Pensare, inventare, raccontare. Esisto, produco pensieri, li traduco in parole, le mie. Anch’io trovo posto entro i margini di un discorso che mi precede e mi eccede, in continuo divenire; e la mia voce è l’esito incorporato di quello che è stato detto prima di me, filtrato però dalla mia prospettiva individuale, dal mio essere profondamente soggetto. Voglio essere partecipe della storia del pensiero con le mie idee, scrivendo con enfasi, l’enfasi di dire, sempre dire, l’entusiasmo quasi spasmodico di contribuire alla produzione letteraria con la speranza, forse, di ascendere all’empireo dei Grandi Autori.
L’uso delle forme attive, dell’infinito e di un presente indicativo che suonano assolutamente insindacabili, eterni, oggettivi, non è casuale. Se hanno contribuito a evocare nella mente di chi legge l’immagine distinta di un giovane scrittore, infiammato dalla passione, o magari di un anziano professore la cui autorità è ormai consolidata, se si tratta in ogni caso di maschi che parlano, non è assolutamente un fatto incidentale.
Scrivere da donna: discorso e meta-discorso
Se a scrivere fosse stata una persona socializzata donna, probabilmente avremmo incontrato invece una serie di forme passive, altrettanto non casuali, indicative di un certo paradosso che è proprio dell’essere autrice. Pensarsi, inventarsi, raccontarsi. Autenticare consapevolmente la propria esistenza nel mondo. La produzione della femminilità come economia di simboli e come categoria performativa, infatti, come variamente rilevato da più autori e autrici, da De Beauvoir a Bourdieu, si configura necessariamente come un processo riflessivo e autoconsapevole. La ragione è semplice: la femminilità, da intendersi come Altro per antonomasia, comprovata solo al negativo dall’assenza di qualità virili, è subordinata allo sguardo maschile, programmata per compiacerlo. Imparare a essere donne correttamente socializzate, com’è proprio di tutti i soggetti collettivi dominati, significa soprattutto imparare a guardarsi da fuori con gli occhi del soggetto dominante (cfr. John Berger). Con gli occhi dei maschi. E a comportarsi di conseguenza.
Scrittura come pratica di genere
In questo senso, anche l’esperienza della scrittura appare necessariamente connotata per genere.
In quanto soggetto collettivo dominante, agli uomini (da intendersi specificamente come uomini cisgender, bianchi, occidentali di classe media) è conferito il privilegio di pensare sé stessi come coestensivi all’umanità nella sua interezza, perfettamente coincidenti con la nozione essenziale di “umano”, di cui tutti gli altri (e le donne in primis) rappresentano una variante spuria. In questo senso, la voce del maschio, capace di produrre tassonomie e categorizzazioni di ogni cosa che identifica come altra da sé, è sempre esterna, neutra e ha valore universale. Non necessita di alcuna forma di autocritica rispetto a eventuali limiti della propria prospettiva e alla propria identità, nella misura in cui l’identità maschile è di fatto l’identità umana nella sua espressione più propria. Nella veste di autori, gli uomini possono quindi legittimamente pensare di tutto e scrivere di tutto: se produrranno riflessioni a carattere esistenziale, esse riguarderanno sempre l’umanità nella sua interezza.
Al contrario, l’ancestrale consapevolezza che le donne hanno della propria condizione di alterità e dell’impossibilità di eluderla, nell’atto dello scrivere risulta frequentemente nella produzione di una sorta di meta-discorso articolato a partire da e attorno alla parzialità del proprio posizionamento. Le donne, dunque, non possono esimersi mai dal parlare, almeno in una certa misura, di donne e del proprio essere donne. Gli uomini invece parlano di tutti, a tutti e in nome di tutti.
In questo senso, se la capacità di produrre pensiero (all’opposto della capacità generativa biologica attribuita alle donne) ha tradizionalmente rappresentato uno dei tratti costitutivi della virilità, ne risulta un canone di autorialità eminentemente maschile; di conseguenza, è sempre davanti a un’autorità maschile che le donne sono chiamate a comprovare la propria intelligenza, in una sorta di sforzo teso a sconfessare la propria femminilità, a emanciparsi da essa producendo pensiero invece che prole (cfr. Nadia Maria Filippini, 2017). Come sostiene Silvia Federici, qualunque discorso prodotto all’interno di spazi femminilizzati risulta sistematicamente disincentivato e sminuito, laddove non esplicitamente vietato, si pensi alla storia del termine “gossip”.
Figli del corpo, figli della mente
Le donne, dunque, non producono discorso tra loro; la filiazione intellettuale pertiene esclusivamente agli spazi della maschilità (primo tra tutti il Simposio). Per essere intellettualmente fertile, una donna deve parlare con gli uomini e agli uomini. La carriera da scrittrice di Elena Greco – Lenù- protagonista e voce narrante della tetralogia di Elena Ferrante, offre in questo senso un esempio particolarmente calzante. Appena sposata e reduce dal successo inatteso del suo primo romanzo, Elena si trasferisce a Firenze al seguito del marito Pietro Airota, giovane docente universitario. A caratterizzare questo periodo, per Elena, è una sorta di inattesa afasia: la maternità, che la coglie improvvisamente, la allontana dalla scrittura, dapprima materialmente e in seguito soprattutto togliendole l’ispirazione e il linguaggio. Alla fertilità letteraria, della mente, si sostituisce quindi una fertilità corporea, che appare sostanzialmente muta.
Quando infine le parole le tornano e in un fluire impetuoso dà alla luce il suo secondo libro, sarà essenzialmente grazie al ritorno di Nino Sarratore, amato sin dall’infanzia, che prepotentemente s’insinua nella vita adulta di Elena sino a sconvolgerne gli equilibri. Nino dunque restituisce a Elena la sua capacità di scrittura, quasi inseminandola, rendendola nuovamente gravida di pensiero, di parole.
Per essere intellettualmente fertile si deve quindi parlare con gli uomini e agli uomini; in questo senso Elena, nel periodo di Firenze, è doppiamente “ingravidata”, prima da Pietro e poi da Nino. La sua capacità generativa si esprime così in due modalità tra loro antitetiche, ma sempre sospinta dal maschile, messa in moto dal maschile, come se sia il suo corpo di donna che la sua capacità intellettuale non potessero esistere come per sé ma siano sempre in attesa di essere rese attive dall’intervento maschile. Un uomo le ha tolto le parole e un altro gliele ha restituite, entrambi hanno contribuito alla sua costruzione identitaria: Elena-madre ed Elena-scrittrice.
Elena e Lila: identità dal margine
Ma oltre al controverso rapporto col maschile e in particolare con Nino, a caratterizzare ancora più visceralmente la vita di Elena, facendosi a sua volta spinta propulsiva alla narrazione è il suo rapporto con l’amica Raffaella Cerullo, Lila. A partire dall’infanzia condivisa nel Rione a Napoli, Lila e Lenù coabitano uno spazio relazionale complesso, dai confini spesso labili. In esso, le due protagoniste sembrano attuare continuamente una pratica di reciproca costruzione, stimolandosi a vicenda all’interno di un campo di condivisione marcatamente femminilizzato, intimo e quasi sacrale, accostabile per certi versi alla pratica dell’autocoscienza femminista e al continuum lesbico teorizzato da Adrienne Rich.
Nonostante Elena acceda anche a spazi esplicitamente codificati come autocoscienza femminista, nel salotto di sua cognata, circondata da donne accademicamente preparate e che condividono la sua formazione politica, i momenti che la spingono più in profondità alla riflessione su di sé sono sempre quelli con Lila. A dialogo con l’amica, in una pratica di mutua costruzione, Elena è in grado di mettere a fuoco e problematizzare la propria storia di vita a fronte della condizione marginale delle donne, specificamente delle donne meridionali. Riesce quindi a dotarsi di una prospettiva intrinsecamente radicale, che le viene conferita dal tornare ad abitare, assieme a Lila e attraverso Lila, un margine che è anche e soprattutto margine di possibilità (cfr bell hooks, 1984).
Scrittura e tradimento
Come sottolinea Adriana Cavarero nel testo Tu che mi guardi, tu che mi racconti (1997), la narrazione è in grado di disvelarci la nostra identità; nel caso di Lila ed Elena, la narrazione della prima genera, in maniera apparentemente simmetrica, anche l’identità della seconda. Si tratta, tuttavia, di una simmetria che è necessariamente sempre illusoria. Elena scrive, dunque indaga la propria identità e si afferma come soggetto attraverso la pratica della scrittura, ma scrive di Lila, costruendola quindi inevitabilmente come oggetto della narrazione.
In questo senso, usando la scrittura come mezzo di affermazione identitario e come strumento di appropriazione del reale, Elena di fatto si inventa Lila, attraverso la stessa pratica di costruzione e invenzione dell’altro da sé che è propria del soggetto dominante. Elena requisisce la voce di Lila, la quale, pur avendola ispirata proprio nella dimensione autentica e immediata del loro spazio autocosciente condiviso, non può effettivamente emergere dalla narrazione se non laddove il loro dialogo è riportato in forma diretta. Tale processo risulta interessante anche in qualità di operazione linguistica: Elena traduce il dialetto di Lila in italiano comprensibile e in una prosa intensa e appassionata; e, in senso lato, traduce l’oralità in parola scritta, quindi ne tradisce l’immediatezza.
Scrivere di Lila richiede quindi sempre a Elena un tradimento, che è triplice. In primo luogo, tradisce il patto della loro intimità, sia in maniera plateale, pubblicando il romanzo Un’amicizia e infrangendo così l’esplicito divieto di Lila di scrivere di lei; sia indirettamente, nella misura in cui la sua presenza è sempre stata parte integrante e prima ispirazione dell’opera letteraria di Elena. In secondo luogo, tradisce nel senso di disvelare, di portare continuamente alla luce Lila che è invece costantemente impegnata in tentativo estremo di restare nascosta, di rimuoversi dall’esistenza, di cancellarsi; la scrittura di Elena la costringe in questo senso all’esistenza (“Io ero io e proprio per questo motivo potevo farle spazio in me e darle una forma resistente”, Storia della bambina perduta, 2014, p. 361). In ultimo, Elena tradisce soprattutto la verità delle parole di Lila, perché attraverso la scrittura necessariamente la reinventa, la ricostruisce, cioè la desoggettivizza, facendone un personaggio.
Lila, la subalterna
Come dimostra Cvetan Todorov (1984) a proposito delle concause che hanno contribuito alla conquista spagnola del Messico Tenochtitlàn, la scrittura può essere intesa come l’atto di colonizzazione per eccellenza: comprendere e narrare l’Altro, in questo caso nativo mesoamericano, lo relega inevitabilmente a una posizione di subalternità. Il ruolo di subalterna, intesa, come suggerisce Gayatri Chakravorty Spivak (1988), come soggetto privato della possibilità di affermare la propria voce e quindi sempre destinato a essere narrato, può essere associato anche a Lila. Resa eternamente subalterna dalla scrittura di Elena, è condotta all’esistenza dalla narrazione mentre le è impedito di parlare di sé.
Riprendendo ancora una volta Cavarero, se la categoria di identità personale postula sempre come necessario l’altro, Elena ha bisogno di Lila per progettare e costruire sé stessa. Allo stesso tempo, come intuisce lucidamente pensandosi in relazione a Nino, non può mai del tutto emanciparsi dallo sguardo maschile, di cui necessita per sentirsi reale.
Esistere fuori dal maschile
Nel saggio che scrive stimolata dall’incontro con Nino, Elena indaga l’invenzione della donna in letteratura da parte di autori uomini e la sottopone a critica. Nello stesso tempo, lei stessa finisce con l’inventarsi per Nino, diventa scrittrice per Nino, costruisce la sua identità postulando l’esistenza di un altro maschile che la guarda da fuori, quasi fosse lui autore dei suoi confini. Sa intuire e anticipare cosa lui desideri e si inventa una Elena che lo soddisfi. In un moto uguale e contrario, scrivendo si inventa una Lila che imprime nella pagina, esattamente attraverso lo stesso dispositivo retorico di appropriazione che tutti gli autori che cita (Tolstoj-Karenina, Flaubert-Bovary ecc ecc) usano per inventarsi le donne.
E allora dove si colloca l’esistenza vera del femminile? Se la femminilità è costantemente inventata e ricostruita attraverso il filtro dello sguardo maschile, se la scrittura delle donne è un atto che tradisce le loro stesse voci, come può emergere una verità autentica? Questo è il nodo centrale della riflessione: l’esistenza del femminile è sempre in relazione a una costruzione esterna, maschile, che ne definisce i contorni. Ma fino a che punto le donne possono davvero affermare la propria identità senza subire la colonizzazione delle parole, degli sguardi e dei modi maschili di invenzione dell’Altro? Come si può essere donne scrittrici e scrivere senza tradire, e senza tradirsi?
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Questo articolo nasce dalla collaborazione con Maria Zorzanello, che ha analizzato acutamente l’opera di Ferrante nella sua tesi di laurea dal titolo “Come un’ustionata che urlando si strappa di dosso la pelle bruciata: un’analisi tematica sull’emigrazione femminile nelle opere di Elena Ferrante”. Dialogare con Maria mi ha regalato stimoli, spunti, suggestioni, prospettive e indicazioni che altrimenti non avrei avuto. Sono grata di aver potuto scrivere di spazi femminilizzati di produzione dell’identità insieme a un’amica geniale come lei.
Buongiorno, vorrei mettermi in contatto con Mariagiulia Gargiullo , sono Lidia Barillà presidente della Fondazione Lionello Balestrieri di Cetona . Per il mese di Marzo stiamo organizzando una rassegna letteraria tra filosofia e scienze. Il mio cell 3355612337 mail : presidenza@fondazionebalestrieri.com .
Ci interessava l’argomento sulla narrazione femminile e una analisi “ giovane”. Cari saluti Lidia Barillà