Uno dei tratti più analiticamente interessanti, nonché socialmente divertenti, della cultura politica contemporanea è la strana convergenza di vocabolario fra sinistra e destra accompagnata, però, ad una radicale polarizzazione sui contenuti. Ovunque sembrano incontrarsi convergenze di vocabolario, atteggiamento e forma mentis fra i sostenitori di cause diametralmente in conflitto.
Emblematico di questa tendenza e del cortocircuito fra slancio tecnologico avanguardistico e supporto a forze politiche brutalmente conservatrici e reazionarie è Elon Musk. Nel 2022, The Atlantic lo definiva “un attivista di estrema destra“. Una previsione certamente azzeccata, visto il recente supporto a Donald Trump e la conseguente larghissima vittoria che lancia pienamente Musk nella vita politica americana. Esemplare dell’atteggiamento da attivista (e, nello specifico, da attivista digitale) del tycoon è stata la sua presa di posizione contro l’utilizzo del termine “cisgender”, indicato come uno slur e sanzionato come tale su X. Ciò ha ispirato The Atlantic a tornare sul tema parlando di “Emerging Bipartisan Wokeness“: esiste una tendenza che porta i conservatori ad adottare lo stesso vocabolario e la medesima attitudine degli snowflakes liberal cui solitamente si oppongono.
Eppure, questa convergenza di vocabolario e di mentalità si registra al netto di una crescente perdita di radicamento e di fiducia nelle istituzioni e nella capacità di deliberare democraticamente. Si parla la stessa lingua ma la si usa per pronunciare nient’altro che dichiarazioni di guerra. Come interpretare questo immaginario che non unisce e che, invece, genera un numero sempre crescente di fratture? Il recentissimo libro di Olivier Roy parte precisamente da questa domanda.

Il venir meno della cultura
L’applatisment du monde. La crise de la culture et l’empire de normes (tr. it. L’appiattimento del mondo. La crisi della cultura e il dominio della norma, Feltrinelli, Milano 2024, pp. 203, 20,90€) è un testo che vuole inserirsi in quella lunga e nobile storia dei saggi di critica sociale (si pensi a La Rochefaucauld, Voltaire, Krauss, Debord, Lasch e molti altri). Non propriamente filosofia nel suo aspetto teoretico, si tratta nondimeno di una famiglia di scritti che muove dall’operazione maieutica di socratica memoria nella misura in cui vuole andare ai ferri corti con una certa conformazione storica della società.
L’oggetto del contendere è, dunque, la cultura per come si delinea oggi. Roy, nell’incipit del libro, vi identifica distintamente il campo di battaglia della contemporaneità:
Femminismo e crisi di mascolinità, razzismo e intersezionalità, genere contro sesso biologico, identità contro universalismo, appropriazione culturale, wokismo, cancel culture, “abbassamento degli standard”, censura e purga dei grandi classici dell’arte e della letteratura, per non parlare di immigrazione…[…]. Tutti i citati dibattiti hanno un punto in comune: un ruolo centrale è riservato alla questione della cultura (p. 13)
Assunta in sè, la lotta (ad esempio) fra woke e alt-right sembra ripetere le schema classico di scontro progressisti vs conservatori, sinistra vs destra. Tuttavia, dice Roy, esiste un elemento specifico e unico di quest’epoca che impededisce questa rapida identificazione. Classicamente, questo genere di scontro avviene a partire dall’interno di una cultura condivisa e da differenti interpretazioni che di certi tratti di questa si possono offrire.
Oggi, invece, lo scontro sembra avvenire al livello di valori fondamentali in una forma che, però, tradisce un generico sentimento di incertezza su cosa sia “fondamento”. Deriva da ciò il carattere difensivo di larga parte delle rivendicazioni pubbliche di oggi «tutti si percepiscono come appartenenti a una minoranza minacciata, di cui si devono difendere i diritti e gli spazi comuni (safe spaces, zone da difendere, gated communities, frontiere nazionali)» (p. 17). A ciò consegue quella che, secondo l’autore, è la seconda caratteristica fondamentale della culture war contemporanea: l’estensione del sistema di norme.
Scrive Roy in proposito
La sola cosa in grado di riempire poco a poco questo vuoto di speranza [quella di ricercare un meccanismo emancipativo che sia universale] è un sistema di regolamenti, di divieti e di procedure democratiche che il “miracolo Internet” ha disseminato facendo di ciascuno il proprio burocrate, il piccolo censore di se stesso e degli altri a rischio di non esistere più (p. 17).
Secondo l’autore, la strana alleanza fra i variegati movimenti di critica culturale degli anni ’60 e ’70 e il nuovo assetto economico di quegli anni porta ad una crescente processo di deculturizzazione, ovvero alla progressiva perdita della cultura quale strumento di valutazione e di superamento critico delle difficoltà, il cui risultato è – precisamente – una guerra: «poichè i valori non hanno uno statuto implicito condiviso, devono essere imposti. E tali conflitti svolgono un ruolo centrale nella strutturazione delle linee di fratture politica» (p. 39).
Contro il folklore
Roy tende ad evitare gli aggettivi “bassa” e “alta” per riferirsi alla cultura, adoperando i termini cultura antropologica e cultura corpus come sinonimi. La prima è il «sistema condiviso fatto di lingua, segni, simboli, rappresentazioni del mondo, linguaggi corporei, comportamenti codificati ecc.» (p. 41), ovvero ciò che riteniamo semplicemente implicito e maggioritario. Con l’allargarsi della globalizzazione e il diffondersi di Internet sono emerse in maniera crescente delle sottoculture fluide che si costituiscono come forme di controsocialità rispetto alle strutture dominanti della cultura antropologica. Il fandom globale di Star Wars e il jihadismo digitale che unisce periferie belghe e Medio Oriente non presentano nessuna differenza di carattere strutturale, entrambi si costituiscono attraverso la condivisione virtuale di un immaginario liberato dal suo contesto.
Ciò che si sviluppa è, dunque, un mare di sottoculture in cui nessuno si sente più maggioritario, anche chi numericamente lo è. L’idea stessa di una dittatura delle minoranze deriva dall’assenza di una maggioranza. Ciò non fa altro che aggravare i conflitti sociali, l’idea che esistano “due Americhe” che pensano in maniera diametralmente opposta, il padre boomer che discute con il figlio Gen Z dicendo “non ti capisco” e il fantasma apocaliticco della “Grande sostituzione” sono tutte conseguenze di questa situazione.
Il venir meno della cultura e della sua capacità emancipatrice conosce due sbocchi, il primo è senza dubbio positivo e consiste in un nuovo processo di acculturazione – ovvero lo sviluppo di nuovi sistemi normativi e valori di riferimento – mentre il secondo è il ripiegamento in identità solipsiste, deboli e povere; in sintesi, un rifugiarsi nel folklore. Caso evidente di ciò è, dice Roy, il sovranismo di destra che – in Europa – oppone diametralmente la cultura “vino rosso e salame” a quella nemica “hijab e halal”; evitando di parlare di istituzioni per trattare di segni.
Ciò a cui ci si appiglia e per cui si combatte è, dunque, non un habitus reale bensì folklore, ovvero la deformazione caricaturale dei costumi. È così che un’esperienza come quella del viaggiare si trasforma in «un atto che significa non più conoscere un paese ma ‘consumare’ ciò che la guida prescrive di vedere nel luogo dove ci si reca» (p. 88) e ciò, anche se Roy non lo afferma, conduce al deprecato fenomeno dell’overtourism.
In breve, la cultura diviene un bene di consumo e i suoi elementi diventano delle sorte di pillole consumabili in maniera decontestualizzata, Roy utilizza il neologismo “folkloremi” per indicare questa processo di arbitraria rimozione dei contesti e dei significati profondi in favore della patina superificiale.

La guerra in università
Nel suo affresco della crisi culturale e della culture war Roy tratta anche della crisi dell’università. Luogo deputato alla trasmissione della cultura corpus in tutto il mondo, essa è oggi attraversata da una duplice difficoltà.
Particolarmente interessante è l’interpretazione che Roy fornisce della campus culture war. Nelle università di tutto il mondo si consuma una sorta di lotta intestina in cui parti conservatrici – di varia sorta – vedono in quella panoplia di studi “settoriali” volti a decostruire alcuni paradigmi assodati delle humanitates (post-colonial studies, subaltern studies, animals studies, cultural studies ecc.) una sorta di progetto sovversivo che vuole distruggere le colonne fondanti della cultura.
Ancora una volta, l’atteggiamento di Roy è intelliggentemente bipartisan. Infatti, se invece di interpretare questo scontro come sostanziale lo pensiamo come sintomatico della crisi generalizzata della cultura ecco che tanto è possibile inquadrare tanto il «piagnisteo del conservatorismo sull’avanzata del relativismo» (p. 68) – risultante in appelli a una pedagogia autoritaria – quanto i tentativi di decostruzione, teoricamente legittimi in sé ma de facto producenti un appiattimento della cultura alta, come due facce della medesima tendenza.
Individualismi e moralismi portano a una pedagogia autoritaria
Come si affermava in apertura, oggi lo scontro politico sempiterno fra progressisti e conservatori sembra assumere una particolare forma difensiva nella misura in cui ambedue le tendenze non si pensano a partire da un nucleo comune che deve essere o conservato o superato.
È soprattutto questo secondo punto a costituirsi come di particolare interesse. Infatti, il dato politico fondamentale del progressismo secondo Roy è che oggi «non siamo in un’epoca rivoluzionaria» (p. 145). Classicamente, la rivoluzione è buona in sé nella misura in cui permette che gli eventi acquistino senso in proporzione al futuro e alla loro capacità di superare una condizione presistente, l’Anciene Régime.
A partire dagli anni ’70, si è verificato un cambiamento di rotta che ha progressivamente condotto verso una nuova concezione:
Il cosiddetto “riflusso”, che data dalla fine del secolo scorso ed è fortemente tributario della critica al totalitarismo (fra gli altri, a quello sovietico), si è tradotto sia in una rilettura del passato sia in un mutamento delle forme di lotta: da una parte, si esprime un giudizio morale sul passato (il terrore rivoluzionario non è più un semplice eccesso contingente o necessario ma diventa un male in sé); dall’altra, la difesa di un giusto atemporale prevale sulla giustificazione dei mezzi da parte dei fini (p. 145)
Si è, dunque, passati dall’idea di rivoluzione al secondo dopoguerra in cui ad affermarsi è un atteggiamento riformista che lavora per il riconoscimento dei diritti. La pletora di rivendicazioni che germogliano a partire da quei decenni circa neri, donne, persone LGBT+ e così via si costituisce come mirante a inserire questi gruppi marginalizzati all’interno del regime liberale dei diritti senza discutere le fondamenta dell’impostazione vigente. Al giorno d’oggi, secondo Roy, siamo avanzati anche oltre questa burocratizzazione dei conflitti:
Non solo la rivoluzione non è più all’ordine del giorno ma, addirittura, la domanda di eguaglianza civile ha perso di forza. A scomparire è una visione inglobante della società come spazio politico condiviso. Ciò che si esige è la riparazione. La richiesta di riparazione, tuttavia, presuppone una relazione transattiva con il dominio: non si abbatte il sistema perché è cattivo, gli si chiede di ammettere di non essere “buono” (p. 146).
Questo cambiamento conduce, parallelamente, ad un ripiegamento identitario. Finchè la lotta pseudo-politica si fa a partire dall’idea che a muovere le persone sia unicamente la sofferenza1 ecco che si va incontro a «una collezione di individui ripiegati sul passato, personale o dei loro avi (colonizzati, schiavi), o partecipi di un marcatore identitario in precedenza celato (per esempio, una categoria sessuale) […]. [che] mira non tanto a conquistare nuovi diritti in termini giuridici e politici quanto ad acquisire la protezione della propria identità, assunta come bene in sé» (p. 147).
Ribaltando una vecchia formula cartesiana Roy afferma «la sofferenza è la cosa meglio distribuita del mondo, chiunque è autorizzato a viversi come minoritario, compresi i populisti che delirano di un
popolo introvabile che si incontra solo nella recriminazione» (p. 180).
La fossilizzazione intorno all’identità (peraltro intensa come essenza) conduce direttamente alla polarizzazione politica nella misura in cui l’identità, invece di essere un dato, diviene una forma di resistenza che, dunque, non è negoziabile.
Questo individualismo è, a sua volta, tanto causa quanto effetto del processo di deculturazione descritto da Roy. Il progressivo concentrarsi sulla dimensione individuale e sulle differenze sottili conduce a quel noto processo che inquadra la cultura come prodotta sostanzialmente da individui e conduce a quell’atteggiamento stigmatizzante che cerca e condanna le produzioni culturali di determinati autori (indipendetemente che si tratti di Aristotele, Hume, Hegel, Marx, Wagner, Heidegger o Derrida) fondendo in un’unica lega biografia, storia degli effetti e concetti. La cultura deculturizzata si presenta, dunque, non come un corpus o un implicito, qualcosa di valido trasversalmente ma come il risultato di un’attività individuale che deve, di conseguenza, essere normato.
Il ricchissimo affresco di Roy giunge, così, alla sua ultima intuizione. Consegue, da questo massiccio processo di deculturizzazione quella inclinazione autoritaria che permea le società ad ogni livello. Dal momento che è venuto progressivamente meno l’idea che esista un insieme di significati condivisi la coesione sociale deve passare da una pedagogia autoritaria che corregga i comportamenti individuali devianti e li renda coerenti con un sistema normativo di carattere sostanzialmente privato:
La pedagogia autoritaria non è affatto monopolio della sinistra progressista. La ritroviamo, al servizio di valori opposti, presso la destra conservatrice. Come riabilitare la virilità e la differenza fra i sessi? Gli evangelici americani hanno lanciato gli stage di riorientamento sessuale riservati a individui omosessuali […]. Lo stesso tema emerge anche fra alcuni gruppi di estrema destra privi di particolari connotazioni religiose (pp. 173-174).
Il ragionamento è sempre il medesimo: «si parte dal riconoscimento della scomparsa di un implicito condiviso e si va alla ricerca della difficile (ri)costruzione di una cultura umana» (p. 174) e la logica (la si potrebbe quasi definire dialettica) è sempre la stessa: «deculturazione-codifica [di norme]-normatività» (p. 179).
Come ogni libro di critica sociale, la conclusione lascia sempre il lettore con un vivo sentimento di infelicità e con le fatidiche domande “ci sono buone notizie?” e “come possiamo uscirne?”. Secondo Roy, la chiave sta nel ritrovare l’eterogeneità che, nei tempi migliori, ha costituito la forza delle nostre società al di fuori dei settarismi e degli spazi protetti. La misura entro cui ciò è possibile e le maniere attraverso cui una ricostruzione può essere tentata sono a carico di chi discuterà, criticherà ed elaborerà questo libro. Forse, già solo dedicare a ciò il pensiero rappresenta l’uscita da questo mondo piatto.
1 Ciò non significa, ovviamente, che la sofferenza non sia un elemento politico e che i dominati non soffrano. Tuttavia, nelle epoche precedenti, quella rivoluzionaria e quella “riformista“, la sofferenza non è il solo criterio. Roy sorvola sul tema ma si pensi alla proletario come tratteggiato da Marx, egli è certamente qualcuno che soffre (di pauperizzazione, alienazione, sfruttamento e così via) ma a costituirlo come soggetto politico non è unicamente la sofferenza bensì la crasi di questa e di una determinazione sociale precisa: il lavoro e i rapporti di produzione.