Ne Il virtuale (Meltemi 2023, a cura di A. Colombo, D. Cantone), Pierre Lévy analizza concettualmente la virtualizzazione. Ma come ripensare il Virtuale oggi rispetto all’AI e all’eterogenesi dell’umano in corso?
Un’introduzione al testo: la cartografia del virtuale
Quando si attraversa un pensiero per comprenderne le linee essenziali è buona prassi sostare su prologo ed epilogo. Aprendo e chiudendo rispettivamente la conversazione con il lettore, questi due luoghi tengono traccia delle tesi principali dell’autore, e consentono di toccarne con mano il temperamento. L’ethos del pensatore ci convoca, attende una riattualizzazione.
Ne Il virtuale (pubblicato in francese nel 1995), già dall’introduzione, Lévy tesse una cartografia del virtuale chiedendo al suo lettore di sviscerare, pensare e capire la virtualizzazione in corso senza cedere alla facile opposizione reale-virtuale. Stoccata a Jean-Baudrillard, ed al suo iper-reale come frontiera de-realizzante.
Da dove si parte? Da Gilles Deleuze, Differenza e Ripetizione:
Il virtuale possiede piena realtà in quanto virtuale.
Dove si arriva? All’epilogo, dal titolo icastico: Benvenuti sulle strade del virtuale:
L’arte, e dunque, la filosofia, la politica e la tecnologia che essa ispira deve opporre una virtualizzazione riqualificante, inclusiva ed ospitale.
Qual è la traiettoria?
In Il virtuale, Lévy sviluppa un itinerario filosofico, socio-politico e antropologico in nove stazioni articolando un’analisi concettuale della virtualizzazione mediante il quadrivio attuale-virtuale, reale-possibile, per poi procedere con una serie di esemplificazioni applicative. Prima corpo, testo ed economia. Poi linguaggio, tecnica e contratto. Il percorso si chiude con l’introduzione e lo sviluppo del concetto di intelligenza collettiva ora dal punto di vista dell’oggettivazione ora da quello della soggettivazione. Ecce Il Virtuale. Dal prologo all’epilogo, transitando per tappe.
Ripensare il virtuale: la nuova prefazione curata da Lévy (2023)
Come suggerisce la recente ripubblicazione del volume, il Virtuale resta attuale per temi ed afflato secondo il giudizio del suo autore, che nella prefazione curata per la riedizione dichiara di non trovare nulla da togliere alle sue pagine, pubblicate per la prima volta in un lontano 1995 quando:
Meno dell’uno per cento della popolazione mondiale era connesso a Internet. Le digital humanities, i social media, wikipedia, github, google, e chatgpt non esistevano.
Ritornando riflessivamente sulle sue torsioni concettuali, Lévy traccia linee di continuità tra passato e presente rinvigorendo la sua tesi fondamentale. Il virtuale va pensato come modo di essere diffuso, fisico, biologico, antropologico e tecnologico, non confinabile nel dominio dell’irreale nè dissociabile della storia evolutiva dell’ominazione. Nel suo tratto caratterizzante, la deterritorializzazione o uscita dal -ci, nel senso dell’assenza di un indirizzo spazio-temporale tracciabile, la virtualizzazione non ha mutato i suoi effetti. Effetti che Lévy, muovendo da una prospettiva d’analisi tecno-naturalista alternativa al post-umanesimo, ricalibra riferendoli ora al cervello animale – virtualizzazione come concetto pratico ed esperienza fenomenica -, ora al cervello umano – virtualizzazione come significazione -, ora al cervello elettronico – virtualizzazione come produzione di codici ed intelligenza generativa.
Il “nostro” Lévy: ripensare il virtuale guardando all’AI
Ma allora si tratta di chiedersi cosa ci resta delle tesi di Lévy per trovare il “nostro Levy”. Dal Virtuale all’AI è Lévy a tracciare il percorso, muovendo da una preoccupazione etica:
La paura del virtuale che agitava le persone all’epoca della prima edizione de “Il virtuale” si è trasformata oggi in una grande paura nei confronti dell’Intelligenza artificiale.
La stessa preoccupazione che chiudeva il prologo Benvenuti sulle strade del virtuale, già nel 1995.
[…]Credo che la sofferenza del subire la virtualizzazione senza comprenderla sia una delle cause principali della follia o della violenza della nostra epoca.[…] Fare resistenza è un errore fatale assolutamente da evitare. Noi invece dobbiamo sforzarci di restare al passo e dare senso alla virtualizzazione inventando una nuova arte dell’ospitalità.
Si tratta di dare il benvenuto all’AI che è già realtà per noi, ma sempre dentro un’interpretazione-comprendente, come suggerisce l’autore. Il tentativo è quello di dar voce a Lévy nel presente, interrogandolo secondo le nostre urgenze e mettendolo così alla prova. Reduplichiamo dunque il suo pensiero per trovare il “nostro Lévy”, con tutti i suoi limiti e i suoi campi di miglioramento.
Il virtuale come reale: i rischi etici di una de-realizzazione
Incorporando nel tessuto dell’argomentazione il vocabolario deleuziano di Differenza e Ripetizione, Lévy dissocia contro Baudrillard il concetto del virtuale dal concetto di irrealtà. Virtuale non si oppone a reale, ma ad attuale. Se l’attuale è il virtuale in atto, risolto e compiuto, il virtuale è campo problematico, sempre diveniente, non circoscrivibile al dominio tecnico dell‘ICT. Il virtuale non va pensato come falso, illusorio o immaginario. Si pone e va posto come una modalità d’essere feconda, possente e generatrice di senso.
Un benvenuto sulle strade dell’AI
I portati etici della tesi di Levy non sono smarginature accessorie. Tutt’al contrario, sono forse quanto di più conta per una filosofia che intenda farsi critica trasformativa, e per ciò stesso eto-poietica, del presente.
Si tratta di chiedersi: che cosa accade se pensiamo il virtuale come non reale (irreale)? Quali sono gli effetti pratici di una simile credenza assunta come verità?
La de-realizzazione del virtuale produce un preciso abito etico di risposta: la deresponsabilizzazione del soggetto, ovvero dell’utente, follower o avatar del web 4.0. E dalla deresponsabilizzazione seguono i corollari della disattenzione, della superficialità, finanche della violenza, l’ospite inquietante convocato da Levy in chiusa d’epilogo.
Perché mai dovremmo prestare attenzione a ciò che facciamo nel mondo virtuale – qui inteso come digitale – con il nostro smartphone? Dobbiamo seguire un codice etico quando esploriamo una spazio virtuale con i sensori VR e AR? Perchè non dovremmo dare libero sfogo alle nostre idiosincrasie infondate e violente camuffandoci dietro account fake o troll sui social media?
Limiti e campi di miglioramento: per una critica del Virtuale
Ci sono certamente in Lévy delle tracce antropocentriche, nella misura in cui un certo primato viene e resta di fatto assegnato all’uomo e alla sua storia, in cui vengono iscritte le tappe della virtualizzazione: corpo, testo ed economia. C’è quindi una distanza che viene a tracciarsi tra il piano di immanenza di Lévy e quello del suo maestro Deleuze, in cui spinozianamente, non c’è gerarchia tra umano e non umano nel dominio correlazionale della sostanza. Lo sottolineano accuratamente Damiano Cantone ed Andrea Colombo nell’introduzione curata per la nuova edizione. Ma la figura d’uomo che emerge carsicamente nelle pagine del Virtuale ha un profilo rinnovato, in senso collettivo, perchè virtualizzato. La nozione di intelligenza collettiva, proposta da Lévy, è concetto d’uso comune nel web 2.0, che chiama a sé una vocazione collaborativa.
C’è d’altra parte nel percorso tracciato nel Virtuale una decisa caratterizzazione filosofica, che a tratti sembra perdere aderenza rispetto agli ambiti disciplinari che Lévy si propone di attraversare. Corporeità, economia, linguistica, tecnica, politica. Alcuni dei concetti euristici proposti nel volume, tra cui iper-corpo, corpo fiammeggiante, trivio antropologico, macropsichismo, intelligenza collettiva, escono con difficoltà dal terreno di coltura della filosofia. Nel tracciare una panoramica di ampio respiro sulla virtualizzazione, Lévy non ci offre delle indicazioni precise per decostruire e ricostruire il virtuale inteso nell’uso comune come digitale. E neppure nel ragionare di virtualizzazione sembra sviluppare un’autentica conversazione inter-disciplinare. Economia, politica, e scienze dell’ICT vengono sì menzionate, ma sempre e soltanto attraverso il filtro linguistico ed epistemico della filosofia, senza che Levy attinga al serbatoio dei loro concetti caratterizzanti.
Ma come ripensare il virtuale oggi?
Per generare abiti di trasformazione nel presente la filosofia non può sottrarsi al confronto agonale con l’AI. Riscrivere il virtuale nel presente significa assumersi il compito etico di esplorare il campo problematico del virtuale nel sue declinazioni contemporanee: AI, metaverso, sensori AI e VR.
Benvenuti – dunque – sulle strade dell’AI. Ecce il nostro Lévy.