L’ascesa della casalinga
A partire dagli anni ‘50, la costruzione sociale della femminilità si associa indissolubilmente allo status di donna sposata, esclusivamente dedita alla cura dell’ambiente domestico e familiare, e al contempo attenta e ben inserita nel sostrato sociale di riferimento. L’essere una donna rispettabile diviene possibile esclusivamente attenendosi a un cursus honorum altamente disciplinato (anche attraverso le modalità della sorveglianza orizzontale teorizzate più tardi da Foucault), culminante con il matrimonio, a cui ragazze sempre più giovani vengono instradate da generazioni precedenti di casalinghe. Ma soprattutto, attraverso una massiva opera di inculturazione su più fronti che si preoccupa di delegittimare qualunque altro eventuale modello di femminilità esistente (dalla donna lavoratrice alla madre single, entrambi fortemente connotati per classe ed etnia), essere una casalinga diviene di fatto l’unico modo di essere donna e, di conseguenza, l’unica possibile prospettiva cui le ragazze possono rivolgersi, nella costruzione del sé all’interno di un contesto sociale ordinato.
Per le giovani donne americane (bianche e middle class), essere una casalinga diventa per la prima volta quindi un destino necessitato ed esplicito, oggetto di una pervasiva campagna mediatica cui vengono esposte dalla prima infanzia. L’emersione e l’attiva promozione della figura della casalinga non solo come trope esplicito e riconoscibile, che diventa marker identitario di un’epoca, di un genere, di una specifica appartenenza di classe, ma anche come vera e propria aspirazione sociale codificata, rappresenta quindi, al contrario di quanto solitamente si pensi, un elemento forte di novità.
Un problema senza nome
La casalinga come modello codificato fa la sua comparsa sulle scene contemporaneamente alla teorizzazione della divisione post-bellica del mondo in blocchi (sovietico e filoamericano) e agli esordi di quello che sarebbe divenuto lo scenario economico tardocapitalista contemporaneo. Non si tratta di una coincidenza. La figura della casalinga insiste su specifiche geografie domestiche di genere e traiettorie storiche determinate, congiuntamente attive in un processo antropopoietico di costruzione di un modello funzionale all’edificazione di un sistema che necessitava di nuove e più solide fondamenta. La casalinga è dunque un’invenzione necessaria al sorgere di un mondo nuovo, che proprio negli anni ‘50 sta vedendo la luce.
A disvelare per la prima volta il carattere storicamente collocato e culturalmente determinato di tale processo è La Mistica della Femminilità (1963), scritto dalla teorica femminista Betty Friedan. L’opera, considerata pionieristica nell’analisi della costruzione sociale del genere, è il risultato dell’indagine sul campo che la stessa Friedan ha condotto tra la metà degli anni ‘50 e l’inizio degli anni ‘60, attraverso una serie di interviste a un campione omogeneo di casalinghe americane.
Obiettivo primario di Friedan è l’inquadramento e la teorizzazione di quello che poi sarà definito the problem that has no name (Friedan, 1963). Attraverso tale definizione, dichiaratamente polemica, Friedan intende portare all’attenzione di un dibattito pubblico, connivente sino alla cecità, la dilagante epidemia che stava contagiando sempre più donne americane, tutte accomunate dall’essere giovani casalinghe, mogli di uomini rispettabili, madri di figli sani e residenti in tranquilli sobborghi. In altre parole: le perfette donne di casa, quantomeno in apparenza graziate dall’espressione più compiuta del sogno americano, si ammalano, soffrono e languiscono in un dolore inesplicabile.
Tra la sintomatologia più frequente figurava un senso di malessere generalizzato che risultava spesso nell’abuso di alcol e antidepressivi (prescritti con estrema facilità), nell’attaccamento ossessivo ai figli, nella ricerca di relazioni extraconiugali. A caratterizzare tale annichilente senso di disagio e irrequietezza è soprattutto un’incomunicabilità trasversale, tautologica: le donne si dimostrano incapaci di verbalizzare compiutamente il proprio sentire, nello spazio della terapia psichiatrica (cui sistematicamente si rivolgono) non ricevono un supporto adeguato per via della mancanza sistematica di corretti strumenti di indagine, nella narrazione generale il fenomeno non è debitamente riconosciuto e affrontato.
La Mistica della Femminilità
La puntuale analisi di Friedan si conclude infine con una diagnosi che ha carattere quasi epistemico: con la definizione di “mistica della femminilità” l’autrice intende l’articolato e dichiarato progetto di costruzione di un modello familiare nucleare caratterizzato da un ripiegamento intimo, privato, rassicurante, al riparo dagli orrori ancora vividi del secondo conflitto mondiale e orientato ora verso il consumo e la produzione di capitale come elementi di pacificazione e progresso sostanzialmente ottimista. La casalinga, in tal senso, in quanto depositaria del lavoro riproduttivo e di cura all’interno del nucleo familiare, ne diviene la premessa fondamentale. Si dimostra così necessario ri-programmare le donne per farne le perfette casalinghe: riorientare i loro desideri e aspirazioni, limitare i loro orizzonti d’attesa e la loro capacità immaginativa identitaria, al fine di trasformare il sobborgo, la casa, la cucina, nell’unico contesto di destinazione possibile.
Con il ritorno degli uomini dal fronte, pronti a essere nuovamente immessi nei circuiti della produttività, le donne sono forzatamente ricondotte all’interno dello spazio domestico, dopo aver trascorso il ventennio precedente ad affiancare prima e sostituire poi gli uomini nei posti di lavoro. L’età media del matrimonio torna ad abbassarsi drasticamente, affiancata da un significativo shift nei modelli educativi, ora fortemente connotati per genere; sia negli spazi scolastici e accademici che attraverso i media, alle ragazze è ribadita con regolarità l’importanza del matrimonio e della famiglia come obiettivo ultimo. A subire una vera e propria demonizzazione è soprattutto l’aspirazione a una carriera lavorativa e al raggiungimento di livelli di istruzione superiori: tali ambizioni devono ora essere pensate come non necessarie, eventualmente solo accessorie e sicuramente non paragonabili per importanza alla trasformazione compiuta in casalinga perfetta, unico orizzonte ontologico possibile per le donne bianche di classe media.
Annientate così da un senso avvilente di noia che non trova rimedio, impossibilitate a cercare espressioni e costruzioni identitarie all’esterno, attraverso la realizzazione lavorativa, le casalinghe infelici, conclude Friedan, impattano sul lungo termine sull’intera società americana. Se lo spazio domestico rappresenta la riproduzione in scala di una sovrastruttura macroscopica che interessa la società nella sua interezza, la sofferenza delle donne americane innesca un effetto domino che produce figli perennemente infantilizzati e, soprattutto, mariti frustrati, che diventano a loro volta produttori e consumatori in cerca di strategie di escapismo dall’oppressione della domesticità.
Di ritorno dal fronte
Ancora una volta è l’industria del leisure e dei nuovi media a insinuarsi all’interno di tale neonata nicchia di mercato, popolata da giovani uomini improvvisamente privati delle consuete categorie attraverso cui affermare la propria virilità e costantemente in fuga da un ambiente domestico che risulta asfissiante. Come rileva il filosofo spagnolo Paul B. Preciado, il secondo dopoguerra si caratterizza per un doppio movimento nella costruzione di modelli di genere codificati, funzionali all’edificazione di strumenti biopolitici di controllo sempre più sofisticati, utili all’avanzamento del tardo capitalismo tecnocratico.
Accanto alla casalinga descritta da Friedan, a cui è proposto un ideale di femminilità caratterizzato da devozione assoluta e dal mantenimento di uno standard ineccepibile di gradevolezza estetica e rispettabilità sociale, anche per gli uomini emergono categorie nuove. L’uomo degli anni ‘50, destinatario di un mondo in ricostruzione che tenta di disfarsi degli strascichi traumatici della guerra e dei totalitarismi, non può più essere l’eroe patriottico e testosteronico che invoca la lotta armata come affermazione di virilità, pronto ad affrontare gli orrori del mondo imbracciando il proprio fucile. Si tratta, sostiene invece Preciado, di un cauto e abitudinario impiegato d’ufficio, che rifugge le incertezze del mondo esterno perché annientato dalla paura dell’atomica.
Allo stesso tempo, quest’uomo soffre anche gli spazi della domesticità (qui intesa in senso estensivo come insieme delle pratiche normate di sessualità e relazionalità proposte dal sistema egemone), dove lo attende una moglie clinicamente depressa e dei figli verso cui non è in grado di sviluppare un adeguato legame emotivo. Il giovane uomo degli anni ‘50, de-mascolinizzato da una struttura familiare che gli appare frangibile e privato dello spazio bellico come luogo di affermazione identitaria, non può far altro che rivolgersi alla downtown e ai suoi colossi di vetro e acciaio. Apparentemente al sicuro da un potenziale attacco nucleare e lontano dal senso di soffocamento della famiglia nucleare.
Il fenomeno Playboy
La svolta giunge nel 1953, nella forma di rivista periodica destinata a incidere per sempre sui paradigmi di costume della società occidentale: Playboy. Che Playboy faccia la sua comparsa sulle scene pressoché congiuntamente all’invenzione della casalinga, come sostiene Preciado nel testo Pornotopia. Playboy: architettura e sessualità, non è un caso.
Il lavoro di Preciado, infatti, dimostra che prima ancora che una modificazione nel modo di percepire, costruire e mercificare il sesso e i corpi femminili, l’ascesa di Playboy e del suo celeberrimo creatore Hugh Hefner hanno avuto come conseguenza la produzione di un modello spaziale contrapposto a quello assegnato alla casalinga, ma rivolto ai giovani uomini. A partire dal senso generalizzato di terrore proprio della prima guerra fredda, e dunque dalla necessità di rintracciare un locus amoenus, chiuso, che avesse la funzione di rifugio antiatomico ma anche di svago e di fuga da una quotidianità castrante, Playboy inventa il topos dell’appartamento dello scapolo.
Design e identità
Attraverso una linea editoriale che accosta articoli di architettura e design a servizi fotografici softcore, la rivista riesce a costruire uno spazio di significato, un’aspirazione identitaria prima ancora che un luogo fisico, di fatto speculare e antitetico alla casa di periferia in cui è rinchiusa la casalinga. Mentre quest’ultima ha carattere fortemente rappresentativo, inequivocabile, pubblico, in quanto demarca uno status di rispettabilità che assicura stabilità sociale, lo spazio dello scapolo si caratterizza invece per la sua segretezza. In questo luogo, narrato con un’aura attraente di ambiguità, Playboy lascia intendere che si consumi ogni genere di trasgressione, altamente sanzionata dalla morale dell’epoca direttamente incarnata dal modello familiare (e spaziale) nucleare.
Ed è proprio attraverso un costante giocare con l’indeterminatezza che Playboy ri-produce un modello di genere pornografico e contemporaneamente architettonico innovativo. In contrapposizione alla prevedibilità dell’insieme delle pratiche e dell’abitare gli spazi che si consumano nella casa di periferia, nell’appartamento non è mai del tutto chiaro cosa possa accadere. Fotografie e descrizioni volutamente allusive (mai troppo esplicite, al contrario della rivista rivale Penthouse) e dal tono voyeuristico inducono il lettore a pensarsi insignito di una posizione privilegiata, quasi panottica, dalla quale guardare senza essere guardato, ed esercitare così lo stesso tipo di potere pervasivo e lesivo della privacy che lo Stato, attraverso nuovi dispositivi di controllo, esercita sui cittadini.
Due diverse geografie di genere
L’appartamento dello scapolo, inoltre, è altrettanto ipertecnologico e proposto come utopia tecnocratica, ma non ha nulla del carattere accogliente e a tratti lezioso della villetta dei suburbs. Al contrario, negli spazi modernisti, dal carattere essenziale e altamente funzionale, dell’appartamento di città, l’uomo può ricostruire una sua identità virile libera dai vincoli del matrimonio. O quantomeno questa è l’aspirazione, intendendo tale spazio più come una promessa escapista utopica, incarnata dalle pagine patinate di Playboy, prima ancora che come luogo reale da abitare. Si tratta, tuttavia, di una maschilità egemone posticcia, reinserita artificialmente nei circuiti della caccia e della conquista, ma sapientemente ricostruiti ed epurati per funzionare per un modello d’uomo che del risoluto guerriero e conquistatore ora ha poco e nulla. Un uomo imborghesito, prudente, attento alla percezione sociale di sé, un businessman che tiene al suo aspetto (anch’esso canonizzato da Playboy attraverso codici riconoscibili, come la vestaglia e il papillon), quello che poi sarebbe stato definito metrosexual.
Sia Friedan che Preciado ricostruiscono dunque geografie di genere che ancora oggi sono leggibili nelle modalità in cui il genere è socializzato, esperito e performato. Per quanto ci piaccia dircene esenti, il mondo antropico che abitiamo e significhiamo si muove lungo traiettorie che ancora non si sono disfatte della doppia costruzione dei modelli di scapolo e casalinga, di vizioso appartamento della downtown e rassicurante villetta dei suburbs. L’uno e l’altra, del resto, rappresentano due prototipi solo in apparenza mutuamente escludenti: al contrario, solo co-esistendo possono tenersi reciprocamente in vita e prosperare, in forme debitamente ricostruite, sino al 2024 e oltre.