Il sogno erotico del potere. Note su “La legge del pudore”

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È uscita recentemente la traduzione di Caro Gervasi e Lorenzo Petracchi della famigerata conversazione radiofonica fra Michel Foucault, Guy Hocquenghem e Jean Danet intitolata La legge del pudore. Il libro raccoglie vari testi che si situano su un doppio asse: quello del movimento di liberazione sessuale degli anni ’70, in particolare in merito al corpo del minore e alla sua sessualità, e quello della difesa contemporanea di quel corpus di testi attraverso i quali s’è formulata l’accusa di apologia alla pedofilia. Mattia Giordano ha già recensito il testo per Palomar, dunque il compito che si pone qui non è sintetizzare i temi ma analizzarne il contenuto.

L’occasione per questa conversazione radiofonica fu la Lettera aperta sulla revisione della legge sui crimini sessuali riguardanti i minori del 1977, scritta da Hocquenghem e Schérer e firmata, fra gli altri, da Althusser, Deleuze, Guattari, Derrida, Sartre, de Beauvoir e Dolto. Punto centrale della lettera era modificare l’impianto delle leggi che criminalizzavano i rapporti con minori in quanto lesivi del “pudore”, della “natura”, dell’ordine, del buon costume, e non in quanto lesivi della persona; in particolare si tentava di riformulare le pene per i rapporti omosessuali con minori, più stringenti delle leggi che normavano i rapporti eterosessuali con minori. Positivamente, la lettera può essere ricondotta a due formule: 1. Che «la libertà dei partner di un rapporto sessuale sia la condizione necessaria e sufficiente per l’ammissibilità di tale rapporto»[1]; 2. Che circa i rapporti sessuali con minori sia necessario «prendere in considerazione innanzitutto il consenso del minore»[2].

Che questa lettera non sia in sé un’apologia della pedofilia è ovvio a chiunque la legga, tanto più che l’impianto legalista smussa e modera le posizioni in un neutralizzante afflato giuridico, per cui, alla fin fine, non si starebbe parlando affatto di ciò che è giusto o di ciò che è ingiusto, delle implicazioni etiche di un’azione, della liceità morale o, meglio ancora, politica del rapporto con minori, bensì semplicemente dell’insieme di leggi positive che normano e reprimono tali rapporti. In breve, non si starebbe toccando alcun nucleo teorico e politico.

Un minuto affresco teorico è invece dato dal colloquio radiofonico. Esso non fornisce certamente la base su cui ognuno dei firmatari decise di firmare la proposta di revisione, ma dà l’orizzonte ermeneutico sul quale la discussione ha potuto impiantarsi. Specifica la posizione di una sola parte dei firmatari, e in una forma essenzialmente divulgativa – in questo senso non può essere presa con la stessa gravità teorica della Volontà di sapere, a esempio, ma risulta comunque utile per problematizzare.

La conversazione affronta diversi temi, ma nel presente testo ci concentreremo su un nodo particolare: che l’utilizzo strumentale del bambino come ente indifeso, da proteggere, abbia modificato l’azione delle leggi, le quali un tempo prendevano di mira specifici atti, «condannavano forme di condotta»[3], mentre ora sanzionano un pericolo evanescente e generalizzato – la sessualità.

Il raffreddore sessuale

«Il fatto che, nella seconda metà del XX secolo, la sessualità venga senz’altro depenalizzata, ma per apparire sotto forma di pericolo, e di pericolo universale, rappresenta un cambiamento considerevole. Direi che è questo il pericolo»[4]. Che la nostra società sia giunta a formulare una fantasmatizzazione e generalizzazione della sessualità come pericolo sottile e sempre presente è una previsione accurata. Viviamo un momento di raffreddamento della sessualità, un nuovo moralismo (è il nostro modo di essere vittoriani). Houellebecq ne parla bene nel suo ultimo libro, Qualche mese della mia vita, e imputa paradossalmente il Sessantotto di questo raffreddore sessuale[5]. Non significa assolutamente che la sessualità sia vietata, che non se ne parli: se ne parla, e se ne parla sempre: le rivendicazioni di genere, il moltiplicarsi stesso dei generi, ne è una chiara prova. Ma le rivendicazioni sono immediatamente catturate da istanze di potere e caricaturate dall’industria culturale.

La freddezza del nostro tempo circa la sessualità è segnalata anche dal silenzio che ha accompagnato questa pubblicazione: nemmeno i forconi per i pedofili… Eppure la sessualità non è tornata un tabù, non nella misura in cui lo era prima del Sessantotto; essa, piuttosto, è stata disinnescata, depoliticizzata, privatizzata: da un lato la si è resa la parte indispensabile di una pruriginosa intimità, e dall’altro è stata catturata da un sistema discorsivo e immaginativo, da un’industria culturale che la confeziona e la distribuisce secondo premesse e conclusioni già convalidate e inalterabile. La sessualità è il mostro degli ormoni di Big Mouth e il sorriso da copertina di Sex Education. Tutto il potere, il potere effettivo del sesso e nel sesso è taciuto. Così un prodotto provocatorio, che dovrebbe scuotere, “aprire un dibattito” (ma dove mai dovrebbe aprirlo? Non nelle università, dove tutto ciò che non è accademico è visto con sospetto, dove conta innanzitutto la triste pedagogia dei crediti formativi; non nei giornali, che sono innanzitutto il megafono, ecologicamente chiuso, di polemicucce preconfezionate; non le riviste culturali, che non posseggono la medesima spinta che possedevano il secolo scorso; non sui social, per motivi lapalissiani), è condannato all’indifferenza.

Non si tratta più di colpire dei comportamenti, ma di controllare un fantasma – è questa l’intuizione più promettente della conversazione, che all’apertura sessuale corrisponda un più sottile insieme di pratiche di controllo e monitoraggio che riproducono e manipolano la sessualità, che la richiudono in una prigione simbolica. Niente più forme di vita, nessuna condotta, solo il plasma amorfo e infettivo del sesso che minaccia ogni rapporto sociale. Ed è su questo fantasma, per sventarlo e monitorarlo, che la repressione agisce, criminalizzando preventivamente ogni pervertito, inventando il pervertito, e agitando la protezione del bambino come giustificazione.  Danet, Hocquenghem e Foucault hanno assolutamente ragione quando ritengono che la pedofilia sia usata come arma di delegittimazione politica, ma hanno assolutamente torto quando mischiano la critica a questo utilizzo strumentale con la difesa dei rapporti con minori: appaiono loro stessi l’oggetto che è strumentalmente criticato, gli apologeti della pedofilia. Assumono la maschera di ciò che è combattuto dal discorso strumentale, e con ciò non escono per nulla dal discorso repressivo, piuttosto s’accontentano di postularlo e reificarlo.

Che il bambino sia agitato come ente da proteggere per fini che esulano dalla difesa del bambino è vero: basti vedere che cosa QAnon è riuscito a fare delirando una cabbala satanica formata da celebrità ed esponenti del Partito Democratico intenta nel traffico internazionale di minori allo scopo di estrarre loro la ghiandola pineale per produrre adrenocromo. Ma l’efficacia di quest’argomentazione risiede esattamente nel fatto che i bambini siano, in ultima istanza, un ente speciale, con bisogni e tempi particolari – che questa protezione debba spingersi fino alla fideiussione totale del minore, fino all’idea che egli vada difeso innanzitutto dai suoi desideri, è problematico, criticabile, superabile. Eppure non si può fingere che l’argomento non affondi in qualche modo nel vero, che non funzioni esattamente perché esprime qualcosa di vero.

Dinnanzi all’obiettiva asimmetria di un rapporto fra minore e adulto, Foucault, Hocquenghem e Danet oppongono il concetto di consenso, che anche il bambino possa liberamente volere, autonomamente desiderare un rapporto con un adulto. Ma pur accettando che il bambino, il minore possa libidinalmente investire un adulto, resta una considerazione che nella conversazione è rigettata: la manipolabilità del minore. Se è vero che egli può investire, desiderare, è altrettanto vero che il bambino vive soprattutto rapporti in cui è fattualmente o istituzionalmente subordinato – la famiglia, la scuola, la chiesa, il campo estivo, eccetera. Nei suoi incontri con gli adulti il bambino è sempre in una posizione di minorità, ovvero egli è sempre in uno stato di dipendenza sociale che condiziona il suo desiderio (il ripiegamento edipico, d’altronde, funziona anche perché egli è schiacciato nella famiglia, obbligato a investire libidinalmente una cerchia ristretta).

In questo senso, l’argomentazione di Foucault, Hocquenghem e Danet è viziata da un tacito presupposto, invero alquanto occidentalista: che l’umano in generale e il bambino in particolare sia un soggetto essenzialmente autonomo, a prescindere dalle condizioni in cui si trova; che egli possa scegliere liberamente, che non sia determinato dal rapporto di potere che lo posiziona, dall’esteriorità che lo circonfonde, e che questa autonomia implicita giustifichi il suo atto o sia sufficiente a determinare il suo consenso. Doppia superstizione, in verità: non solo l’autonomia del soggetto, ma anche la libertà del suo desiderio, come se il posizionamento del desiderio non fosse necessariamente macchinato, come se l’inconscio potesse essere autonomo, come se non vi fosse necessariamente un’eterodirezione determinante, innanzitutto l’eterodeterminazione del dispositivo.

Breve deriva intra-foucaultiana

È forse su questo che la critica di Baudrillard coglie di più il problema del potere in Foucault, il suo ancoramento cieco alla matrice produttivista. Nella sua critica alla Volontà di sapere, Baudrillard critica a Foucault di possedere una concezione classica del potere, di prendere di mira l’autentico funzionamento del potere e non il dispositivo di simulazione che lo raddoppierebbe facendolo dileguare nell’impercettibile, nel nulla, nel non-senso:

il discorso è discorso, ma i funzionamenti, le strategie, le macchinazioni che vi si giuocano sono reali: la donna isterica, l’adulto perverso, il bambino masturbatore, la famiglia edipica: dispositivi reali, storici, macchine mai truccate – come le macchine desideranti nel loro ordine energetico e libidinale – tutte esistono ed è vero: esse sono state vere, ma le macchine simulanti che raddoppiano ognuna di quelle macchine “originali”, la grande macchinazione simulatrice che riprende tutti quei dispositivi in una spirale ulteriore, di questa grande macchinazione con Foucault non sapremo mai niente, poiché il suo sguardo non devia dalla semiurgia classica del potere e del sesso. Egli non vede la semiurgia insensata del simulacro che se ne è impadronita.

(Baudrillard, J., Dimenticare Foucault (1977), PGreco, Milano 2014, p. 10)

Ora, tutta l’ulteriore spirale delle manipolazioni e delle simulazioni, l’assenza di realtà profonda del potere, la mantica scenografica e paranoica del maneur, tutto ciò è totalmente assente nella semiurgia foucaultiana. Ci si potrebbe chiedere perché il potere dovrebbe per forza passare attraverso la simulazione del simulacro, perché dovrebbe essere avvolto da «una spirale ulteriore», perché vi dovrebbe essere un raddoppio simulante che precipiterebbe le strategie di potere in una simulazione ennesima, la quale maschererebbe l’assenza di realtà profonda del potere. In breve, perché una volta che s’è reso trasparente il funzionamento del potere e del desiderio, qualcos’altro dovrebbe celarvisi, duplicandolo, nascondendolo, allontanandolo? Ma il movimento apparente del rapporto di potere, il suo aspetto simulativo e ideologico, è ciò che gli permette di funzionare e di riprodursi nell’immaginario, il suo gradiente di infettività memetica. La sessualità non si sarebbe mai fantasmatizzata se non fosse stata avvitata, doppiamente catturata, rimasticata da una catena simbolica, puramente significante che avrebbe dileguato ogni sua referenza reale. Il paranoico, del resto, con le sue megamacchine sociali, ha uno spiccato gusto teatrale. Ma tutto questo ci porta su un’altra linea.

Il problema del consenso

Poniamo il consenso alla base del rapporto. Di che cosa parliamo? Non possiamo intendere che sia soltanto l’investimento desiderativo a determinare il consenso: vi è in questo una componente razionale o raziocinante, di automonitoraggio normativo che discerne la semplice pulsione e la seleziona. Possiamo formulare il consenso come desiderio + giudizio, dove con giudizio si intende l’assenso razionale e autonomo al desiderio. Ora, per formulare il consenso è necessario interrogarsi sulle condizioni effettive del soggetto, in particolare sulla sua posizione nel rapporto. Di qui, se il soggetto è dirimente, non significherà la stessa cosa che esso sia formulato da un bambino, da un adolescente o da un adulto. Danet, Hocquenghem e Foucault preferiscono mantenere nell’indifferenziazione il concetto di bambino o di minore, ma evidentemente un sedicenne non è un undicenne, e non tutti i sedicenni sono uguali. In generale, se parliamo di minori, in particolare della loro sessualità, è utile sezionare i minori secondo uso o buon senso, almeno secondo il raggiungimento o meno della pubertà, la quale modifica significativamente il modo di investimento libidinale. Non solo, ma vi sono importanti sviluppi neurologici, che approssimano il funzionamento psichico e razionale del minore a quello dell’adulto, soltanto verso i dodici anni. In questo senso, non significherà la stessa cosa che sia un minore a formulare il consenso o che a farlo sia un adulto.  

Si potrebbe obiettare, e nella postfazione i curatori lo fanno, che tutta questa argomentazione, la quale collassa la razionalità e l’autonomia sullo sviluppo neurologico, che vuole sovraimprimere il desiderio col giudizio, che situa su un asse di sviluppo l’emergenza quasi miracolosa della facoltà di consentire, che preferisce assiologicamente il decision-making dell’età adulta a quello del minore, sia l’effetto stesso del dispositivo che ha prodotto l’infanzia come età e il bambino come soggetto. E nonostante ciò sia vero, non crediamo colga del tutto il vero, giacché trascura l’obiettiva minorità biologica, e dunque psicologica, del bambino, minorità che non ha alcuna accezione morale od ontologizzante, ma semplicemente ontogenetica, di sviluppo effettivo del minore. Il bambino così come lo concepiamo è certamente un prodotto della famiglia borghese, della sua storia dall’età vittoriana a oggi. Di più, la stessa esistenza informale del bambino come proprietà o bene famigliare è velatamente sostenuta dalla legge che lo inquadra necessariamente come nodo d’una relazione di cui egli non è padrone né decisore. In un certo modo, la legge duplica uno stato di natura, senza che a questa parola (“natura”) si voglia conferire alcun significato trascendente o reificante. Semplicemente si constata che nei mammiferi i piccoli della specie hanno necessità di un contatto e di una cura continua e sollecita da parte di conspecifici di età maggiore. Ora, che questa necessità venga formalizzata nella famiglia nucleare e borghese è un contenuto storico specifico che può essere deprecato. Ma la forma generale del rapporto, la dipendenza come modo del rapporto fra bambino e adulto, è un’ovvietà dei fatti, non una costruzione sociale. Da questa intrascendibile esperienza dovremmo partire per ripensare il bambino, i suoi rapporti, i suoi affetti, non da una sua adulterazione, non da una supposta autonomia che più che intenderlo nella sua verità vivente lo reinscrive deformandolo nell’età adulta, lo reprime maggiormente gettandolo nel mondo come ente autonomo e indipendente, laddove egli è, nei fatti, dipendente e bisognoso di cure. Intendo dire semplicemente che l’adulterazione del bambino è teleologizzante quanto la sua infantilizzazione, che intenderlo alla stessa maniera di un adulto non significa rispettare lui e il suo mondo psichico.  

Bisogna camminare su un filo sottile e teso: se vi è un effettivo ricatto che si basa sul bisogno di cura del bambino, ricatto che lo espropria come bene famigliare e sociale, è altrettanto vero che questo bisogno agisce anche sull’obiettiva assenza o immaturità di un automonitoraggio normativo efficace. Se, come scrivono i curatori, costringere il bambino all’astinenza, al monitoraggio dei movimenti, all’educazione poiché bisognoso di cure sarebbe un ricatto, lo sarebbe altrettanto far leva su questo bisogno, sulla sua sessualità in via d’esplorazione, per compiere con lui atti sessuali di cui potrebbe pure formulare un consenso, ma che lo vedrebbero necessariamente e fattualmente come subordinato.

Nessuno degli autori sembra cogliere il grado politico della pedofilia: essa esprime lo scandalo rimosso del potere oppressivo, è la più pura espressione del dominio totale, dell’asimmetria di potere nella sessualità. È il sadico nel potere.

Giù le mani dai bambini, o l’ambiguità della protezione

La protezione strumentale dei bambini dalla sessualità fa pendant con la pedofilia. Ovvero, l’asessualizzazione forzata corrisponde alla sessualizzazione forzata, sono due facce della medesima repressività: spogliare il bambino di sé, castrare la polimorfia del suo desiderio, togliergli il sesso per suggerlo o castrarlo. In ogni caso si tratta di espropriarlo di qualcosa, di opprimerlo.

Vi è una sessualizzazione implicita nella protezione del bambino dalla sessualità – innanzitutto perché si scorge la sessualità, il suo pericolo, laddove non si vede. Ma in secondo luogo è una linea che avvince la sessualità al potere, un’implicazione necessaria del potere nel sesso che riporta la difesa feticistica del bambino a una sua sessualizzazione occulta. Una creazione dell’innocenza o della seduzione che non riguarda per nulla il comportamento del bambino, ma lo sguardo dell’adulto. Non si tratta soltanto della privatizzazione e depoliticizzazione della sessualità del minore, del ripiegamento famigliare che subisce. Certo, questa castrazione accade, e non involve solo la sessualità, ma l’intera personalità, l’intero corpo del bambino è conteso da contrastanti interpretazioni e istituzioni che vogliono più o meno, ragionevolmente o irragionevolmente, controllarlo, educarlo, monitorarlo, formarlo (famiglia, scuola, ospedale, media, chiesa, eccetera).

Nella repressione del minore c’è qualcosa di più sotterraneo della semplice costruzione dell’infanzia come innocenza: è una linea biopolitica che inquadra il bambino come materia infinitamente determinabile e sfruttabile, come pongo ontologico del desiderio, come simbolo della natura manipolabile, totalmente disponibile. Lo colsero bene Horkheimer e Adorno trattando della continuità della mano del nazista che carezza un fanciullo e batte un ebreo: «alla base della pietà fascista per le bestie, la natura e i bambini, è la volontà di persecuzione. La carezza negligente sui capelli infantili o sulla pelle dell’animale significa che la mano, qui, può distruggere»[6]. Il bambino, con la sua innocenza forzata, richiama l’innocenza effettiva della natura, la sua dipendenza assoluta nel delirio distruttivo.

È in questa linea che la pedofilia emerge come rimosso del potere oppressivo, come sogno erotico del potere illimitato, che agisce su sé stesso limitandosi, rimuovendosi, per l’appunto. Eppure questa rimozione resta l’originaria operazione dell’oppressione, la spinta pulsionale che la determina – che qualcosa o qualcuno sia totalmente nelle mani di un altro, assolutamente disponibile, dipendente, e che questa volontà di dominio venga mascherata dalla benevolenza dell’amore, della sicurezza, della protezione. La neotenizzazione forzata del bambino, siccome la sua sessualizzazione, agisce esattamente in questo punto, come degradazione del controllo e della manipolabilità.


[1] Lettera aperta alla Commissione di riforma del codice penale per la revisione di alcuni testi che regolano i rapporti tra adulti e minori (1977), in Foucault, M., La legge del pudore, a c. di C. Gervasi e L. Petrachi, Orthotes, Napoli-Salerno 2023, p. 47.

[2] Ivi, p. 49.

[3] Danet, J., Hocquenghem, G., Foucault, M., La legge del pudore (1978), in La legge del pudore, cit., pp. 30-31.

[4] Ivi, p, 31.

[5] Cfr. Houellebecq, M., Qualche mese della mia vita, tr. it. di M. Zemira Ciccimarra, La nave di Teseo, Milano 2023, pp. 91-96.

[6] Adorno, T. W., Horkheimer M., Dialettica dell’illuminismo (1944-1969), tr. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 2010, p .270.

Mattia Brambilla

Sono laureato in filosofia presso l'Università degli Studi di Milano; amo il pensiero e le lettere, scrivo e mi diletto con gli scacchi.

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