A: Lasciami finire. Filosofia può insegnarla anche chi viene da un’altra classe di concorso, ossia non storia e filosofia, bensì filosofia e “scienze umane”. E questo è un grosso problema, non solo perché tutti adesso si iscrivono a questi licei umanistici, versioni semplificate del classico, ma anche perché gli stessi pedagogisti, psicologi e via dicendo, si vedono avvantaggiati nei concorsi, visto che sono richieste conoscenze di queste discipline. Aspetta, lo so, sono richieste anche ai matematici, ma il fatto è che i matematici non possono insegnare filosofia, mentre questa gente sì! Sai, ho sempre pensato che dovessimo salvaguardare la filosofia dal pensiero scientifico, ma è sul lato umanistico che si cela il pericolo più insidioso. E guarda caso, nessuno si accanisce se un matematico, quando fa lezione, non prevede flipped classroom, lezioni partecipate e altre simili stranezze: tutto sommato, va bene se la classe si annoia; è matematica. Ma invece, filosofia, eh no, su di lei si riversa l’intero pentolone di queste metodologie; su di essa si sbizzarriscono tutte le più esasperate ansie e manie di controllo, come sempre è stato. Filosofia non può essere noiosa, non può essere difficile come matematica: su filosofia ci si deve accanire, deve essere controllata, e quale modo migliore per porla ai nuovi custodi della conoscenza, a coloro che credono di sapere cosa sia l’intelligenza, l’educazione, la psiche, la conoscenza…
B: Sempre a cercare nemici, eh? Ma perché, per una volta, non puoi pensare che le scienze naturali, la filosofia, e le discipline psico-pedagogiche possano tutte collaborare alla grande impresa della conoscenza? Credendo che solo la filosofia possa occuparsi dei temi che dici, finisci per essere il primo a sminuire l’intelligenza, la psiche, e via quant’altro, come se un unico approccio bastasse a definirli. È poi questo che vuoi, farci la guerra tra noi poveri? Ma non lo vedi che tu alla fine sei il più ideologizzato di tutti? La filosofia non è minacciata, e certamente noi non ne siamo gli oracoli tutelari. Lei se la cava benissimo da sola, proprio perché, quando sembra sparire dalle aulee e dai paper, là diventa più forte, più pura, più urgente. E il sapere filosofico non risiede per forza nella complessità, nel mostrare come la teoria aristotelica dell’intelletto sia mille volte più approfondita, articolata, accurata, rispetto a quella del più brillante psicologo. Certo, può darsi che si tratti di una teoria più vera, ma anche più bella, più appagante… o forse la pretesa stessa di dire dove stia la filosofia non è che il primo passo della sua denuncia. Se noi intendiamo “amore per il sapere” come la custodia della conoscenza, il suo riporla, come dici, il preservarla, allora hai ragione tu, ma se invece leggiamo la conoscenza non già come conoscenza filosofica, ma come conoscenza anche psicologica, matematica, etc., allora è chiaro che noi siamo filosofi quando ci attiviamo per non banalizzare questi saperi, il che avviene tanto quando riconosciamo che un elenco puntato non li rappresenta quanto, attento, nel rifiutarsi di credere che matematica possa essere tranquillamente spiegata in modo noioso e frontale, come se la lezione frontale fosse di per sé noiosa, o lo fosse la complessità. Tu hai ragione, non è affatto banale sforzarsi di non essere l’ennesimo mattone tra noi e loro, ma si tratta di uno sforzo che si compie giorno per giorno, ora per ora, anziché assumere a proprio vessillo la lotta astratta contro le scienze umane o la semplificazione, o ancora il gergo scolastico “deontologizzato” – forse non una cattiveria. E quando dico che è un bene che il nostro lavoro sia separato dall’attività filosofica, non intendo sminuire l’attività di insegnante, né il lavoro in generale. Intendo solo dire che i lavori possono andare incontro a queste perversioni, e tuttavia non è nel lavoro che si esaurisce la filosofia; proprio per questo il nostro lavoro può essere fatto bene o male, e cioè quando lasciamo introdurre la filosofia, che di per sé sta fuori. E se la scuola del futuro farà di tutto per diventare non filosofica, ciò non sancirà la morte della filosofia, e la stessa cosa vale per l’Università, che forse è stata storicamente la più acerrima nemica della filosofia. Gli studenti sono refrattari alla complessità? Fagli capire che sbagliano, il che non significa punirli con verifiche complesse. Il compito di realtà si chiama così proprio perché non è una verifica lo specchio della realtà complessa. E se questo non riesce, forse funzionerà la prossima ora, o il prossimo argomento, o con la prossima classe. È questa l’unica missione che vedo per noi: non gettare la spugna.
A: Forse hai ragione, forse sei troppo conciliante. Non lo so, devo pensarci. Però ti ringrazio per essermi stato a sentire, e non esserti fatto scomporre dai miei toni.
B: Ricordati che l’insegnamento non è limitato alla classe, ma è una relazione che avviene anche tra me e te.
A: Amen.
Articolo di Marco Cavazza