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Lavorare stanca

46 minuti

La Dunder Mifflin di The Office rappresenta alla perfezione la svolta che Jean Baudrillard attribuisce al lavoro nel capitalismo postindustriale: esso diviene improduttivo, assolutamente autoreferenziale, semplice occupazione di tempo e prestazione di forze. Esso non produce più nulla, ma si limita a riprodurre sé stesso. In questo senso, «ciò che è riprodotto nel sistema attuale è il capitale nella sua definizione più rigorosa: come forma del rapporto sociale, e non nell’accezione volgare, come denaro, profitto e sistema economico»[1]. Il proliferare dei bullshit jobs, lavori essenzialmente inutili, la cui funzione principale è quella di riprodurre il lavoro, di mascherare l’assenza di produzione reale, l’inconsistenza del paradigma produttivista nel capitalismo contemporaneo, esprime esattamente questo slittamento del lavoro da forma del processo economico-produttivo a pura forma d’obbedienza.

Un’azienda come Duder Mifflin che non produce carta, ma che si limita a venderla, a fungere da intermediario, non serve economicamente a nulla, è una mediazione superflua fra produzione, distribuzione e consumo. In verità serve a qualcosa, ma non economicamente, bensì strategicamente: come integrazione di una certa classe media nel mondo del lavoro, come riproduzione del lavoro stesso in quanto sistema d’obbedienza, rapporto sociale, e non in quanto facoltà produttiva. Anche per Marx il capitale è un rapporto sociale, ma di tipo molto determinato, un rapporto sociale di produzione, il rapporto di produzione specificamente borghese fondato sullo sfruttamento della forza lavoro. È questa forza lavoro che cambia e si polverizza, modificando l’essenza stessa del capitale, estremizzando il capitale fino alle sue estreme conseguenze.

Molte delle realtà analoghe alla Dunder Mifflin sono sparite dopo la crisi del 2009, ma la rappresentazione del lavoro come semplice occupazione di tempo e prestazione resta invariata. Non che non si debba più essere “produttivi”, ma nei fatti non si produce più nulla, se non nel terzo mondo. Piuttosto si fa circolare il valore, si alimentano le vene del mercato facendo transitare merci. La produttività reale è smarrita come referente ed è sostituita con una buzzword che ha la funzione di un riflesso condizionato per cui immolarsi. Non per la produttività reale, da bravi stakanovisti, ma per la produttività astratta, che è l’altro nome del profitto speculativo.

Il lavoro come prestazione

Il lavoro s’è trasformato da produttivo a pura occupazione o prestazione di servizio – è l’approfondirsi del capitale da sistema economico a sistema di dominio. La vera natura del lavoro si svela nel servizio, il terziario è la testa rovesciata su cui cammina il capitale. La terziarizzazione del lavoro esprime l’essenza reale del lavoro: il lavoro come pura prestazione di tempo, come furto di tempo e controllo minuzioso delle forze. Prestazione è un termine ambiguo, tripartito: se da un lato essa indica la pura e semplice occupazione del proprio tempo attraverso il lavoro astratto, molto spesso inutile, dall’altro ne evidenzia la sostanza, ovvero il lavoro come prestito della forza lavoro per avere in cambio una contropartita del capitale, e la modalità, cioè il lavoro come autosfruttamento delle forze, come prestazione e ottimizzazione di sé.

In quanto sistema di dominio, s’approfondisce approfondendo il commitment dell’individuo al suo lavoro – pura business ontology, per la quale risulta impossibile considerare qualsiasi cosa, persino sé stessi, al di fuori dell’ottica imprenditoriale[2]. In effetti la ritotalizzazione del lavoro, il tentativo di conferire un volto umano e amicale al lavoro, il variare di task e di mansioni, funziona psicologicamente come un’arma affettiva. Ma più profondamente è il precariato materiale che obbliga al servizio, a una forma apparentemente pre-industriale, feudale del rapporto di lavoro – le Big Four funzionano come famiglie mafiose o gruppi clanici in cui non è il salario ciò che innanzitutto lega i dipendenti, ma il commitment al progetto, il senso d’appartenenza (col connesso senso di superiorità individuante).

La ritotalizzazione del lavoro funziona secondo tre assi:

  1. Asse cognitivo, dell’apprendimento continuo o della crescita professionale, per cui il lavoro diventa una seconda, terza, quarta, n scuola, in una spirale d’automiglioramento, d’ottimizzazione: «così come l’impresa sostituisce la fabbrica, la formazione permanente tende a sostituire la scuola, e il controllo a sostituire l’esame»[3]. Ma se la scuola, l’apprendistato, la fabbrica professionalizzavano e qualificavano attraverso il loro esercizio individuante[4], ora non si tratta più di inquadrare secondo una funzione un individuo, bensì di saturare il tempo e le forze attraverso contenuti – è l’informatizzazione dell’individuo in dividuo.
  2. Asse emotivo, per cui al lavoro si va con un sorriso e per cui il pensiero positivo, oltre a migliorare l’umore del team, migliora la prestazione. L’accurato managing emotivo è il complemento della somministrazione farmacologica. Come scrive Byung-Chul Han: «al posto del management razionale subentra il management emotivo. Il manager dei nostri giorni si lascia alle spalle il principio dell’agire razionale e assomiglia sempre più a un trainer motivazionale. […] Le emozioni positive sono il fermento della crescita motivazionale»[5]. Più in generale è tutta una simbologia che cambia: dal padrone al datore di lavoro, dal lavoro come sfruttamento al lavoro come dono, dal salario strappato al salario donato[6]. In ogni caso si tratta di rimuovere il conflitto, di stemperare la tensione, di coprire col sorriso la morte lente somministrata attraverso lo sfruttamento.
  3. Asse topologico-temporale, per cui il lavoro si fluidifica nel tempo e nello spazio, s’infila nel privato col telelavoro e con l’orario flessibile. Tempo libero sottratto per il lavoro, tempo libero indifferente al tempo di lavoro, tempo libero come equazione all’interno del paradigma del lavoro (tutta la hustle culture e il desiderio d’ascesi e automiglioramento vanno in questa direzione). Gli spazi cambiano, e non solo nel senso che le fabbriche delocalizzano e si spostano nel terzo mondo: è tutta una progressiva aziendalizzazione di ogni settore della vita sociale, dalle istituzioni pubbliche alla vita privata, che è investita – gli ospedali non assomigliano più a prigioni e a scuole, ma a uffici, e gli uffici sono ben serviti da spazi di riposo dove consumare la propria pausa. Ma al contempo s’assiste al camuffarsi dei luoghi di lavoro in luoghi di gioco, la gamification della vita lavorativa, il fantacalcio aziendale, il buddy program, gli eventi intraziendali per aumentare il retention e bloccare le temibili Grandi Dimissioni, il ritaglio di spazi ludici.

In tutti i casi si tratta di controllare e motivare, di ottimizzare. Questi assi producono una linea di soggettivazione, un ennesimo asse, ma interiore, attraverso cui l’individuo aderisce alla mission aziendale interiorizzando la massima della prestazione, reificando sé stesso come businessman il cui scopo principale è quello di vendersi nel mercato del lavoro. La ritotalizzazione del lavoro funziona come ottimizzazione del lavoratore, come pratica di controllo ed estrazione delle sue risorse psicofisiche.

Ma la ritotalizzazione non può funzionare come prestazione se la condizione materiale non ne accompagna il progetto: se l’individuo fosse sicuro dell’occupazione, dell’indeterminatezza del suo lavoro, se fosse sicuro della stabilità, non attecchirebbe nell’inconscio così come vi attecchisce. Vi attecchirebbe, probabilmente, ma in maniera diversa, come attecchiva la macchina nell’inconscio di Lulù ne La classe operaia va in paradiso. L’ontologia imprenditoriale viene interiorizzata solo se il precariato diventa materiale e anti-sociale, se il precariato diventa non soltanto la condizione economica oggettiva, ma la condizione esistenziale dell’individuo. È il paradigma sociale che muta: La classe operaia va in paradiso presentava la violenza della macchina e le impietose vie di fuga che sindacati, movimento studentesco, movimento operaio e famiglia consentivano. Linee di fuga costitutivamente bloccate, catturate, ma che alonavano l’esistenza operaia, che consentivano di sognare di spaccare a testate il muro disciplinare per giungere al di là e occupare lo spazio nebbioso del paradiso. Ma non siamo più in una società disciplinare, e con essa le stesse problematiche linee di fuga s’atomizzano insieme ai muri: «la società del XXI secolo non è più la società disciplinare ma è una società della prestazione. I suoi stessi cittadini non si dicono più “soggetti d’obbidienza” ma “soggetti di prestazione”. Sono imprenditori di se stessi»[7].

Il disoccupato e l’occupazione del tempo libero

Nemmeno il disoccupato può sfuggire al paradigma prestazione: se non lavori è perché hai mancato la giusta forza di volontà, o perché non ti sei adeguato. Il disoccupato presta il suo servizio lavorando come freelancer o manager d’immagine, confezionando CV e preparando colloqui con task e test, riorientando il suo tempo libero verso l’inserimento improduttivo. Avrà mostrato abbastanza commitment, abbastanza resilienza e sarà ricompensato. Oppure dovrà volgersi alla gig economy, sottoproletarizzarsi[8]. In ogni caso non si sfugge alla macchina: è l’estensione del dominio della lotta, l’ampliarsi del lavoro come semplice controllo, l’infiltrarsi del paradigma della performance e della prestazione nel tempo libero.

Ma anche il tempo libero diventa servizio: se anche il consumo coincide con la prestazione, esso deve divenire materia per l’estrazione del valore – e in effetti il consumo di contenuti sulle piattaforme, a esempio, non è un semplice consumo privato, in cui l’individuo blocca la circolazione del valore nel suo cantuccio individuale: egli è continuamente individuato, il suo comportamento è tratto e modellizzato, la sua prestazione gratuita serve da materia per estrarre del valore. L’individuo è fatto in toto dividuo da cui estrarre un «surplus comportamentale» durante il consumo e da sfruttare produttivamente durante il lavoro. Nel tempo libero passato sul web, come scrive Shoshana Zuboff, «non siamo più il soggetto e nemmeno, come ha invece affermato qualcuno, il prodotto delle vendite di Google. Siamo invece gli oggetti dai quali vengono estratte le materie prime, espropriate da Google per le proprie fabbriche di previsioni»[9]. Più in generale è tutto un sistema di controllo della noia, atto a scongiurare la noia, che colonizza il tempo libero e lo riempie di micro-stimoli e informazioni:

The dreary void of Sundays, the night hours after television stopped broadcasting, even the endless dragging minutes waiting in queues or for public transport: for anyone who has a smartphone, this empty time has now been effectively eliminated. In the intensive, 24/7 environment of capitalist cyberspace, the brain is no longer allowed any time to idle; instead, it is inundated with a seamless flow of low-level stimulus.

(Fisher, M., “No one is bored, everything is boring” (2014), in The collected and unpublished writings of Mark Fisher (2004-2016), ed. By D. Ambrose, Repeater, London 2018, p. 550)

Il tempo libero come un rumore di fondo perenne che zombifica la noia: se tutto è noia, nulla è noia, e viceversa. Si tratta di non lasciare mai respirare l’individuo al di fuori del controllo, di monitorarlo per ottimizzargli l’esperienza (anche nel lavoro, quando si gamifica la mansione o si flessibilizza il turno o s’introduce il telelavoro), ovvero per ottimizzare il suo sfruttamento. Il precariato materiale è la controparte del controllo.

Dal punto di vista esistenziale l’individuo vive l’astrazione al massimo grado – astrazione del tempo libero, in cui il consumo è costantemente monitorato attraverso modelli cognitivo-comportamentali che targettizzano il consumatore e retroagiscono sul suo desiderio, manipolandolo; astrazione del tempo lavorativo, che nella sua improduttività essenziale lo avvicina al tempo libero, finanche sfumandone i confini, le separazioni. Se il lavoro s’approssima al tempo libero non è per trasformarsi in liberazione, non accade alcuna disalienazione, alcuna riappropriazione. Piuttosto è per approssimarsi all’indeterminazione, per approfondire il suo controllo, la sua essenza di pura prestazione.

È l’inquietante cambio di paradigma dal lavoro come produzione al lavoro come prodotto: «il lavoro è diventato come la sicurezza sociale, come i beni di consumo, un bene di ridistribuzione sociale. Paradosso enorme: il lavoro è sempre meno una forza produttiva e sempre più un prodotto»[10]. Si amministrano l’occupazione e la disoccupazione come si trattasse di un bene, perché in fondo è chiaro che sono termini interscambiabili. Non che non abbiano una funzione economica, i tagli al personale come aumento delle marginalità, eccetera, (se un sito “produttivo” e in utile licenzia è perché non è la logica concreta della produzione e della crescita materiale a interessare, ma la rapina e l’esproprio, il profitto astratto ed economicista).

Eppure funzionano anzitutto come strumenti di controllo politico, come estensione del dominio. Se c’è qualcosa che va conservato a tutti i costi nel delirio del Poscritto sulle società di controllo di Gilles Deleuze è esattamente questa capacità d’intuire il rovescio kafkiano nell’apparente ampliamento delle libertà. Ma bisogna farlo camminare dritto, questo Poscritto, il controllo, poiché esso non può esercitarsi se non fondandosi sul controllo materiale delle condizioni, se non attuando una reale e materialistica infiltrazione ed estrazione. Quando Byung-Chul Han critica al Poscritto di prendere in considerazione soltanto l’aspetto repressivo e negativo della nostra società, di non intuirne l’aspetto implicitamente iperproduttivista[11], dice il vero, ma considera ancora troppo reale questa produzione, confonde il discorso ideologico, la manipolazione psicopolitica, con la condizione materiale. Il controllo riesce a infilarsi nell’individuo perché il software umano riesce a essere riprogrammato attraverso l’ode all’ottimizzazione e al monologo della prestazione che produce il commitment. Ma questo commitment, questa nuova psiche totalmente spoglia di sé e rattrappita sulla prestazione è condizionata dal fatto materialmente cogente dell’esistenza precaria, dall’esperienza oggettiva di spazi di miglioramento e monitoraggio, dall’estrazione continua di plusvalore dal semplice essere-al-mondo dell’individuo. Il controllo anticipa il discorso ideologico, ma si perfeziona e concretizza attraverso la sua interiorizzazione.

Il gioco è truccato

Dal punto di vista materiale è uno slittamento del processo produttivo a rendere il lavoro semplice prestazione, a precarizzarlo. Parlando dell’automazione, Herbert Marcuse scrive: «dovesse mai divenire il processo di produzione materiale, l’automazione rivoluzionerebbe la società intera. La reificazione della forza lavoro umana, portata alla perfezione, spezzerebbe la forma reificata, tagliando la catena che lega l’individuo alla macchina, […] l’automazione integrale nel regno della necessità farebbe del tempo libero la dimensione in cui primariamente si formerebbe l’esistenza privata e sociale»[12].

Eppure il tempo libero determina già oggi l’orizzonte dell’esistenza privata e sociale, senonché i suoi confini si confondono e collassano nel tempo lavorativo e nella prestazione. La chiusura dell’individualità, della personalità nel tempo libero, la privatizzazione dell’individuo, è in realtà l’effetto del processo d’automazione ingenua e capitalista, laddove il controllo delle macchine rimane politico e con esso la loro funzione di controllo. Per realizzarsi, l’automazione deve passare attraverso lo sfruttamento totale dell’uomo, della sua forza lavoro, deve passare attraverso la reificazione, l’oggettivazione della forza lavoro umana, che per miracolo dialettico, portata alle sue estreme conseguenze, spezzerebbe la sua forma reificata, tagliando la catena che lega l’individuo alla macchina. Ci fidiamo abbastanza della dialettica da sacrificare la forza produttiva nell’implementazione macchinica? Giungere all’esproprio totale delle proprie facoltà, all’alienazione completa per godere l’oblio del non-lavoro? Il gioco è in realtà truccato, il processo d’automazione catturato dagli interessi privati non è che un’estensione del sistema di dominazione.

L’automazione sotto il capitalismo rende dispensabile la forza umana specifica, l’individualità come tale, accontentandosi della sua forma astratta – il data labeling, lavoro meccanico e ripetitivo in cui si etichettano e pre-elaborano le informazioni rozze da sottoporre alle IA per incrementarne le capacità, è il paradossale simbolo dell’approssimarsi dell’uomo alla macchina per rendere la macchina simile all’uomo. Attraverso questo lavoro macchinale e astratto si nutre la macchina che rimpiazzerà i lavoratori – un sogno, se non fosse che non li si lascerà in pace a consumare, e se li si lascerà, sarà per estrarre nuovi dati e ricucire nel sistema di dominazione il loro tempo libero. Viviamo in un tempo paradossale in cui i compiti creativi come il copywriting sono attuati dalle IA, mentre il lavoro più umiliante e ripetitivo è lasciato alla forza lavoro umana. È un doppio ricatto: da un lato il processo d’automazione dispensa dal lavoro, ma dispensando dal lavoro rende inattuabile una contrattazione forte della propria forza lavora; dall’altro ricattura nel lavoro attraverso uno sfruttamento imbecille e macchinico, intensificando la miseria.

Evidentemente ogni neoluddismo risulta velleitario e si scontra con la potenza oggettiva del processo d’automazione. Piuttosto, questo benedetto processo d’automazione richiede uno spostamento della lotta di classe su terreni cibernetici: innanzitutto come riappropriazione del tempo libero – liberare il tempo libero dall’utilitarismo dataista, dal monitoraggio continuo. Riappropriazione del consumo libero e nascosto, e non falsa riappropriazione dei dati, non libera scelta di essere monitorati, non compenso per lo sfruttamento dei propri dati, giacché questo non altererebbe la logica di sfruttamento, ma l’approfondirebbe attraverso il consenso. In secondo luogo è sulle stesse strutture della rete, in contesa con le piattaforme, che devono concentrarsi le rivendicazioni, sulle infrastrutture che permettono all’informazione di circolare. Un’automazione oggi è necessariamente informatica o non è: la proprietà delle informazioni e delle macchine, la loro democratizzazione, viene prima ancora della socializzazione delle macchine produttive, giacché è attraverso quelle che si controlla il consenso, il dibattito, il tempo libero, è in quella dimensione che si ripiega la formazione dell’individualità sociale.

Liberare il tempo libero dal controllo, certo: su internet mascherarsi con VPN, usare TOR, non postare nulla, non essere mai ripresi, divenire impercettibile, autenticamente invisibile. Ma non è soltanto questo: liberare il tempo libero dal controllo significa anche decolonizzarne l’immaginario – se il tempo libero resta parassitato dalla prestazione, dall’ottimizzazione di sé, dalle pubblicità, se il tempo libero è sempre e soltanto il rovescio dell’infrastruttura libidinale lavorativa, allora l’automazione, l’accelerazione non hanno senso. Ritornare alla noia, all’ozio: «stay in bed, float up stream», cantavano i Beatles. Ma ciò necessita di una condizione di realtà alquanto materiale, che il precariato lavorativo si sgretoli, o che perlomeno non costituisca l’orizzonte esistenziale ma soltanto il fastidio dettato da un’economia imperfetta.

Mark Fisher connette spesso la possibilità delle sperimentazioni esistenziali e culturali concesse alla working class negli anni ’60 e ’70 con specifiche pratiche economiche alquanto contingenti: le borse di studio per frequentare le art school, il potere d’acquisto della classe operaia, l’esistenza di un’economia parallela che non si basasse sul profitto, lo squatting come modo della quotidianità domestica extra-borghese, l’utilizzo di droghe psichedeliche come modalità chimica di alterazione della coscienza[13]. In generale, è la possibilità materiale di vivere il tempo libero come veramente alternativo al lavoro, come spazio esterno al lavoro e al profitto – il disinnesco del lavoro come unico modo di remunerazione e la conseguente rottura del rapporto apparentemente necessario fra vendita della forza lavoro e salario. In questa prospettiva, il reddito universale può porsi come strumento di liberazione del tempo libero, come condizione materiale su cui istituire il tempo libero come «dimensione in cui primariamente si formerebbe l’esistenza privata e sociale», prospettato da Marcuse.

L’astrazione del lavoro

Abbiamo insistito sull’astrazione esistenziale del lavoro contemporaneo, ma nei fatti che significa? Come funziona materialmente?

«Il lavoro è senza rapporto con una produzione determinata»[14]. In questo senso è astratto – non solo perché il cognitariato aumenta le sue fila, ma perché il lavoro nella sua forma specifica e produttiva si polverizza. Non bisogna nemmeno essere un consulente o un corporate di una multinazionale per vivere l’astrazione autoreferenziale del lavoro contemporaneo: come scriveva Vecchi, «i knowledge workers convivono con facchini della logistica, ricercatori, “creativi” e operai industriali»[15].

Un magazziniere, per esempio, vive quest’astrazione al massimo grado. Lavoro brutalmente fisico e minutamente ingegnerizzato, potrebbe apparire affratellato al lavoro produttivo dell’operaio marxiano. Eppure i lavoratori della logistica non producono niente, piuttosto facilitano il contrassegno e la circolazione delle merci, del valore: il loro lavoro, similmente alle loro condizioni, non funziona che come simulacro del lavoro di fabbrica (del resto i capannoni possono essere fabbriche, ma tutti i magazzini sono capannoni). Forse perché non produttivi, perché il loro lavoro s’applica sulla materia indifferente e astratta della merce, della merce qualsiasi, perché impossibilitati alla specializzazione tecnica di cui gli operai di produzione godono, il padronato può trattarli come un sottoproletariato itinerante, come pezzenti (BRT, Amazon, Mondo Convenienza insegnano qualcosa). Nondimeno i luoghi di massimo scontro frontale sul piano salariale sono esattamente i magazzini: gli scioperi più selvaggi, quelli più tenaci, più duraturi, e non le caricature di sciopero generale inscenate dalle sigle conniventi, sono organizzati nel settore della logistica e dei trasporti – si tratta sempre di circolazione del valore, dopamina nel sistema malato.

La terziarizzazione del lavoro implica il dileguamento del referente produttivo – esso si deterritorializza per riteritorializzarsi nel terzo mondo, ma nel primo mondo camuffa la sua sparizione con la moltiplicazione dei lavori di circolazione, con la supply chain. Baudrillard ha una prospettiva eccessivamente occidentalista: certo, da noi le fabbriche spariscono, ma per delocalizzarsi: in questo senso la sparizione del referente produttivo accade solo nel nostro immaginario, nell’inconscio sociale. La produzione esiste, con tutta la sua economia politica e i suoi scontri di classe, ma è marginalizzata, periferizzata dallo sguardo eurocentrico. La terziarizzazione svela l’essenza del lavoro come pura prestazione, ma nasconde nella neutralizzazione del business le tensioni di classe, le quali si radicano in un terreno eminentemente produttivo.

In effetti su che base i lavoratori della logistica chiedono qualcosa, rivendicano l’aumento salariale? Se non producono, il loro salario riflette solo una «sanzione dello statuto della forza lavoro»[16], non avendo alcuna referenza quantitativa nella produzione determinata. Tradizionalmente la rivendicazione salariale è la negoziazione della condizione di produttore – è la produzione d’un valore quantitativamente determinato a essere messa sul banco, una lotta circa la riappropriazione del pluslavoro estratto. Ma nella sfera della circolazione questo referente è polverizzato, e poiché niente è immediatamente prodotto, nessun plusvalore appare veramente estratto. Di qui il gioco è facile per i padroni: sanzionare col salario da fame, col CCNL Multiservizi, a esempio, il consenso alla partecipazione. Nella circolazione del valore non c’è nulla che possa equiparare facilmente la forza lavoro a una qualche referenza oggettiva, se non il cottimo e l’equazione delle merci contrassegnate, spostate, consegnate.

Se il lavoratore della logistica vede materialmente il valore fluire attraverso le sue mani (e come controcanto sperimenta la possibilità di bloccare il flusso del valore, di divenire il punto di tensione, di stazione improduttiva che deraglia il flusso del capitale), l’impiegato vive la sublime astrazione del lavoro senza referenza alcuna (nemmeno indeterminata), del lavoro come pura amministrazione delle risorse o erogazione di servizi. Come potrebbe un impiegato HR bloccare qualcosa, seminare punti di scontro, sovvertire tatticamente un ordine? Dovrebbe infilare di soppiatto spizzichi di coscienza di classe negli homeboarding? Nel lavoro d’ufficio, e in particolare nei lavori corporate, vi è l’approssimazione estrema del lavoro con la pura e semplice riproduzione amministrativa, come si trattasse di uno schema piramidale. L’ufficio HR è il cane da guardia aziendale, la chiesa della business ontology – e che sia esattamente la mansione privata in cui si preferisce assorbire quegli inutili studenti di filosofia non è da sottovalutare. Le corporate function costituiscono il più diretto investimento ideologico e affettivo del lavoratore sul lavoro, una torsione psicologica simile a quella del poliziotto che deve tutelare innanzitutto un sistema di oppressione che gli è adiacente. Tutto il lemmario manageriale, il discorso motivazionale, le pratiche di retantion e ottimizzazionederivano da questo singolare ufficio. Sarebbe necessaria una genealogia dell’HR, un lavoro di minuziosa analisi delle radici, delle derivazioni e delle exaptation, degli eventuali scontri che possono essersi giocati su questo ideologico corpo di pratiche e discorsi. Possiamo dividere euristicamente l’HR in due dipartimenti che funzionano allo stesso scopo: un ufficio tecnico-amministrativo, in cui s’amministra burocraticamente la forza lavoro (formulazione e cessazione dei contratti, elaborazione dei cedolini, delle buste paga, delle malattie, eccetera), e un altro di management emozionale, direttamente psicotecnico, che s’occupa dell’ottimizzazione della forza lavoro, di incrementare le loro performance. Se dovessimo simbolizzare la business ontology, essa assumerebbe il volto posticcio dell’ufficio di Human Capital Management di una multinazionale, tutta sorrisi e pensiero positivo, impostata sul miglioramento ascetico di sé e sull’employer branding.

È forse per la loro prossimità col potere che lavoratori così indispensabili alla riproduzione del dominio, perlomeno a livello discorsivo, non vogliono, non possono partecipare alla lotta (sarebbe come chiedere a un celerino di non manganellare uno scioperante). Eppure la loro posizione lascia presumere delle potenzialità di rivolta inaspettate, tutto un complotto dei tensori, come scriveva Lyotard, possibile: «l’interessante sarebbe restare dove siamo, ma afferrando senza rumore ogni occasione di funzionare come corpi buoni conduttori di intensità. Nessun bisogno di dichiarazioni, di manifesti, di organizzazioni, di provocazioni, e nessun bisogno di azioni esemplari»[17]. Immaginate mille cancri nei vari punti degli organigrammi aziendali che si riproducono all’impazzata come silenziosi cospiratori rivoluzionari, immaginate che le call e i follow up si trasformino impercettibilmente in consigli d’ufficio, che il Modello di Gestione dell’Inclusione, Diversità ed Equità sia in realtà un Anti-Edipo rovesciato – un giorno svegliarsi e trovarsi l’e-mail aziendale intasata di passaggi dal Libretto rosso di Mao. Sarebbe molto bello.

Rivendicare qualcosa, qualsiasi cosa

Nel suo Lo scambio simbolico e la morte, Baudrillard propone di asserire come vero ogni dettame del capitale, di accettarne il gioco per donargli come contropartita umoristica e velenosa la morte. Accelerare il processo. La premessa su cui si regge la strategia è che il potere s’esercita esattamente attraverso il dono e non attraverso l’espropriazione, la rapina:

all’economico riesce il miracolo di mascherare la vera struttura del potere rovesciando i termini della sua definizione. Mentre il potere è di donare unilateralmente […], si è riusciti a imporre l’evidenza opposta: il potere sarebbe di prendere e di appropriarsi unilateralmente. Al riparo di questo trucco geniale, la vera dominazione simbolica può continuare a realizzarsi, poiché tutti gli sforzi dei dominati cadono nella trappola di riprendere al potere ciò che questo gli ha preso, anzi di “prendere il potere” stesso – spingendo così ciecamente nel senso della loro dominazione.

(Baudrillard, J., Lo scambio simbolico e la morte, cit., p. 59.)

Sarebbe bello poter dire impunemente di accelerare il processo, che non c’è nulla da fare, che il capitalismo si autodistruggerà (se prima non distruggerà il Pianeta), ma sarebbe un modo facile di vendere la critica anticapitalista, un’integrazione psicologica che porta all’acquiescenza, alla pulizia della coscienza: sarebbe «interpassività», un modo di mettere scena una posa anticapitalista «dandoci al contempo la possibilità di continuare a consumare impunemente»[18]. Le tesi accelerazioniste sono affascinanti, ma peccano nella considerazione che il capitalismo ha un potere metamorfico e d’integrazione tale da detonare ogni contraddizione (eccetto l’irrisolta questione ecologica, il trascendentale geologico).

Seppure il potere si possa definire come la facoltà di donare unilateralmente e infinitamente, seppure questa facoltà possa forse essere la sua stessa essenza, nella pratica concreta, nella nostra vita di mediocri impiegati e fiacchi operai, di melancolici insegnanti e depressi disoccupati, si necessiterebbe una gran dose di indifferenza ascetica per non esperire il potere come rapina continua del proprio tempo e delle proprie forze. La speranza di una fine escatologica è l’ultima, meravigliosa sublimazione della nostra aggressività che il capitale mette in campo. Potremmo dire che il potere è ideologizzato come dono proprio nel momento in cui sparisce o si desidera far sparire il referente materico della produzione e della sua violenza sistematica, esattamente nel momento in cui il lavoro si terziarizza e dilegua ogni produttività reale, approssimandosi al gioco della libera impresa. Eppure lavoriamo, fatichiamo, bestemmiamo il lunedì mattina e gioiamo il venerdì sera. Il lavoro è, proprio in quanto rapito dalla business ontology, rapina ed esproprio al massimo grado.

Piuttosto che accettare l’estensione del dominio della lotta sperando in un suo umoristico rovesciamento, in una dissolvenza miracolosa, sembrerebbe che il modo più efficace per rivendicare qualcosa, qualsiasi cosa, resti classico, problematico, aporetico: l’organizzazione autonoma dei lavoratori, sia fuori che dentro le sigle sindacali – in ogni caso indipendentemente da esse. I lavoratori di Mondo Convenienza l’hanno mostrato bene: fare massa e opposizione è ancora il modo per ottenere qualcosa, per rivendicare l’aumento salariale, a esempio, cioè per rimettere sul tavolo la lotta contro l’estrazione del plusvalore, per riappropriarsi del proprio pluslavoro.

Ma quest’organizzazione deve essere autonoma, cioè deve nascere e svilupparsi localmente, dagli stessi lavoratori, nelle stesse aziende. Localmente e autonomamente significa che solo chi lavora in un determinato luogo sa dei problemi reali ed effettivi, siano essi di errato inquadramento, di turnazione massacrante, di turnover strategico, di mobbing, di ristrettezza salariale, eccetera. Non significa che non si debbano intersecare le lotte, che non si debba puntare più in alto, a un’unità di intenti, ma significa che, innanzitutto, non è da un inesistente partito o da un fantomatico sindacato che emergerebbe la coscienza di classe (nemmeno da questa rivista), ma dall’esperienza concreta dello sfruttamento, dal reale coinvolgimento nell’oppressione quotidiana. Le soluzioni seguono.

Dal punto di vista dello scopo unitario, se dovessero unirsi le lotte locali in una rivendicazione globale, per espropriare qualcosa al capitale, la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario e il reddito universale sarebbero l’obiettivo migliore per capovolgere il problema dell’automazione e del tempo libero. Innanzitutto la riduzione dell’orario si porrebbe in diretto contrasto con l’estrazione del plusvalore e col paradigma della scarsità, liberando un po’ di tempo al consumo autonomo, ai capricci individuali – riportare il tempo, la sua aritmetica oggettività, come centro dello scontro, liberare il tempo libero dal suo legame col lavoro, come riproduzione della forza lavoro. Il tempo libero serve all’individuo, ai suoi desideri più che ai suoi bisogni, al suo gioco più che al suo dovere. C’è una geometrica sublimazione sessuale nel lavoro, una repressione del principio del piacere che castra i desideri e rimodula i comportamenti – non per la produttività, o per l’utilità si impongono le otto ore di lavoro per cinque giorni la settimana, ma per controllare le forze e reprimere il desiderio, perché godere non stanca, arricchisce, allontana dal commitment e dall’adesione attiva al sistema di sfruttamento.

In secondo luogo, il reddito universale slegherebbe dall’obbligo al lavoro e volatizzerebbe il problema della precarietà: tutto un diverso modo di intendere il lavoro e il tempo libero emergerebbe, una nuova assiologia del lavoro – lavori pesanti e malretribuiti sarebbero disertati e i padroni sarebbero costretti a far schizzare i salari, o forse questi lavori sparirebbero, chissà. L’individuo non legherebbe più la sua identità al lavoro, piuttosto il lavoro si ricalibrerebbe sulla base dell’uomo (forse nemmeno sulla base dei suoi bisogni, quanto sulla base del suo piacere). In ogni caso avremmo l’imprenditore di turno che frigna sul Corriere perché non trova lavoratori, e un po’ ne goderemmo.


[1] Baudrillard, J., Lo scambio simbolico e la morte (1976), tr it. di G. Mancuso, Feltrinelli, Milano 2015, p. 42.

[2] Cfr. Fisher, M., Realismo capitalista (2009), tr. it. di V. Mattioli, Nero Edizioni, Roma 2018, p. 51.

[3] Deleuze, G., “Poscritto sulle società di controllo” (1990), in Pourparler, tr. it. di S. Verdicchio, Quodlibet, Macerata 2019, p. 236.

[4] Cfr. Foucault, M., Sorvegliare e punire. Nascita della prigione (1975), tr. it. di A. Tarchetti, Einaudi, Torino 2014, p. 176.

[5] Han, B.-C., Psicopolitica (2014), tr. it. di F. Buongiorno, Nottetempo, Milano 2018, p. 58.

[6] Baudrillard, J., Lo scambio simbolico e la morte, cit., p. 59.

[7] Han, B.-C., La società della stanchezza (2010), tr. it. di F. Buongiorno, Nottetempo, Milano 2013, p. 21.

[8] Un meraviglioso contributo allo studio del digital labor è stato recentemente pubblicato dalla Fondazione Feltrinelli: Pirone, M. (a c. di), Ultimo miglio. Lavoro di piattaforma e conflitti urbani, Feltrinelli, Milano 2023, ed è scaricabile gratuitamente qui.

[9] Zuboff, S., Il capitalismo della sorveglianza. Il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri, Luiss, Milano 2019, pp. 104-105.

[10] Baudrillard, J., Lo scambio simbolico e la morte, cit., p. 42.

[11] Han, B.-C., La società della stanchezza, cit., p. 22.

[12] Marcuse, H., L’uomo a una dimensione (1964), tr. it. di L. Gallino e T. Giani Gallino, Einaudi, Torino 1999, p. 50.

[13] Fisher, M., “Acid Communism (Unfinished Introduction)”, in The collected and unpublished writings of Mark Fisher (2004-2016), cit., pp. 758-761.

[14] Baudrillard, J., Lo scambio simbolico e la morte, cit., p. 32.

[15] Vecchi, B., Scritti (1990-2020), a c. di S. Bianchi, DeriveApprodi, p. 82.

[16] Baudrillard, J., Lo scambio simbolico e la morte, cit., p. 32.

[17] Lyotard, J. F., Economia libidinale (1974), PGreco, Milano 2012, p. 283.

[18] Fisher, M., Realismo capitalista, cit., p. 44.

Mattia Brambilla

Sono laureato in filosofia presso l'Università degli Studi di Milano; amo il pensiero e le lettere, scrivo e mi diletto con gli scacchi.

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