Vampire, furti simbolici e uteri mostruosi. Sulla repressione della capacità riproduttiva femminile

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Partorire corpi, generare pensieri

Sin dall’antichità classica, la capacità generativa femminile ha suscitato sentimenti ambivalenti. Celebrato per estensione e per metonimia nelle forme ancestrali di culti legati alla natura e alla fertilità in senso lato, l’incomprensibile potere femminile di dare la vita costituiva allo stesso tempo una non trascurabile obiezione ai tentativi di elaborare gerarchie tra i due generi, che fossero biologicamente e culturalmente motivate. In altre parole, che i corpi femminili potessero generare rappresentava una sfida non irrilevante al collocamento degli uomini al vertice di una strutturazione sociale gerarchica. 

Come fare, quindi, per consentire a un’organizzazione patriarcale dei ruoli di genere di radicarsi e prosperare, senza entrare in contraddizione con il dato biologico evidente che conferisce solo ai corpi femminili la capacità di partorire? Come sostiene Nadia Maria Filippini (2017), la cultura occidentale ha da sempre dovuto dotarsi di un armamentario (in costante aggiornamento) di strumenti retorici e costruzioni socio-simboliche utili a declassare la capacità femminile di “produrre corpi” (Filippini 2017, p. 15). 
La strategia vincente è piuttosto semplice: se lo spirito, il lógos, è necessariamente superiore alla contingenza e alla caducità del corpo, la capacità di procreazione eminentemente corporale delle donne non potrà mai competere con la produzione di pensiero, rigorosamente maschile. I “figli della mente”, scrive Platone nel Simposio, frutto della riproduzione maschile, sono gli unici a poter realmente “sconfiggere la morte” (Filippini 2017, p. 29): la produzione letteraria e filosofica, infatti, garantisce l’immortalità di chi la genera. Al contrario, i “nati di donna” non solo sono mortali, quindi intrinsecamente fallaci, ma già a partire dal concepimento sono inficiati dalla tensione bestiale che caratterizza l’amplesso e il parto e accosta gli esseri umani agli altri animali. Dunque, i figli della mente sono sempre descritti come superiori ai figli del corpo, perché costituiscono una progenie non biologica, nata da puro pensiero e quindi esente dalla mostruosità del parto, e soprattutto sono una progenie eterna, che sopravvivrà al susseguirsi delle generazioni. Francesca Rigotti (2010) definisce questa costruzione retorica come un vero e proprio “furto simbolico”.

Espressioni come “paternità di un’opera” o il riferimento esplicito al partorire per indicare la redazione di un testo non sono quindi casuali né innocenti. Al contrario, funzionano come pratiche culturalmente determinate e moralmente connotate di risemantizzazione dei codici rappresentazionali e discorsivi del parto e della maternità. Le esperienze prettamente corporee della femminilità subiscono così un processo di nobilitazione ed epurazione: la conoscenza, il pensiero, la capacità tecnica maschili acquisiscono un valore salvifico, espiatorio. In questo senso, il sogno proibito, l’ambizione ultima è la possibilità di una nascita che sia materica, reale, ma asettica, razionale, gradevole, perfetta, poiché non ha bisogno di servirsi del mistero mostruoso e rivoltante che è l’utero materno. Il mito della nascita di Atena, come suggerisce Rosi Braidotti (1996) rappresenta un esempio paradigmatico: dalla testa di Zeus nasce questa figlia che è già adulta, eroica, armata. Perfetta. 

Le ostetriche sul rogo

L’utero femminile, al contrario, è costruito rappresentativamente come mostruoso in quanto sede di un’indeterminatezza irrappresentabile e terrificante, capace di operare occultamente al confine tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Nel corso della storia, l’alto tasso di mortalità infantile e neonatale, oltre alla sempre concreta eventualità della morte della partoriente, hanno contribuito a cementificare la significazione della scena del parto come spazio di compresenza dei due estremi, necessariamente interconnessi. Sia il corpo della partoriente che quello del neonato sono connotati da una sostanziale impurità di fondo, foriera di un potere contemporaneamente afferente alla sfera della vita e della morte, dal quale è essenziale che la comunità provveda a tutelarsi.

Per questa ragione, la fama delle ostetriche (le cosiddette levatrici) ha conosciuto fortune alterne. Essendo così attivamente compartecipe dello spazio liminale del puerperio ed esposte continuamente al contatto con i corpi impuri delle gestanti e dei neonati, per lo sguardo maschile ogni levatrice rappresentava una minaccia quantomeno potenziale. Il potere dell’ostetrica, come sostiene Filippini, si configura come fortemente ambivalente; all’interno della stessa figura converge infatti un campionario di conoscenze sulla sessualità e l’anatomia femminile utili allo stesso tempo a dare la vita e a esercitare controllo sulla morte, attraverso le interruzioni di gravidanza. Inoltre, dato il carattere fortemente esclusivo e femminilizzato dello spazio del puerperio, sempre più diffusa sarà la convinzione che al suo interno le levatrici siano libere di commettere atti nefandi ai danni della partoriente, del bambino o, più in generale, della morale comune. Le levatrici sarebbero, in altre parole, streghe e come tali saranno processate e messe a morte. 

I roghi di levatrici della prima età moderna, come rilevano Silvia Federici (2004) e Brian P. Levack (1987), devono essere letti come parte di una strategia politica esplicitamente codificata, funzionale all’instaurazione di un nuovo modello statuale. I nascenti Stati-nazione, infatti, fondano il proprio potere sulla (ri)produzione della forza lavoro; il controllo biopolitico dei corpi dei cittadini si rivela quindi uno strumento essenziale, che non può trascurare la gravidanza e il parto in qualità di momenti chiave della (ri)produzione di cittadini. Sui roghi di streghe, dunque, vengono bruciati secoli di tradizioni orali a carattere prasseologico; sulle loro ceneri, si fanno strada modelli di intervento imbevuti di scientismo, che prioritarizzano la vista e la conoscenza teorica come strumenti utili alla traduzione dei corpi gravidi delle donne in tassonomie a carattere predittivo, utili a esercitare un controllo biopolitico sempre più efficace e stringente. Silenziate le ostetriche tradizionali, con la morte o nel migliore dei casi col divieto di esercitare la professione, la ginecologia come scienza medica fa la sua comparsa sulle scene. Neanche a dirlo, la professione di chirurgo-ostetricante potranno praticarla solo gli uomini.

La caccia alle streghe, come sottolinea Federici, ha rappresentato “il culmine dell’intervento statale contro il corpo proletario nell’era moderna” (Federici 2004, p. 186). Uno strumento di repressione, adoperato scientemente con l’obiettivo di riprogrammare e normare i corpi femminili, per riorientarne le capacità produttive e ri-produttive al servizio dello Stato e della proprietà. In altre parole, lo Stato avrebbe deliberatamente condannato a morte centinaia di migliaia di donne, muovendosi furbamente nel solco di imputazioni sempre aleatorie e per questo sempre attingibili, affinché divenissero monito per le sopravvissute. Sarebbe così venuta a costituirsi una donna nuova, addomesticata, la cui straripante vis erotica sarebbe stata finalmente quietata, trasformata in vis lavorativa (Federici 2004). 

Uccidere la vampira

In letteratura i corpi femminili fertili e che esprimono attivamente desiderio sessuale sono spesso associati sia letteralmente che attraverso metafore indirette al mostruoso. L’arco narrativo in cui sono inscritti prevede un epilogo spesso prevedibile: devono essere ricondotti all’ordine attraverso atti di dominazione marcatamente fallologocentrici (Braidotti 1996), che tendono ad agire su un doppio livello. Non solo arginano la minaccia immediata dell’antagonista, ma soprattutto, attraverso un intervento che ha spesso modalità estremamente violente, contribuiscono al ripristino del rassicurante ordine naturale delle cose. Un presente ordinato e razionale dove l’alterità costituita dalla strega, dalla lupa mannara o qualunque altro ibrido mostruoso non trova spazio; un presente maschio, sano, abile, mono-etero-cis-normato, fiducioso nella scienza positiva.

Si pensi a soggetti come Lucy Westenra in Dracula, una giovane donna rappresentata come sessualmente disinibita, che diviene vampira ed è quindi punita dal racconto. La sua punizione, come suggerisce anche Jude Ellison Sady Doyle (2021) è la morte per impalazione: un atto chiaramente penetrativo, infatti eseguito da un gruppo di soli uomini che rappresentano esplicitamente la ragione positiva e la modernità, in contrapposizione a un passato abitato dalla superstizione e per questo obsoleto e condannabile . Altra vampira uccisa attraverso quello che sembrerebbe uno stupro metaforico è Carmilla, dall’omonimo racconto di Joseph Sheridan Le Fanu, che non solo è caratterizzata da una vis erotica intensa (per quanto implicita nel testo), ma è anche eminentemente sovversiva in quanto lesbica. Vampire, quindi entrambe figlie di Lilith, la prima moglie di Adamo nel mito biblico, condannata a un’esistenza di dannazione in quanto sottrattasi a un atto penetrativo “passivo”. 


Lilith propone ad Adamo di stargli sopra nell’atto sessuale e Dio la punisce, esattamente come accade nel mito cabilo raccontato da Bourdieu (1998). L’espressione di agentività nel sesso è punita con la condanna alla mostruosità, in quanto atto in sé mostruoso, in sé abominevole al punto da ricevere un vero e proprio testo di condanna, il Malleus Malleficarum. In ognuna di queste storie, la penetrazione assume un valore salvifico, rischiara dalle tenebre, come il taglio del chirurgo disvela il mistero dell’utero. L’intervento maschile appone ordine al caos indeterminato dei corpi femminili.

I corpi delle donne sono quindi da sempre il prodotto di pratiche discorsive ragionate e adoperate strategicamente. Affinché su di essi si possa legiferare, è necessario costruirli come naturalmente fallaci, inclini all’eccesso, tendenti al mostruoso. In altre parole, corpi per natura indisciplinati, che necessitano sempre dell’intervento maschile per essere ricondotti all’ordine e funzionare correttamente. 

Mariagiulia Gargiullo

Nata a Brindisi nel 2002, studia Antropologia, religioni e civiltà orientali all'università di Bologna. Interessata in particolare all'econtransfemminismo e alle filosofie non occidentali, sogna di vivere come Laura Ingalls de La casa nella prateria, ma leggendo Mark Fisher e Donna Haraway.

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