/

Il tempo dell’iperpolitica

7 minuti

Crisi della democrazia, crisi della politica e dell’azione collettiva, crisi dei corpi intermedi, la crisi appare da decenni un orizzonte di senso e una cornice diffusa di analisi della contemporaneità. I vari post-, dal post-moderno in avanti, non fanno che sottolineare come un’epoca, un mondo, o quantomeno un quadro storico sia preso in un cambiamento i cui confini, nella complessità, non si è mai in grado di delineare.

Il breve e denso saggio di Anton Jäger, Iperpolitica. Politicizzazione senza politica (Nero, 2024) tratteggia l’arco storico della rivoluzione neoliberale attraverso una nuova periodizzazione in tre fasi, il cui filo rosso è dato, da un punto di vista politologico, sociologico, storico, dalla de-istituzionalizzazione dell’azione politica collettiva. La “crisi dei partiti di massa”, e più in generale della forma-partito novecentesca, è già stata studiata. Diverso è cercare di analizzare come questo fenomeno, con le sue insite contraddizioni, si sia intrecciato alle forme d’azione politica odierne, che l’autore ascrive all’iperpolitica.

Come definirla? Dialetticamente, in continuità-discontinuità con quelle che Jäger chiama post-politica, marcanti la fine anni 80’- 90’ e gli inizi 2000, fino alla crisi del 2008, e antipolitica, il decennio populista 2018-2020. Tre periodi, tre modi in cui si è evoluto il “vecchio” mondo novecentesco, ma in cui molto è stato recuperato e trasformato. Lo schema è dialettico. Una tendenza si rivela costante: il divorzio tra politica e partito di massa, con l’apparente scomparsa di entrambi.

In questo senso, l’iperpolitica è quel fenomeno di ri-politicizzazione dello spazio, dove di nuovo pubblico e privato vengono a fondersi-confondersi, ma senza la mediazione di quei partiti di massa, fortemente strutturati per conformazione e ideologia, che garantivano la creazione e il passaggio dalla “politica” (visione d’azione collettiva) alle “politiche” (esecuzione). Iperpolitica è dunque iper, come intensificazione, accelerazione, ma anche dispersione: i temi che dagli anni 60’ giunsero in primo piano sulla scena di sinistra (il famoso personale-politico nelle varie declinazioni), e proprio negli USA con una volontà di disintermediazione che sarebbe, poi, stata assorbita dal neoliberalismo e dal web, sono tornati a occupare il dibattito in ogni ambito, in particolare mediatico, e a eccitare energie di protesta per milioni di persone (Black Lives Matter), per poi affievolirsi in breve tempo. La destra ha seguito logiche simili, come i Tea Party, per quanto i capitalisti siano sempre stati più organizzati nel controllo del potere politico; con Trump e Musk, oggi, il fatto appare evidente.

Dunque, l’autore espone due condizioni precise dello spazio e del tempo (p. 23): lo spazio è più fluido, con maggior facilità di entrare e uscire dalle istituzioni, e il tempo è contratto in logiche a breve termine. Torna così il risvolto che ha prodotto, e produce, l’accelerazione sociale, cantata dagli accelerazionisti in ottica di sinistra, ma con le sue ombre d’alienazione, soprattutto  dopo la rivoluzione digitale. Ma l’iperpolitica si differenzia e si comprende solo insieme alla post-politica e l’antipolitica. Riprendendo l’immagine del “bowling solitario” di Robert Putman, le descrizioni de Gli Anni di Annie Erneaux, le fotografie di Tillmans, la post-politica è figlia di quel processo di atomizzazione a cui è andata incontro la società globale. Ecco dunque incrociarsi un altro vettore di analisi: privatizzazione, atomizzazione, individualizzazione, fenomeni già studiati e qui nuovamente intrecciati. Crollo tendenziale delle iscrizioni a partiti e sindacati, disinteresse per la politica guardando verso l’ “escatologia” di un ordine globale e democratico, ripiegamento sull’individuo e sua valorizzazione entusiastica. Il movimento No-Global non viene analizzato. Nello stesso tempo, scivolamento delle “politiche” verso una tecnocrazia, e della politica verso una maggiore dipendenza, nel corso del secolo, dalle “pubbliche relazioni”. Non ultima, variabili economiche impattanti, qui ben approfondite, legate all’offensiva delle élite capitaliste. Ma la crisi economica del 2008 irrompe come punto di svolta. Ed è con le sue contraddizioni insanabili che il fuoco populista prende il sopravvento.

La categoria di “popolo”, da destra a sinistra, dagli Indignados ai leader di destra, torna sulla scena del mondo, ma con alle spalle il processo post-politico ormai in atto. La politica torna, ma come sua stessa negazione rabbiosa; a favorire questa torsione, c’è l’incremento dell’influenza dei social media nella vita pubblica e, soprattutto, nell’emersione dei cosiddetti “iperleader”, fortemente mediatizzati, che solo così possono garantire coesione ai loro movimenti; l’atomizzazione, infatti, ritorna con la centralità di questi nuovi mediascapes, non garantendo, però, la solida base sociale dei “vecchi” partiti. Ad oggi, il pessimismo digitale sembra tornato dopo una prima euforia.

Con una conclusione che ricorda la famosa melanconia di sinistra, intrecciando analisi economica, riferimenti letterari, politologici, sociologici, filosofici, da Laclau a Baudrillard, da Weber a Houellebecq, Anton Jäger ritrae quella febbre di energia politica mista a rassegnazione, di entusiasmo e fuga esasperata, di polarizzazione e politicizzazione che permea le nostre vite, a testimoniare come la politica non sia mai morta, né possa morire, pur in perenne crisi.

Mattia Giordano

Classe '95, milanese, laurea magistrale in Psicologia, appassionato di psicoanalisi, filosofia, teoria critica, letteratura per lo più italiana e francese. Anche di cinema e teatro, perché ci sono, e ci saranno sempre, film e spettacoli belli. Musicista e scrittore a tempo perso, si spera un giorno a tempo pieno. Ha fatto un po' di tutto, quindi, probabilmente, niente.

Lascia un commento

Your email address will not be published.

Ultimi articoli di Mattia Giordano