Nel tentativo costante di afferrare i lineamenti del tempo presente si corre spesso il rischio di affogare nella quotidianità. Un’attenzione eccessivamente incentrata sul “fatto”, sulla “breaking news” e sulla “notizia shock” può spesso portarci a confondere il fondamentale con l’effimero, l’evento radicale con l’aneddoto, il trauma con l’emotività.
È per questo che, non appena acquisiamo un grado di riflessività maggiore, notiamo la profonda differenza di intensità con cui i media trattano, oggi, la guerra in Ucraina. Nei mesi immediatamente successivi allo scoppio delle violenze, la natura traumatica dell’evento e il sapore escatologico degli sviluppi futuri permeava l’atmosfera sociale, si aveva la certezza assoluta di essere davanti ad un trauma nel senso dell’etimo greco trayma, la cui radice “tra” significa “muovere”.
Lo scorrere dei tempi e le logiche interne utilizzate dai media hanno ridotto la portata di quel contraccolpo assoluto nella coscienza occidentale a poco più che una partita di scacchi. Un “tema di attualità” è una notizia come tante, magari meritevole delle prime pagine dei giornali ma subito pronto ad essere disarcionata da temi di politica nazionale, cronaca nera, risultati sportivi e gossip.
Affinché sia possibile essere, ancora una volta, all’altezza dei tempi, è di cruciale importanza non depotenziare il significato di un evento suppostamente in grado di determinare “The return of history“. Tuttavia, il progressivo venir meno dell’immediatezza di un tale significato ci spinge nella direzione di doverci rivolgere ad una teoria in grado di fornire nuova luce alla riflessione. La domanda che ci deve motivare è, dunque, “che cosa significa fare i conti con la natura traumatica della guerra?“, domanda che deve – ovviamente – essere intesa nel senso più ampio possibile, non limitandosi a particolarità tecniche e casistiche singole.
Vienna, un secolo fa
Preoccupazioni simili alle nostre agitavano Sigmund Freud che, nel 1915, dava alle stampe le Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, un testo partorito dalla spiccata acutezza del padre della psicanalisi e progenie in toto del furore dato dallo scoppio della Prima Guerra Mondiale.
Svariati anni prima di scrivere i suoi celebri testi di intersezione fra la psicanalisi e le scienze morali (si pensi soprattutto a Il disagio della civiltà, del 1929 e a L’avvenire di un’illusione, del 1927), Freud riusciva già a tinteggiare lo spirito del suo tempo, offrendo una descrizione dell’impatto storico-culturale della guerra capace di lasciarci senza fiato per la sua attualità:
Ci sembra che mai un fatto storico abbia distrutto in tal misura il prezioso patrimonio comune dell’umanità, seminato così profonda confusione nelle più chiare intelligenze, degradato tanto radicalmente tutto ciò che è elevato.
S. Freud, Zeitgemässes über Krieg und Tod, tr. it. Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, a cura di C. L. Musatti, Bollati Boringhieri, Torino p. 35.
Secondo l’autore viennese, il sentimento fondamentale che attanaglia la società europea in guerra è quello della delusione, ad essere delusa è stata la speranza che aveva cullato l’individuo europeo fino a quel momento. Il radicale sviluppo della seconda metà del XIX secolo aveva edificato una serie di certezze che lasciavano presagire un futuro pacifico e un avvenire sereno:
Gli stessi grandi popoli, si pensava, dovevano aver acquisita tanta comprensione per ciò che fra loro vi è di comune, e tanta tolleranza per quel che vi è di diverso, da non dover più, come ancora avveniva nell’antichità classica, confondere in un unico concetto lo “straniero” e il “nemico”. Fiduciose in questa unificazione dei popoli civili, innumerevoli persone hanno abbandonato la loro casa in patria per trasferirsi all’estero, legando la loro esistenza ai rapporti di scambio esistenti tra popoli amici.
(Ivi, p. 37)
L’affresco freudiano mostra chiaramente che l’Europa viveva sogni di pace motivati dal raggiungimento di un comune livello di civiltà e dalla chimerica forza pacificatrice del commercio. L’idea stessa di una guerra brutale e fratricida sembrava impossibile, lo scontro – se inevitabile – avrebbe comunque avuto la forma di:
Una contesa cavalleresca, che doveva limitarsi a stabilire la superiorità di una delle parti, evitando possibilmente gravi sofferenze estranee a questo scopo […] una guerra siffatta avrebbe già procurato abbastanza orrori e patimenti, ma non avrebbe interrotto lo sviluppo di relazioni etiche tra i grandi individui dell’umanità, i popoli e gli Stati.
(Ivi, p. 38)
Al di là della struggente somiglianza fra le certezze della società europea nel arco 1890-1914 e quelle della più ampia “parte occidentale del mondo” nel periodo 1990-2008 (non possiamo, d’innanzi ad un parallelismo del genere, non dirci vichiani), ciò che è fondamentale afferrare, nel quadro della ricerca analitica di Freud, è il contraccolpo spirituale che ha causato il crollo di queste concezioni.
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Dicevamo in precedenza come il sentimento fondamentale prodotto dallo scoppio della guerra sia la delusione, delusione per la fine dei sogni della Belle Époque e per il venir meno del terreno su cui diverse generazioni avevano posto le radici.
Freud, da scienziato, si propone di meditare alcune “considerazioni critiche” sulla delusione, ovvero sulla distruzione di un’illusione, asserendo che tramite l’indagine psicanalitica della guerra è possibile «fornire delle indicazioni all’individuo non impegnato in combattimento sull’orientamento della vita psichica».
Così, la “critica della delusione” acquisisce la forma di un’indagine sulle cause del sentimento di delusione. La domanda freudiana è orientata in una duplice direzione: come è possibile che gli Stati, portatori di rigide norme morali all’interno, adottino comportamenti così scarsamente morali all’esterno? Quale meccanismo che agisce nella guerra è capace di trasformare i cittadini delle più progredite nazioni della civiltà umana in bestie dal comportamento brutale?
La natura genealogica della ricerca psicanalitica appare limpidamente nel momento in cui si tenta di fornire la risposta a questa domanda: gli impulsi originari subiscono una lunga serie di trasformazioni determinata dal fatto che essi sono composti da una coesistenza di moti opposti. Pulsioni originarie che, di per sé, non possono ricevere le etichette di “buono” e “cattivo” ma unicamente di “egoistiche”, vengono progressivamente rimodellate e ricostituite dalla “attitudine alla civiltà“, ovvero dalla crasi di coercizione esterna e coercizione interna (l’erotismo), in pulsioni altruistiche e sociali. La struttura della società civile e della civiltà viene, così, estratta dalla cava indefinita del fondamento pulsionale originario.
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L’errore profondo consiste nel dimenticare il fondamento pulsionale della moralità. È così che sorge – ad avviso del filosofo – la moralità repressiva, ovvero quella morale che stride con i moventi pulsionali degli uomini non a causa di un atto di malafede ma per il mancato riconoscimento dell’origine. Il risultato di questa alchimia è, dunque, il trionfo dell’ipocrisia, si richiede agli uomini più di quanti essi siano capaci di offrire. Dovremmo dunque concludere che la delusione per l’infuriare della violenza bellica è eccessivamente amplificata? Dovremmo, forse, derivare la consolante conclusione secondo cui il fragore della guerra è semplicemente lo sfogo liberatorio degli uomini dalla moralità iper-repressiva? È possibile alimentare la speranza di una ristrutturazione della morale capace di produrre una situazione di equilibrio sufficiente a salvaguardare la civiltà ed evitare qualsiasi guerra futura?
Freud, realista di atteggiamento e schopenhaueriano-nietzschiano di formazione, ci mette in guardia contro qualsiasi ottimismo e consolazione. Il medico viennese specifica, infatti, che i fenomeni psichici hanno una natura singolare per cui gli avvenimenti del passato non lasciano il campo in toto a quelli successivi, piuttosto, essi convivono e si stratificano in una edificazione progressiva che rende impossibile qualsiasi cancellazione totale. Tuttavia, la psiche non è democratica, sebbene tutti gli strati siano imperituri, essi non sono reciprocamente eguali: «accade talora che un determinato livello superiore e successivo di sviluppo non possa più, una volta abbandonato, esser nuovamente raggiunto, mentre invece gli stati primitivi possono sempre ristabilirsi: quel che è di primitivo nella psiche è veramente imperituro» (p. 46). Si comprende, allora, perché le speranze di raggiungere la pace tramite la comunione di interessi si rivelino infondate: «sembra che i popoli obbediscano per il momento più alle loro passioni che ai loro interessi. Perlopiù si servono degli interessi per la razionalizzazione delle passioni; ricorrono ai loro interessi per giustificare con questi il soddisfacimento delle loro passioni» (p. 49).
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La profonda e radicale indagine analitica lascia uno spazio flebile e disastro a considerazioni di carattere etico-normativo, lo stesso Freud – con un’onestà non comune in filosofia – ammette «a questo proposito io non so proprio cosa dire» (p. 49). Il consiglio del padre della psicanalisi si limita a «un po’ più di franchezza e di sincerità reciproca, nei rapporti degli umani fra loro, e specialmente fra governati e governanti» (ibidem). La sensazione di tristezza e desolazione che emerge dal testo freudiano acquisisce i tratti della rassegnazione (nel capitolo successivo l’autore arriva a concludere che è necessario accettare la guerra come fatto umano). Al livello di una reazione brusca ed immediata siamo portati, in forza del nostro slancio al miglioramento etico e all’edificazione di un “mondo migliore”, a rigettare con brutalità l’analisi di Freud. Tuttavia, è necessario inquadrare il testo in una più ampia dialettica, riscontrabile in diversi momenti e differenti forme attraverso la storia dell’umanità, fra le descrizioni del mondo per come esso è e i progetti su come esso deve essere, evitando qualsiasi forma di rigetto brutale e considerandolo, invece, come calco da cui è possibile – ancora una volta – ricavare un miglioramento; «d’altra parte la conservazione della civiltà, anche su una base tanto fragile, offre la possibilità di ottenere in ogni nuova generazione quella modificazione che può portare a una civiltà migliore» (p. 45).