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Archeologia linguistica di un mondo che cambia. Su “La parola e la sua ombra” di Alejo Carpentier

14 minuti

Se c’è un’immagine perfetta per descrivere il rapporto fra la lingua astratta e la realtà concreta, o meglio fra langue e parole come direbbe il linguista ginevrino Ferdinand de Saussure, è quella che ci dà l’autore austriaco Hugo von Hofmannstahl nella sua Ballata della vita esteriore:

Che giova aver visto così tante cose? / Eppure dice molto chi dice “sera”, / parola che un senso profondo e dolore stilla / come greve miele dal cavo d’un alveare.

Con questi ultimi versi, Hofmannstahl ci racconta come le parole siano spesso capaci di esprimere la crisi, il cambiamento della nostra realtà, la sua esperienza alienante. Laddove la realtà perde il senso delle cose, le parole riescono a captarlo e a renderlo per iscritto. Per farlo, però, il linguaggio deve cercare di stare al passo con i tempi, deve evolversi di modo che possa riuscire a interpretare concetti astratti sempre nuovi e sempre più difficili da decodificare. Così successe ai tempi del modernismo e del simbolismo, così è accaduto anche in Sudamerica, in particolare sotto la dominazione europea e poi con l’influenza delle nuove idee culturali provenienti dall’Europa e dall’America. In quest’ultima realtà, per esempio, è stato fondamentale soprattutto trovare un linguaggio che unisse lo spagnolo castigliano a parole delle lingue indigene e di origine straniera per esprimere lo sfruttamento e i danni della dominazione straniera e gli strascichi che ancora oggi sono presenti in alcuni dei paesi sudamericani.

Un libro significativo in questo senso è, per esempio, Restare vividi Valentina Barile (Wudz, 2024), reportage ambientato in Colombia e che intende raccontare la lotta di resistenza della popolazione colombiana nei confronti dei signori del narcotraffico e delle ingiustizie del governo colombiano presentando un lessico che, unendo le lingue indigene, lo spagnolo, l’italiano e il latino non solo rimarca il rapporto fra il vecchio colonialismo europeo, il capitalismo e la guerriglia civile, ma mette in luce anche il forte legame fra il territorio, la memoria e la lotta per il potere.

Tutte queste riflessioni in realtà le troviamo anche in La parola e la sua ombra. Riflessioni sulla lingua, una piccola raccolta di articoli giornalistici dello scrittore cubano Alejo Carpentier (1904-1980) pubblicati dall’editore salernitano Arcoiris con traduzione e curatela di Marcella Solinas. I pezzi giornalistici qui raccolti sono una selezione degli oltre 5000 contributi che Carpentier ha pubblicato dal 1922 fino alla sua morte nel 1980 e come scrive Solinas nella prefazione al volume «costituiscono un elemento sostanziale della sua formazione intellettuale nonché la “base” di vari dei suoi romanzi».

Se i romanzi sono specchio della realtà, questi pezzi sulla lingua sono fondamentali per capire la realtà in cui ha vissuto Carpentier, nato a Losanna e morto a Parigi, vissuto a Cuba tutta una vita con incursioni in Venezuela che nei suoi romanzi ha molto trattato il colonialismo europeo in Sudamerica e raffigurato l’eredità dell’identità afro-cubana. Carpentièr come cronista ha influenzato cronisti come Martin Caparrós per il suo modo di «raccontare la realtà e trasformare la propria prospettiva in un’esperienza collettiva» partendo «da un punto di vista esplicitamente soggettivo». Prendendo le mosse, quindi, dalla sua esperienza personale di autore cosmopolita, Carpentier ci illustra in questa selezione di articoli come la lingua spagnola – parte della sua esperienza soggettiva che si fa universale, appunto – sia espressione di un popolo – quello sudamericano – che come tutti gli altri popoli non soltanto si è dovuto confrontare con un’ingerenza straniera che ne ha minato l’identità, ma allo stesso tempo l’ha dovuta accogliere per evolversi e cercare di avere i mezzi per interpretare una realtà sempre cangiante e mai immobile.

Per comprendere al meglio questa raccolta di articoli, si legga quanto scrive Marcella Solinas nella sua prefazione al volume a proposito del rapporto fra la lingua e l’identità collettiva:

L’espressione dell’identità collettiva è un tema fondamentale per Carpentier e si riverbera in tutta la produzione giornalistica. In questo senso, le sue cronache, attraverso una lettura spregiudicata dei temi di attualità e degli eventi culturali contemporanei, non solo offrono una testimonianza dell’epoca, ma aiutano il lettore coevo a comprendere alcune dinamiche linguistiche che, a tutt’oggi, continuano a interessare gli studiosi della natura e dell’evoluzione del linguaggio.

Solinas continua dicendo che, nel stimolare queste riflessioni sul linguaggio, Carpentier si serve di una parola che «evoca e suggerisce» e scatena nel lettore «meccanismi imprevisti di associazioni». Se da un lato fondere cultura alta e bassa sembra un’eresia per una tematica simile, dall’altro per Carpentier è funzionale a far sì che i suoi lettori capiscano il tipo di lingua con cui loro hanno a che fare. Nel fare ciò, inoltre, Carpentier si focalizza su due aspetti della lingua: il rapporto fra lingua parlata e lingua scritta e l’introduzione di termini stranieri all’interno di una particolare lingua, figli quest’ultimi di una società che deve confrontarsi con il nuovo che avanza.

Dopo un breve excursus sulla riproduzione grafica della pronuncia delle parole straniere in spagnolo come “Chopén” invece di “Chopin”, ad esempio, Carpentier ci illustra una panoramica interessante sugli aggettivi. Ogni era letteraria, infatti, dal Romanticismo fino all’Esistenzialismo, ha usato aggettivi per definire concetti sempre più astratti, ma l’uso di questi aggettivi secondo l’autore cubano è presto diventato un abuso accademizzato, ovvero un’esagerazione che è stata successivamente messa in norma, ma che ha poi svuotato gli aggettivi usati del loro significato originario. Secondo Carpentier, lo stile migliore è quello di coloro che usano aggettivi «più concreti, semplici e diretti, capaci di descrivere qualità, consistenza, stato, materia e spirito», ovvero di coloro che usano il giusto numero di aggettivi che, nella loro semplicità e concretezza, riescono a descrivere la complessità del mondo.

Tuttavia, l’autore osserva che anche per gli scrittori del suo tempo si creerebbe una sorta di dislivello fra lingua accademica e lingua parlata, in quanto, una volta che certe parole –in questo caso certi aggettivi – diventano regole accademiche, si dimostrano presto incapaci di esprimere una realtà sempre mutevole. Fra le parole dell’autore sudamericano riscontriamo quanto aveva teorizzato anni prima Hofmannstahl non solo nella Ballata della vita esteriore, ma anche nella Lettera di Lord Chandos, dove lo scrittore elisabettiano Philp Chandos scrive al suo mentore, il filosofo Francis Bacon, in merito alla crisi del suo linguaggio e al fatto che abbia bisogno di una nuova lingua per riuscire a esprimere con armonia concetti astratti che fa fatica a raccontare e che gli impedirebbero di proseguire la sua attività letteraria:

Infatti la lingua in cui forse mi potrebbe essere concesso non solo di scrivere, ma anche di pensare, mi sembra essere non la latina, non l’inglese, non l’italiana e neppure la spagnola, quanto piuttosto una lingua delle cui parole neanche una mi è ancora nota, una lingua in cui le cose mi si manifestano, e nella quale forse un giorno mi troverò a rispondere nella tomba dinanzi ad un giudice sconosciuto.

Le riflessioni di Lord Chandos riecheggiano in quelle di Carpentier, che allora si chiede se sia necessario comunque mantenersi rigidi sulla purezza della lingua oppure se occorra piuttosto farla esplodere contaminandola il più possibile con termini dialettali. Se da un lato la purezza della lingua rischia di rendere quest’ultima incapace di esprimere concetti a loro volta inesprimibili diversamente come best-seller, covergirl o pin-up, l’esplosione della lingua, invece, rischierebbe di creare una lingua «barbarica, un argot, un papiamento, senza tono né armonia». Per Carpentier, però, la lingua va protetta «cercando, in compenso, di rimediare alla sua relativa povertà di vocaboli tecnici». Questo perché, giocando con il titolo di questa raccolta di articoli, la parola è la sua ombra: essa è figlia di ciò che sottende la sua origine, del sostrato culturale, storico e sociale che le ha dato significato, e per esprimerla è necessario non soltanto proteggere la tradizione in cui è stata forgiata, ma anche contaminarla tramite l’influsso di lingue straniere le cui culture di appartenenza per ragioni sociali, storiche, politiche e culturali hanno influenzato quella spagnola che deve trovare un modo per esprimere idee mai raffigurate prima:

Una lingua è, al di là della fonetica, al di là dell’ortografia, il mezzo di espressione che è stato perfezionato, rifinito, nel corso dei secoli, dall’anima di un popolo. Ne traduce il carattere, le aspirazioni nascoste, le idiosincrasie. È radicato nella storia, nella letteratura, nel patrimonio spirituale di una razza o di un gruppo umano.

In questo senso va interpretata l’idea di Carpentier non di una lingua universale come l’esperanto, il volapuk o l’ido, che considera fredda e «con quell’aspetto nuovo di zecca tipico delle creazioni recenti, prive della patina del tempo» e dunque senza una forte tradizione alle spalle, ma di una società poliglotta, che conosca più lingue che dialogano tra loro in un processo di confronto e scambio atto a far sì che ogni lingua sia in grado di esprimere l’inesprimibile e sia in grado di dare senso a ciò che non conosce e che non sa esprimere. Questo è necessario in quanto attraverso le altre lingue hanno espressioni e parole capaci di completare una determinata lingua che grazie al cosmopolitismo riesce pertanto a essere universale e a parlare a chiunque.

A distanza di anni, dunque, gli articoli di Alejo Carpentier raccolti in La parola e la sua ombra sono in grado di dare risposte e soluzioni a chi vuole una lingua rigidamente chiusa nelle sue regole, che non tollera intromissioni del parlato e dei forestierismi, ma che allo stesso tempo non è capace di esprimere l’evoluzione della società e ad accogliere il nuovo che avanza. Carpentier ci illustra come sia possibile e al contempo necessario equilibrare l’accademismo, il cosmopolitismo e l’influsso della lingua parlata per essere in grado di parlare a più generazioni e illustrare loro la direzione in cui noi e il mondo stiamo andando.

Articolo di Alberto Paolo Palumbo

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