Perchè un corso di dialettica?
Einführung in die dialektik, “Introduzione alla dialettica”, così si intitola il corso di venti lezioni tenuto da Adorno all’Università di Francoforte fra il maggio e il luglio 1958 e pubblicato in italiano nel 2020 (ed. it. Introduzione alla dialettica, tr. it. G. Zanotti, ETS, Pisa 2020).
Il tentativo principale dello sforzo adorniano è quello di togliere l’apparenza di astrusità e dei astrattezza che, osservandola di facciata, la dialettica mostra. In questo senso, sono due i colpi di genio di Adorno nel corso.
Il primo consiste nel non fare un corso “su Hegel” bensì “sulla dialettica” mentre il secondo sta nel rivolgere l’insegnamento non solamente agli studenti di filosofia ma ad un pubblico di estrazione disciplinare diversa. Non si tratta di una semplice questione strategica o di marketing, esistono precise ragioni dialettiche per costruire il corso in questa maniera e Adorno le espone largamente.
Hegel è stato senza dubbio colui che ha iniettato la “dialettica” nel sistema circolatorio della filosofia moderna. Adorno non intende in nessuna maniera spodestarlo da questo trono e, anzi, gli dedica un numero immenso di pagine in pieno accordo con la sua rilevanza storica. Ma precisamente perché egli ha insegnato che «la verità […] sta nel processo e l’oggetto che abbiamo di fronte è esso stesso interamente mosso» (p. 105) allora non sarà possibile ancorarsi ad Hegel, bensì spingersi oltre criticandone le contraddizioni.
Similmente, l’intento di Adorno di rivolgere il corso a tutti gli studenti rivela il suo programma filosofico e costituisce il tratto fondamentale della critica al positivismo.

La dialettica come “scienza cosciente”
Secondo il filosofo, sono proprio coloro che studiano altre discipline ad avere particolarmente bisogno di un “corso di dialettica” (ciò vale tanto alla sua epoca quanto oggi) poiché è tramite questa che essi possono venire messi in guardia dal positivismo. Dietro questo desiderio non si cela – come ancora oggi pensano alcuni autori mediocri – un’agenda oscurantista o reazionaria della filosofia ma, al contrario, la voglia di raggiungere una teoria realmente profonda e comprensiva:
Senza teoria – e la dialettica in questo senso è addirittura il modello di ciò che si può in generale chiamare teoria – non ci sarebbe conoscenza, ma solo constatazioni di fatto. E accontentarsi di queste constatazioni non significherebbe soltanto restar fermi, cioè non procedere verso la verità, ma implicherebbe già parlare falsamente, pensare falsamente, per la semplice ragione che queste constatazioni, che si comportano […] come se ci fossero e basta, sono invece tutte quante già mediate, ossia recano in sè la totalità sociale. (p. 83)
Lottando contro la falsa coscienza del positivismo il pensiero dialettico si mostra essenzialmente come critico, messa in dubbio dell’idea che ciò che sta davanti a noi sia semplicemente dato. Al contrario, ogni dato è portatore di una legalità intrinseca.
Questa è chiamata da Adorno, tramite la terminologia hegeliano-marxista della sua formazione, totalità. Concepita al contempo olisticamente e meccanisticamente, ovvero come sfondo e come insieme dei dati; Adorno afferma che è nella frattura fra intero e parti che la dialettica opera contrastando l’astrattezza in-sé di ambedue i momenti. In ciò, la dialettica non è nient’altro che la teoria nel suo senso più puro:
La teoria è il tentativo di compenetrare quella coscienza dell’intero, già sempre presente come coscienza preliminare, e i successivi, specifici dati singoli, a loro volta mediati dall’intero, così da portarli a una specie di accordo. (p. 100)
Da ciò consegue che ogni teoria è essenzialmente pratica:
Per provare a formulare la dialettica come una sorta di programma, di istruzione, che però poi starà a voi sperimentare in voi stessi, se volete pensare dialetticamente: da una parte la dialettica deve sempre commisurare alla teoria i dati con cui ha a che fare, dunque non limitarsi ad accettarli ingenuamente per come si danno da sé, ma tentare di renderli trasparenti rispetto a quell’intero che è mediato dalla teoria; dall’altra parte, però, deve anche tenere aperta la teoria nei confronti di quelle esperienze specifiche di cui essa in effetti si nutre, e di fronte alle quali non può a sua volta costituire qualcosa di fisso e concluso (p. 100)
L’impresa dialettica non mette in dubbio la datità particolare in nome di una totalità a sua volta data bensì illumina i due momenti nella loro reciprocità. Posta così, allora, la dialettica ha essenzialmente a che fare con il movimento della verità.
Questo movimento assume la forma specifica della “mediazione“. Concetto tanto centrale quanto enigmatico nella filosofia hegeliana, Adorno ne fornisce una definizione sorprendente: «[mediazione è] la trasfrormazione che ci si deve attendere da un concetto nel momento stesso in cui lo si vuole apprendere» (p. 25). Quando cerchiamo di afferrare un elemento isolatamente, come fa la ricerca scientifica nel momento in cui isola un determinato fenomeno da studiare, ecco che ne sospendiamo le mediazioni. La dialettica sorge esattamente come richiamo nel momento in cui, dall’atteggiamento analitico-positivistico, ritorniamo sul solco dell’oggetto come parte in movimento della totalità.
Tuttavia, la necessità di questo cambio non esce dalla logica scientifica ma, piuttosto, la radicalizza. Parallelamente, il passaggio dal ragionamento analitico a quello dialettico non risulta da una trasformazione arbitraria dei concetti bensì «dalla necessità della cosa stessa» (p. 26). Adorno difende strenuamente la conciliabilità, non solamente possibile ma addirittura necessaria, di scienza e dialettica. Arrivando ad affermarne la continuità: «le operazioni dialettiche non significano tanto trasformazioni dei processi di pensiero che compiamo di fatto quando conosciamo qualcosa, quanto trasformazioni dell’interpretazione che ne diamo» (p. 139).
Commentando direttamente su alcuni lavori scientifici da lui svolti (pp. 119-128), Adorno giunge a sostenere che la dialettica è «scienza elevata alla sua propria coscienza» (p. 128). Mantenendo lo studio dell’oggetto pur superando la datità immediata, la dialettica presenta una forma “contraddittoria”. Infatti, sembra di essere incappati in una trappola scettica: né la totalità nè la parte singola sono – in sè- conoscibili ma, al contempo, non possiamo fare altro che studiare innanzitutto analiticamente la parte e – in seguito – dialetticamente la parte del tutto. Quando possiamo, allora, dirci in possesso di una conoscenza conclusa?
Adorno riconosce il dilemma e afferma che la dialettica non lo risolve (d’altronde, i dilemmi sono irrisolvibili per definizione) ma, nondimeno, lo affronta:
Io direi questo: non si deve aspirare alla completezza della conoscenza, ma neppure ovviamente isolare singoli atti conoscitivi, assumerli come qualcosa di concluso in sè stesso e dunque slegato, privo di relazione con l’intero. E la dialettica […] è per così dire un trucco o un accomodamento, un tentativo mediante il quale è possibile forse, nonostante tutto, risolvere la quadratura del cerchio cui questo problema allude.
Tentativo di comprendere la totalità superandone e appofondendone i dati immediati. In ciò consiste, dice Adorno, la dialettica. Sottolineando l’affinità elettiva fra scienza e dialettica Adorno sta affrontando il problema del ruolo della filosofia in una società tecnica e scientifica. Problema che, senza dubbio, ha interessato larghi tratti del pensiero novecentesco in forme diverse. Si pensi, in questo senso, ad Husserl, è evidente come la Crisi delle scienze europee affronti precisamente il medesimo tema di Adorno interrogandosi sulla maniera in cui la scienza si relaziona con il resto della vita umana.
Eppure, un problema comune e una preocuppazione condivisa conducono a risposte diversissime. Infatti, Adorno non vuole – come invece fa Husserl – restaurare la filosofia sul trono del sapere nella posizione di regina delle scienze bensì mettere in scacco il positivismo ponendo scienza e totalità nel rapporto in cui stanno particolare ed universale. È per questa ragione che, specialmente secondo Adorno, la dialettica si costituisce in minima parte come un discorso sintetico (da cui deriva l’opposizione adorniana alla famosa espressione di Hegel “il vero è ‘intero”, articolata anche nel corso; pp. 28-29) e come un’operazione principalmente negativa, critica ed immanente.

La dialettica come critica
Precisamente nella misura in cui il pensiero dialettico è tentativo di unificazione costante del particolare e dell’universale e pensiero che vive nella cesura fra identità e non-identità ecco che esso non è una riflessione sintetica. Adorno attacca a più riprese il desiderio di costruire una teoria dell’unificazione generale affermando, innanzitutto, che con l’avvento del pensiero dialettico crolla l’antica pretesa aristotelica (e in seguito cartesiana) della prote philosophia, ovvero della filosofia “prima” con funzione di fondamento e, in seguito, sottolinenando come la dialettica rifiuti la pedanteria, ovvero quel desiderio di «di non lasciar fuori niente» (p. 163).
È in questo senso che Adorno approda a una definizione fulminante della natura critica dell’iniziativa dialettica:
Un filosofare, e specialmente un filosofare critico, è legittimo solo quando riflette se stesso anche nel senso di non voler avere ragione. Si potrebbe quasi dire, con la consueta esagerazione, che è un criterio generale della verità del pensiero il fatto che esso rinunci ad aver ragione, si metta per così dire dalla parte del torto, ma in una maniera tale da mostrare propria la ristrettezza e limitatezza dell’aver ragione. (p. 153).
La dialettica, allora, non segnala errori ma sottolinea in che modo questi emergano dalle tendenze del pensiero messo in esame In ciò, la penetrazione dell’oggetto da parte del pensiero dialettico assume la forma dell’autoriflessione:
«Solo quandi si è affrontato il singolo oggetto […] al livello del suo proprio ambito di competenza, solo allora si può legittimamente afferrare il suo trascendere oltre quest’ambito, ad esempio il nesso tra una concezione gnoseologica e una concezione politica, sociale, morale dell’intero. Se non si fa questo, la dialettica soccombe alle chiacchiere delle visioni del mondo o a un pensiero alla cieca, dilettantesco» (p. 155).
Se la dialettica hegeliana-marxista rivive nel tessuto della teoria critica fondata da Adorno ciò è dovuto, precisamente, a quel carattere inevitabilmente sociale e storico che, dopo la stagione illuminista e quella idealista, la filosofia assume. La genialità di Adorno sta nel liberare la potenza viva della dialettica dai nomi altisonanti di Hegel e Marx (un’operazione che, negli stessi anni, anche Sartre intraprendeva) per affermarne non l’autorità in sé bensì la capacità di costituire un pensiero in grado di comprendere il mondo “realisticamente”, ovvero nei suoi aspetti intrinsecamente oggettuali, sociali e storici, e di pavimentare la strada di una critica che conduca alla possibilità di un ulteriore superamento.
Postilla sul Conclave (e la dialettica)
È precisamente in forza del suo essere una forza viva, aperta e costante che, mentre veniva scritto questo articolo sull’Introduzione alla dialettica di Adorno, la dialettica era operante nel mondo sociale circostante. Infatti, nel periodo fra l’inizio della composizione del pezzo sopraesposto e la sua conclusione Robert Prevost è stato eletto 267esimo Papa della Chiesa cattolica.
Il mondo intero ha osservato il comignolo di Piazza San Pietro in attesa della fumata tramite cui avrebbe annunciato il nuovo pontefice. Istituzione millenaria che da un lato sfida e dall’altro detta il progresso della storia mondiale, la Chiesa cattolica ha individuato il nome del nuovo pontefice dopo due giorni di riunione nel conclave.
In un certo senso, il velo di mistero e di sacralità che circonda questo evento antichissimo (in realtà risalente “solo” al 1270 in una forma comparabile a quella odierna) sembra sfuggire alla comprensione degli individui. Il conclave sembra qualcosa solamente in sè, chiuso, ristretto e limitato; che vive dell’inerzia sua propria derivante dalla sacralità dell’evento. Eppure, è precisamente questa sua misteriorità ad alimentare gli sforzi, tanto dei credenti cattolici quanto di coloro che non condividono i dettami religiosi, a fornire un gran numero di spiegazioni.
Come interpretare il funzionamento di quella struttura istituzionale che è il conclave? Certamente, il pontefice è un leader politico e, dunque, possono essere svolte innumerevoli considerazioni politiche sulla sua elezione (Anti-Trump, federatore di “liberali” e “conservatori”, erede di Francesco, nome di assestamento, argine contro i tradizionalisti, riflesso del declino dell’egemonia americana ecc.). Oppure, dal momento che il collegio cardinalizzio è una società, l’elezione di Leone XIV può essere studiata e prevista tramite modelli sociologici matematzzati . Infine, coloro che si professano cattolici credono che, nelle porte chiuse della Cappella Sistina, lo Spirito Santo interceda con la volontà dei cardinali riuniti.
In un certo senso, è possibile ritenere tutte queste spiegazioni – se assunte in sé – come unilaterali (pur al nette delle differenze “qualitative” profondissime che le separano). Ma qual è, allora, la verità del Conclave? Sembra possibile – forse mal interpretando Adorno e il suo concetto – pensare che l’attacco contro ogni spiegazione brutalmente uniltaterale e drammaticamente limitata debba avvenire precisamente tramite la dialettica. Bussola che permette di evitare Scilla e Cariddi senza rinunciare al desiderio di percorrere gli stretti problematici, la possibilità di demistificare spiegazioni unilaterali sta nel pensiero dialettico che, approfondendo radicalmente l’oggetto studiato, permetterà infine di approdare a una reale diffidenza fertile e critica. Scrive in proposito Adorno:
«Vedere che il mondo in cui viviamo, non per una qualche bugia o macchinazione, ma per la sua stessa legalità immanente produce il suo velo, e genera continuamente fenomeni che contraddicono ciò che esso è realmente si sarà effettivamente portati a nutrire questa diffidenza, e il dato, positivo, che anzitutto le scienze particolari ci presentano come la fonte legittima ultima della certezza, non lo si potrà accettar nella forma, appunto, in cui ci è presentato» (p. 121)