L’invenzione dello Stato

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Quella di “Stato” è una categoria culturale consolidata, attorno a cui è imperniata la stessa nozione di Occidente. Identificare lo stato-nazione come contenitore concettuale, materiale e socio politico non è solo un processo sostanzialmente immediato nella mente di ogni persona correttamente inculturata, ma è anche la premessa di partenza necessaria per abitare adeguatamente il presente in qualità di individui.

L’impalcatura concettuale attorno a cui è imperniato lo stato-nazione così come lo intendiamo oggi si dimostra abilissima nel celare la propria origine storicamente collocata e culturalmente determinata, al punto da riuscire a inscriverci in un orizzonte necessitato, impermeabile a qualsiasi possibile obiezione. Ma cosa comporta oggi, concretamente, essere individuocittadino e consumatore, in un mondo di stati nazionali i cui rassicuranti confini ci appaiono sempre più porosi, ambigui, valicabili?

Lo Stato come categoria culturale

Pensare lo Stato, a partire dalla pace di Vestfalia del 1638, è progressivamente venuto a coincidere con il pensare noi stessi all’interno di un confine territoriale determinato, che coinciderebbe con un confine amministrativo; vuol dire pensarci parte di un gruppo nazionale più o meno esteso con il quale, presumibilmente, condividiamo una serie di tratti identitari, funzionali all’esistenza dello Stato stesso, che identifichiamo come “nazionalità”. Entro i propri confini territoriali e amministrativi, di fatto immaginari ma fattivamente capaci di incidere sulle nostre esperienze di vita, gli stati esercitano la propria sovranità, liberi dalle ingerenze di altri stati.

È solo all’interno dell’edificio ontologico posto in essere dalla concezione contemporanea di Stato che è possibile costruire identità individuali. La stessa nozione di persona come individuo, immaginata quale premessa universale nella produzione di leggi a tutela della civilizzazione, non avrebbe alcun significato se non inscritta all’interno di una cornice statale. Cittadino, quantomeno in via teorica, è infatti colui che appartiene legittimamente alla comunità statale e può attivamente esserne parte, accedendo a una serie di privilegi, diritti, doveri e tutele, conferitegli dall’istituto della cittadinanza

In questo senso, la comunità statale appare reale e ontologicamente prioritaria all’individuo, nella misura in cui la stessa nozione di individuo tutelato da diritti esiste solo all’interno dello Stato. In altre parole, lo Stato ha un potere essenzialmente creativo ed effettuale, in quanto capace di produrre prototipi specifici di individuo essenzialmente simili tra Stato e Stato, garantendone però l’effettiva tutela solo se inseriti all’interno della cornice della cittadinanza. 

Ragione cartografica e strategie di controllo

Affinché tale immenso potere possa agire fattivamente sulle vite degli individui è necessario tuttavia effettuare un semplice ma fondamentale passaggio logico. Quando pensiamo lo Stato, infatti, come suggerisce il geografo Franco Farinelli, la materialità multidimensionale e necessariamente contingente della Terra che ci ospita si sostituisce automaticamente alla bidimensionalità statica e nitidissima di una mappa geografica. Attraverso quell’impianto epistemologico nato insieme alla modernità europea che Farinelli definisce “ragione cartografica” (Farinelli, Critica della ragione cartografica, 2009), l’umano (uomo bianco occidentale) diventa osservatore neutro, estraneo ai fatti di questo mondo di rigide linee d’inchiostro; un mondo fattosi computabile, razionale e, di conseguenza, facilmente ripartibile entro confini più o meno arbitrari.

Una volta definiti i confini, si rende però necessario l’uso di dispositivi di controllo che siano efficaci e traslabili ovunque, affinché la linearità astratta della carta possa essere trasferita alla concretezza composita della vita vera. In accordo con la capacità mistificatrice della cultura (Bourdieu, La distinction, 1979), il sociologo irlandese Benedict Anderson evidenzia l’importanza di tutti quei processi mitopoietici di prospettive, credenze, immagini, narrative, pratiche e complessi valoriali che concorrono a cementificare l’idea di nazionalità. La nazione, sostiene Anderson, sarebbe infatti una “comunità immaginata” (Anderson, Imagined Communities, 1983), la cui esistenza sul piano del reale è possibile solo attraverso la creazione e perpetuazione di un solido senso di appartenenza identitario verso la comunità stessa, edificato a partire dalla condivisione di tradizioni (non importa che siano autentiche o fabbricate post hoc), memorie collettive, codici comunicativi e simboli.   

Tale corpus materiale e immateriale svolge una doppia funzione: da un lato, contribuisce a celare la storicità specifica propria dell’idea di Stato, descrivendolo invece come fatto essenzialmente naturale, collocato in una dimensione sospesa a metà tra una storiografia reinventata e il mito; dall’altro, costruisce un’identità comunitaria fondata sull’originalità e la differenza da altre comunità analoghe. Con lo stato-nazione i confini cessano di essere solo segmenti arbitrari funzionali alla mera ripartizione amministrativa: il confine è ciò che divide noi, protagonisti di rappresentazioni etnocentriche solitamente positive e di auto-assoluzione, da generici altri, caratterizzati in primo luogo dall’essere tutto quello che noi non siamo. 

Stato, corpi e identità

A questo punto, una volta assicurata una certa fidelizzazione in quanto fatto naturale e motivo di identificazione, la costruzione statale moderna ricorre nuovamente a modelli empirico-scientifici di astrazione, razionalizzazione e, di conseguenza, controllo del reale. In particolare, come teorizzato da Foucault, la biopolitica è lo spazio materiale e di significato in cui il potere sovrano, rappresentato come esterno, invisibile ma dotato di capacità panottiche (Foucault, Sorvegliare e punire, 1975), agisce sui corpi e attraverso i corpi. 

Parlare di Stato, infatti, significa necessariamente parlare di corpo, perché proprio dal controllo dei corpi dei cittadini si genera il potere statale. Attraverso l’uso di tecnologie di controllo e classificazione dei corpi, infatti, gli stati-nazione traspongono le esistenze in statistiche, in funzioni delle quali orientare il proprio operato. In questo senso, la conoscenza si traduce direttamente in potere positivo, non solo in quanto permette di sviluppare strategie di sorveglianza più precise, ma anche e soprattutto in quanto mezzo fondamentale attraverso cui produrre narrazioni e modelli prototipici. In accordo con la tesi di Foucault, i cittadini dello stato panottico, consci della disamina costante ma invisibile cui sono sottoposti, regoleranno in autonomia il proprio comportamento, in funzione dell’habitus incorporato che hanno progressivamente appreso. Si generano quindi corpi disciplinati, standardizzati, controllabili in quanto ripartibili all’interno dei canali di conoscenza-e-potere di cui lo Stato si serve.

Inventare le donne

In particolare, prerogativa dello Stato è produrre modelli irregimentati di donna. Il corpo femminile è proposto come naturale e più immediata rappresentazione metaforica dello Stato, si pensi all’immagine della Marianne per la Francia o alla Statua della Libertà come corpo di donna che incarna gli Stati Uniti. In questo senso, metafore che accostano la guerra allo stupro assumono una valenza profondissima sia in senso allegorico,  sia letterale. Infatti, oltre che metafora, il corpo di ogni donna è anche metonimiasta per lo Stato, in quanto lo Stato si estrinseca nel controllo della natalità, sia come mezzo di preservazione di un determinato fenotipo (da cui il timore ancestrale dello stupro di guerra come mezzo di “sostituzione etnica”), sia come propugnazione di specifici modelli familiari proposti come “naturali”. 

Sempre attraverso il solito meccanismo di neutralizzazione dello spazio condiviso, l’apparato statale con un doppio movimento propone (e sacralizza) come positivi e naturali modelli femminili funzionali alla sua preservazione e prosperità e mette al bando, invece, i corpi indisciplinati, spesso associandoli a quella generica alterità tanto temuta. Alterità che, in un presente di confini che si fanno labili, non più così rassicuranti in quanto non più riconoscibili come netti e assoluti, si sovrappone all’immagine di migrante. 

Cittadini e migranti

In un mondo di stati-nazione in cui la definizione di confini e di identità nette è necessaria alla stessa esistenza logica dello Stato come categoria culturale, l’antitesi del cittadino contemporaneo è rappresentata dal migrante. Eppure il cittadino stanziale e la persona migrante sono in realtà il prodotto sincrono e parallelo dello stesso meccanismo di costruzione sociale.

Posto che il fenomeno migratorio sia sempre appartenuto all’umanità, l’immaginario di recente invenzione della persona migrante come minaccia all’integrità statale è in realtà un prodotto della concezione moderna di nazione e nasce insieme all’immagine del cittadino. Infatti, è proprio nell’atto di conferire diritti e valenza sociale all’individuo in quanto membro stanziale della comunità, facendone quindi un cittadino, che si genera anche la persona migrante, caratterizzata invece dalla mancata concessione di una cittadinanza specifica e da una condizione di mobilità costante, generata proprio dall’impossibilità di ottenere tale statuto. 

E tuttavia, sebbene fenomeni come la globalizzazione e la conseguente comparsa di un ethos capitalista relativo al superamento dei confini sembra effettivamente contribuire alla progressiva erosione della stanzialità e dell’appartenenza locale identitaria come caratteristiche essenziali della nozione di cittadino, tale categoria non ha affatto cessato di esistere. 

Al contrario, come sostiene l’antropologo norvegese Thomas Hylland Eriksen, essere cittadini in un presente neoliberista significa primariamente essere produttori e consumatori: è, infatti, la capacità di contribuire attivamente a un’economia in costante divenire a consentire l’effettivo ingresso nella comunità statale. In questo senso, prosegue Eriksen, i migranti rappresentano quell’eccesso di popolazione che, in quanto materialmente impossibilitata a contribuire all’economia di uno Stato, è condannata, paradossalmente, a una condizione di sostanziale invisibilità e immobilità (Eriksen, 2016). Una non-esistenza civile in quanto non-partecipazione alla produttività, un ristagno indefinito negli spazi materiali e immateriali di sospensione della democrazia, dove non esistere come cittadino-consumatore equivale al non essere tutelati dallo stato di diritto.

Un gioco di specchi

La naturalizzazione della categoria culturale di Stato in senso moderno e contemporaneo, e lo specifico campionario immaginifico che porta con sé, è uno tra gli esempi più significativi del sottile ma efficace gioco di specchi a cui la cultura ci sottopone quotidianamente. Procediamo con convinzione (e non senza una vena di rassegnazione) verso una verità che ci appare solida e incontrovertibile, per poi schiantarci d’improvviso contro una superficie vitrea che ci restituisce l’immagine, forse distorta, forse inquietantemente precisa, di quell’unico elemento effettivamente innegabile cui potremo mai giungere: noi stessi. 

Mariagiulia Gargiullo

Nata a Brindisi nel 2002, studia Antropologia, religioni e civiltà orientali all'università di Bologna. Interessata in particolare all'econtransfemminismo e alle filosofie non occidentali, sogna di vivere come Laura Ingalls de La casa nella prateria, ma leggendo Mark Fisher e Donna Haraway.

1 Comment

  1. Buondì 😉

    L’articolo affronta un tema interessante e demolisce di fatto qualcosa che culturalmente si da per scontato e scontato non lo è affatto.
    Oggi pensiamo all’Iran, all’Iraq, alla Libia, come stati, e come tali pensiamo agli Iracheni, gli Iraniani, i Libici; ma solo un secolo e mezzo fa come li avremmo pensati?
    Avremmo pensato a delle tribù nomadi che si muovono in un ampissimo territorio, non certamente concepibile come ”Stato” con loro ”Cittadini”.
    Sappiamo tutti che i confini di quelle terre sono stati tracciati da gente che neanche le frequentava come linee rette sulla base di accordi internazionali, oggi li chiamiamo ”Stati” ma in mezzo c’è una forzatura colossale.
    Forse anche ciò che sta accadendo proprio oggi in Palestina lo possiamo legare a questo discorso, settanta anni fa chi abitava lì era un popolo? O erano solo ”persone” su un territorio?
    Ed oggi? Sono un popolo o solo un insieme di persone oppresse e scacciate da un territorio?
    Il discorso sul cittadino consumatore riguarda gli Stati moderni, ma non gli Stati in generale, e forse neanche tutti gli Stati moderni, è però interessante visto in questa ottica.

    L’unica nota che mi permetto di fare sull’articolo è che laddove si vuole fare divulgazione ci vuole anche attenzione quando si utilizzano termini settoriali, specialistici: metonimia, biopolitica, non dico di non utilizzarli, ma nel momento in cui lo si fa sarebbe corretto mettere una parentesi successiva e chiarirne il significato.

    Un saluto.
    Manlio Pasquali

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