/

Non è un’ontologia per donne

15 minuti

Questa non è un’ontologia per donne. Costitutivamente, l’edificio ontologico attorno a cui è stata imperniata la società occidentale finora non prevede l’esistenza del femminile. La stessa invenzione delle nozioni di sesso e genere ha funzione di specificazione di un elemento che, in quanto altro, necessita di essere evidenziato. 

Generi invisibili

Maschio (bianco, cisgender, eterosessuale, abile) è l’umano prototipico, il rappresentante più  paradigmatico della specie homo; è contemporaneamente l’artefice e il destinatario di ogni riflessione a carattere ontologico ed epistemologico, è il soggetto pensato come neutro in quanto dominante nella produzione discorsiva e delle pratiche. Permeando tacitamente ogni espressione del vivere sociale, la vera potenza del maschile sta quindi nel farsi invisibile; se tutto è pensato per l’essere umano maschio, tale specificazione risulta da ultimo superflua, in quanto essenzialmente coestensiva di tutte le forme, i simboli e i rituali. Il maschile è il non-genere, la non-specificità, una neutralità sovraestesa che coincide con l’interezza dello spazio pubblico. Uno spazio pubblico solo apparentemente neutro, nella misura in cui tale neutralità coincide sostanzialmente con la sovrastruttura di potere egemone, così capillarmente distribuita ed efficacemente interiorizzata e riprodotta da riuscire a fingersi a-storica, naturale, esistente da sempre e per sempre.

Generi visibili

Femmina, al contrario, invisibile non può esserlo mai. Esistere sul palco della produzione di significato in quanto essere umano femmina corrisponde già di per sé a un posizionamento preciso, significa occupare uno spazio (che è spazio d’altri, mai proprio) in qualità di forma impropria, spuria, e per questo immediatamente distinguibile.

Femmina è l’Altro, la variante recessiva del gene, una devianza dalla norma. Come già teorizzato da Simone De Beauvoir nell’opera che ancora oggi è considerata imprescindibile per la teoria femminista, Il Secondo Sesso (1949), il genere femminile non esiste come per sé. In primis, come detto, la stessa nozione di genere nasce in relazione alla necessità di precisare una variazione inconsulta di una neutralità altrimenti sostanzialmente a-genere. In secondo luogo, il femminile non rappresenta una categoria in senso assoluto, nella misura in cui risulta sprovvisto di una sua pienezza di significato che sia effettivamente suo, autosufficiente. In altre parole, femminile è “il secondo sesso” (De Beauvoir, 1949), in quanto non può che esistere come Altro dal maschile; ogni elemento che ha concorso, nella storia, a edificare una sua sua tassonomia non può assumere altra forma che quella di una formulazione prescrittiva di qualità diametralmente opposte a quelle del maschile. Attraverso un doppio movimento, costruendo in positivo e all’attivo il maschile, si costruisce parallelamente il femminile nella forma di scarti in apparenza residuali, ma di fatto collaterali.

L’eredità aristotelica

L’identità, individuale e collettiva, è sempre costruita a partire da un moto oppositivo: inventiamo noi stessi a partire da un corollario di qualità positive che ci attribuiamo e di cui l’Altro (o gli Altri) sono invece necessariamente sprovvisti. Aristotele, nella Politica, assegna all’uomo libero greco “un naturale principio del comando”, coincidente con la ragione, il λόγος, che lo distinguerebbe contemporaneamente da barbari, donne e schiavi; appare dunque legittimo e incontestabile che l’uomo libero greco, in quanto naturalmente dotato di qualità razionali e, di conseguenza, superiorità morale, venga inserito al vertice di un’altrettanto naturale e incontestabile gerarchia di soggetti collettivi. A caratterizzare donne, barbari e schiavi, al contrario, è essenzialmente una vuotezza ontologica: non sono nulla, di per sé. Privi di raziocinio e appropriate competenze linguistiche (fondamentali per una corretta costruzione sociale), il loro ruolo all’interno dell’orizzonte teleologico necessitato in cui sono inscritti è l’attesa della dominazione. 

L’eredità aristotelica, dura a morire e particolarmente abile nel reinventarsi attraverso millenni di produzione ontologica ed epistemologica occidentale, ci consegna dunque una nozione di femminilità che contribuisce a costruire la mascolinità per negazione di elementi di disvalore, proiettati sul soggetto collettivo altro da sé. Femmina è tutto quello che non è maschio. Di conseguenza, la nozione di femminilità è intrinsecamente negativa ed ha acquisito nel tempo significato attraverso l’accumulazione progressiva di un intero campionario di difformità e anomalie elaborato trasversalmente in senso mitopoietico, con il fine ultimo, come scrive Jude Doyle, di mostrificare la donna. Incostante, irrazionale, contingente ed erratica per natura, in perfetta continuità con la gerarchizzazione antropocentrica e specista che legittima le pratiche di appropriazione violenta di territori e risorse oltre l’umano, la donna si fa bestia. E, in quanto bestia, il ruolo dell’uomo cacciatore, forza trascendente della tecnica e della ragione, è quello di domarla.

Un eroe maschio

Potentissima proprio perché sempre versatile, sempre adattabile alle contingenze storiche, l’immagine mitica della donna mostruosa valica i secoli e le tradizioni e ne riemerge sempre viva. Inscalfita soprattutto nella sua capacità di suscitare un terrore atavico eppure sempre nuovo, che richiede per questo sempre nuovi strumenti tecnici per essere sconfitto.

Come illustra Jude Ellison Sady Doyle ne Il Mostruoso Femminile (un’illuminante vivisezione della produzione mitopoietica della donna mostruosa in senso cross-mediale), all’interno della narrazione egemone, naturalizzata e de-storicizzata, è sempre possibile rintracciare un topos fondativo, versatile e mutevole ma sempre riconoscibile nel suo nucleo dicotomico fondamentale. A partire da Adamo ed Eva, passando per Perseo che sparge il sangue di Medusa uccisa, il maschile è sempre univocamente protagonista, equipaggiato di un preciso campionario aggettivale, con una chiara connotazione morale. È sano, intelligente, positivo, eroico, salvifico, razionale, trascendente, pulito (spesso vicino all’accezione proposta dall’antropologa britannica Mary Douglas di asettico, sterile, sottratto ai circuiti della vita contingente). Il maschile esercita controllo pratico e tecnocratico su un mondo rigorosamente pensato come altro da sé, ascritto a quella logica estrattivista per la quale è sempre legittimo disporne liberamente e utilitaristicamente. È ragione trascendente, attiva, il cui destino, avvolto da un’aura sacrale, è irrorare e fecondare la altrimenti materia inerte, passiva, apatica che non attende altro che essere portata alla vita e instradata verso il sapere.

Un mostro femmina

Accanto a tale fulgido splendore, che irradia l’intero cosmo in un atto conoscitivo di dominio, il femminile invece abita gli anfratti bui, misteriosi (di cui la vulva è metafora). Sin dall’immagine biblica del serpente dell’Eden, alla donna è associato l’ambiguo, l’anomalo. Se il maschile è il rigorosamente umano, cioè separato antropocentricamente dalla natura su cui può esercitare controllo, i corpi femminili, in quanto soggetti alla contingenza delle mestruazioni e del parto, sono invece pensati, come suggerisce De Beauvoir, come più legati alla natura. In quanto natura, sono dunque legittimamente pensabili come terreno di conquista, di scoperta, caos e mistero da ricondurre all’ordine e alla conoscenza. Si tratta, sostanzialmente, di entità ibride, non del tutto umane nel senso proprio del termine, umane al negativo, umane impure. In questo senso, sono ascrivibili alla nozione di Mary Douglas di impurità come fonte di timore ancestrale, in quanto non perfettamente categorizzabile. Si tratta di quella nozione di sporco come anomalia straripante di potere in quanto situata negli spazi liminali. Un potere intrinsecamente generativo, ma altrettanto mortifero e capace di condurre al disfacimento del tessuto sociale e che, per questo, necessita di essere controllato attraverso una varietà di riti e divieti che proteggano dalla contaminazione.

La femminilità come disvalore

La donna mostrificata, dunque, funziona anche in senso prescrittivo: non solo contribuisce alla costruzione dell’immagine del maschile egemone, ma si premura di preservarlo. Attraverso la narrazione di un femminile pensato come ontologicamente deviante, indesiderabile, sostanzialmente negativo, è possibile al contempo produrre e rendere auspicabili modelli sani di femminilità, sostanzialmente artificiali, industriali, di genesi capitalistica e per questo sempre ridefinibili in funzione delle ultime tendenze. Dalle pratiche medicalizzate di controllo biopolitico che patologizzano la naturalità del corpo femminile (come l’ipermedicalizzazione del parto), alla demonizzazione della femminilità stereotipica come modello necessariamente negativo (si pensi alle ormai canoniche mean girls delle commedie romantiche targate early ‘00s), tutto concorre a rimarcare come il femminile di per sé, nella sua datità, sia un disvalore: deve per questo essere controllato, ricostruito, aggiustato

Lavare via i peccati

L’esperienza della socializzazione femminile è dunque caratterizzata da questo streben, da questo sforzo insoluto e contraddittorio di costruzione del sé che parte da una cancellazione del proprio elemento primario di definizione. L’essere nata donna è intrinsecamente un errore da sistemare, si deve tendere quindi sempre a un costante miglioramento, intercettando e introiettando messaggi spesso paradossali tra loro, sempre nel tentativo ultimo di lavarsi dal peccato originario di essere nate donne, (come racconta in chiave pop ma efficacissima il monologo del personaggio di America Ferrera nel film Barbie di Greta Gerwig). Ma una tale colpa è di fatto incancellabile, perché la sovrastruttura di potere in cui viviamo ha bisogno di odiare le donne, per poter sopravvivere e riprodursi efficacemente. E reitera quest’odio, lo  perpetua nei secoli, con una grande capacità di trasformismo nel reinventarlo per renderlo sempre e comunque inseribile nell’habitus di tutte e tutti, in quanto naturale. 

Multiversi epistemici

In questo senso, la causa femminista deve prima di tutto configurarsi come ripensamento ontologico ed epistemologico della donna come soggetto politico, culturale e storico. Creare un’ontologia per donne e di donne significa smettere di esistere nello sguardo maschile (Bourdieu, 1998), che informa e significa tutte le nostre pratiche, in quanto appreso dalla nascita e riprodotto in ogni espressione mediatica, letteraria, sociale. Occorre pensare le donne come soggetto collettivo, comprensivo di una pluralità di esistenze diverse, partendo dall’esperienza incorporata dell’esserci-nel-mondo in quanto abitante di un corpo socializzato come femminile. Corrispondere con il mondo (Ingold, 2013) a partire da un punto di vista che è sì esplicitamente parziale, ma intendendolo per la prima volta non come una variante corrotta o altra di una normalità maschile, ma come una vera e propria realtà parallela a cui l’essere donna permette di accedere, in quanto ogni prospettiva sul mondo, come teorizzato da Viveiros De Castro consente l’accesso a quelli che sono sostanzialmente mondi altri. Non di cancellare la prospettiva maschile, bensì di storicizzarla, riconoscerla nella sua storicità e infine per allargare la nostra comprensione epistemologica del reale. 


Osiamo chiederci: qual è l’umwelt delle donne, che tipo di affordance, apprese culturalmente e storicamente, esperiscono? Sono diverse da quelle degli uomini? In ultimo, chi sono fuori dallo sguardo maschile, quanti modi esistono di essere donna? Infiniti, in un multiverso epistemico aperto, in divenire, di punti di vista che si espandono continuamente. Ma per farlo, la nozione univoca di donna ha bisogno di essere eviscerata dalla mostrificazione mitopoietica che ancora si trascina dietro. Non dobbiamo disfarci dell’idea di donna, dobbiamo invece allargare la prospettiva, centuplicare i modi di essere, agire, pensarsi e dirsi donna, perché tutti sono veri.

Mariagiulia Gargiullo

Nata a Brindisi nel 2002, studia Antropologia, religioni e civiltà orientali all'università di Bologna. Interessata in particolare all'econtransfemminismo e alle filosofie non occidentali, sogna di vivere come Laura Ingalls de La casa nella prateria, ma leggendo Mark Fisher e Donna Haraway.

Lascia un commento

Your email address will not be published.

Ultimi articoli di Mariagiulia Gargiullo