«Non ci fu mai un filosofo capace di sopportare pazientemente il mal di denti»
Il recente libro di Maria Russo Sartre. Vita di un filosofo radicale (Carocci, 2024, pp. 396, 39,00€) si prefigge un compito fondamentale, farci riscoprire il maître à penser dell’esistenzialismo. Il libro si pone esplicitamente un compito che potrebbe essere definitivo “restaurativo”. Il pensiero di Sartre deve essere recuperato perchè «[egli] ha anticipato tutto quello per cui stiamo combattendo ancora nel nostro presente: le discriminazioni razziali e di genere, le dinamiche della malafede, l’eteronomia, il riduzionismo, l’ingiustizia sociale, l’ineguaglianza economica, le situazioni impossibili in cui non si può scegliere moralmente» (p. 11).
L’urgenza di riprendere Sartre e la sua attualità è dettata dalle sue alterne fortune, se in vita l’esistenzialismo ebbe una fortuna tale da divenire una vera e propria moda, dopo la morte del filosofo esso cadde in una anonimia e lo stesso nome divenne «un’etichetta obsoleta, sorpassata, inerte» (p. 11).
Allora, è precisamente poiché il suo pensiero può essere ancora utile alla filosofia e alla vita che è necessario riscoprire la “vita di un filosofo radicale”. D’altronde, il libro vuole affrontare un problema antichissimo. In Much Ado About Nothing (tr. it. Molto strepito per nulla a cura di G. Baldini, BUR, Milano 1987) Shakespeare fa dire a Leonato «io voglio essere tutto carne e sangue. Giacché non ci fu mai filosofo capace di sopportare pazientemente il mal di denti, pur se abbia scritto con lo stile di un dio e abbia trattato con sufficienza, dall’altro al basso, il dolore e i malanni» (p. 173). Ciò che il bardo mette in scena con questa battuta è quella tentazione, provata da qualunque studioso di filosofia almeno una volta nella vita, di domandare maliziosamente se i filosofi abbiano effettivamente vissuto “coerentemente” con ciò che affermavano.
Il dubbio si insinua ovunque e si declina in una varietà di forme, a volte diventando addirittura un mezzo di attacco sul piano sociale o politico. D’altronde, risulta naturale domandarsi se Locke, proclamando l’inalienabilità dei diritti naturali nei Two Treatises on Government, non abbia escluso gli africani in quanto proprietario di azioni di compagnie schiavistiche o se Marx non debba precisamente al capitalismo – e alla classe borghese di cui faceva parte – la possibilità di compierne la più radicale critica.
Sarebbe semplice dismettere tali dubbi come triviali o assolutizzarli come essenza del pensiero degli autori. Tuttavia, ad un esame critico risulta evidente come ambedue queste soluzioni non si presentino come desiderabili. Da un lato, ingigantendo il valore della biografia di un autore si schiaccerebbe la filosofia su una visione del mondo personalistica e privata; dall’altro, escludere completamente l’elemento contingente eliminerebbe la differenza fra il discorso scientifico (per definzione oggettivo ed impersonale) e quello filosofico.

Questione di metodo, come e perché la vita di Sartre?
Eppure, sebbene questo problema si presenti come altamente rilevante, non sono molti i filosofi che hanno interrogato seriamente la questione. Contro questa tendenza Sartre svetta non solo come eccezione, soprattutto nel panorama della filosofia novecentesca, ma come vero e proprio esempio insuperabile di pensatore che è riuscito a fondere in una sola foggia la vita e il pensiero.
Come esplicitato dal filosofo ne Le mots e sottolineato da Russo la necessità di pensare l’esistenza si costituisce come il vero collante dell’opera di Sarte e come il trait d’union non solo della sua produzione elaborata in forme letterarie diverse (romanzi, saggi, conferenze, interviste, opere teatrali, articoli di giornale, diari, lettere e sceneggiature) ma anche del contenuto del suo pensiero, fertile ma mai sistematico. Affermando che la sua intera vita si sarebbe compiuta, dalla nascita alla morte, “fra i libri” Sartre ci sta dicendo che:
Le idee cambiano, così come anche le urgenze filosofiche; ciò che invece non muta è questo rapporto costante con i testi degli altri, assimilati in modo assolutamente creativo e al servizio dei propri interessi a partire dall’infanzia. (p. 15)
“Porre al servizio dei propri interessi” è l’operazione principale di Sartre. Fin dall’infanzia, il bambino Jean-Paul vive con una narrazione proveniente dagli adulti e da una famiglia inevitabilmente borghese che lo spinge a diventare scrittore. Russo descrive così l’inizio dell’avvicinamento di Sartre alla letteratura nella biblioteca di Charles Schweitzer, suo nonno, «la biblioteca diventa rifugio e destino nell’infanzia e dimora e progetto per il futuro» (p. 15 [corsivo nostro]).
La coppia di termini destino e progetto costituisce la chiave per comprendere il pensatore. Infatti, risiede in ciò il fondamentale problema sartriano: come è possibile diventare se stessi senza aderire ad un’identità precostituitivamente definita dall’Altro?
Comincia qui l’avventura della libertà, che passerà da radicale nei primi testi a petit décalage dopo che la guerra e l’impatto con la durezza della Storia trasformeranno Sartre. Il momento “progetto” diviene l’atto originario, la scelta dell’autore che deve essere considerata per comprendere la sua evoluzione. Giungiamo così a quello che è il «cortocircuito esistenziale» dell’opera di Sartre, «il passato viene dopo il futuro. Il punto di partenza resta il progetto che si deve realizzare» (p. 23 [corsivo nel testo]).
Studiare la vita di quel filosofo radicale significa, allora, interrogare continuamente le condizioni che pongono il pensatore in una determinata condizione, il destino che gli viene imposto dall’Altro, e le maniere in cui questo viene superato e criticato. Ciò che il libro vuole fare è non tanto sapere Sartre -annotare i particolari della sua vita e disporli lungo una linea temporale- quanto capire Sartre. È questa impostazione a qualificare il libro, almeno ad avviso di chi scrive questa recensione, come un vero e proprio saggio di filosofia e non di semplice storia. Infatti, l’obiettivo del testo non è raccogliere i momenti della vita di un francese di inizio secolo di nome Jean-Paul che ha fatto lo scrittore di mestiere, ma capire come Jean-Paul è divenuto “Sartre“, iconico filosofo esistenzialista.
Ma questa maniera di procedere è precisamente quella di Sartre, formulata nel celebre metodo progressivo-regressivo di cui vi abbiamo parlato in precedenza.

La nascita dell’esistenzialismo: da Berlino alla Resistenza
Esiste un ampissimo dibattito all’interno della sartristica su quante siano le “fasi” del pensiero di Sartre. “Primo” e “secondo” Sartre? Tre? Quattro? Uno letterario e uno filosofico? Secondo Russo l’ecletticità del pensatore e, latu sensu, dello scrittore può difficilmente essere racchiusa in categorie stagne e rapide etichette, il dato insindacabile è che Sartre è Sartre e bisogna cercare tanto il principio di unità quanto i fattori di divergenza nel corso della sua produzione filosofica.
Certamente, la filosofia di Sartre è attraversata dal medesimo problema, quello della libertà; «una libertà che – [dice Russo] – viene prima della persona, ma non in senso sostanzialistico: è una libertà che fa la persona ma che non esiste se non incarnata» (p. 57 [corsivo nel testo]). Il tema rimane sempre il medesimo nell’arco dei 75 anni di esistenza del filosofo, a cambiare è la maniera in cui questa libertà deve essere investita.
Così, il libro, composto di sei capitoli, dedica i primi tre all’inizio dell’avventura filosofica di Sartre: dalla sua infanzia senza padre e senza maestri (pp. 13-54); alla sua formazione filosofica (a Berlino studiando la fenomenologia di Husserl) e sentimentale (con la conoscenza di Simone de Beauvoir) (pp. 54-111) fino all’esperienza della “strana guerra“, della Resistenza e della Liberazione (pp. 111-193).
Il primo periodo, quello del corpo a corpo con la fenomenologia husserliana, scheleriana e poi heideggeriana è il momento della formazione dell’esistenzialismo. Nascono, in questo periodo, testi fondamentali: La Transcendance de l’Ego, L’Imaginaire e infine L’Être et le Néant.
Composto per lo più durante il servizio militare e la prigionia presso i campi tedeschi, prima in Francia in condizioni relativamente miti e poi in un ambiente molto più duro in Germania, il capolavoro dell’esistenzialismo (Sartre aggiungerebbe “francese“) si presenta come una «fenomenologia della coscienza in malafede» (p. 134) che compie un’impresa filosoficamente titanica: superare la dicotomia necessità-libertà (p. 141).
Ciò che Sarte rifiuta è, infatti, l’identificazione della fatticità con il fondamento. Afferma Russo: «L’edificio del ’43 non viene costruito per affermare una libertà incondizionata (Sartre non è certo un ingenuo), bensì per rivendicare la possibilità di esistere al di là di ciò che è già avvenuto, di tutte le scelte irrimediabili, di tutte le decisioni che il mondo e gli altri hanno già preso per noi» (p. 133).
La rivendicazione della libertà si gioca, dunque, come una rivendicazione del “nulla” all’interno dell’Essere, «è questo nulla che introduce il possibile, che interrompe le catene del necessario» (p. 139). È a partire da questa conclusione ontologica che Sartre andrà alla ricerca dell’esperienza dell’angoscia e della noia, della minaccia della malafede alla libertà e, soprattutto, della rivendicazione della possibilità di un suo superamento attraverso una appropriazione della propria responsabilità in un senso radicale, al di là del determinismo e della malafede.
Ciò costituisce il lineamento di un’etica esistenzialista. Questa viene suggerita, preparata e addiruttura promessa da Sartre, ma non troverà mai la luce (almeno in forma compiuta e pubblicata) poiché verrà sostituita dalla psicanalisi esistenziale ne L’Être et le Néant e poi da una filosofia della storia nelle opere successive.
Ad avviso dell’autrice, oltre al contenuto concettuale, è la dinamica biografica del testo del ’43 a darci un’indicazione importante su quale sarebbe stato il carattere fondamentale di questa etica: ogni individuo ha un dovere nei confronti di se stesso, degli altri e del mondo, questo dovere Sartre lo chiama “libertà”. Vediamo, dunque, il legame fondamentale fra l’esperienza della guerra, della prigionia e della Resistenza (nel gruppo Socialisme et liberté) e l’ontologia esistenziale:
Perché questa libertà è stata vista mentre ci sono quaranta gradi sotto zero, mentre ci si ammassa in attesa di un rancio, mentre si spera di poter tornare a Parigi, sapendo che niente sarà come prima. Le opere del 1943 sono il risultato della resistenza di Sartre, incominciata prima della sua avventura con i gruppi militanti della capitale. L’ostinazione della sua libertà, che va oltre lo stoicismo, si combina con la sopportazione di una responsabilità così radicale che lo fa sentire autore di una guerra che non ha scelto. E così attraversa la strana guerra, il campo di prigionia, l’occupazione nazista: senza scuse o pretesti, senza raccontarsi favole giustificatorie, trovando nella durezza delle cose il riflesso di ciò che è irriducibilmente umano. (pp. 164-5)
Tuttavia, se l’esperienza della guerra e la resistenza ha portato a pensare ciò; il continuare degli eventi e della faccende umane pone nuovi problemi e spinge a riprendere l’opera di scrittura. Dopo aver passato il 25 agosto 1944 su una barricata mentre i tedeschi si ritiravano da Parigi Sartre assiste, il giorno dopo, all’ingresso di De Gaule in città, «attraversato l’inferno, ora bisogna prendere sul serio l’idea di pensare a un’etica per il domani» (p. 165).
L’engagement: combattere tutte le lotte del mondo
Quella libertà che Sartre aveva elaborato concettualmente durante il conflitto pone, nella Parigi liberata, una nuova domanda: «che cosa ce ne facciamo dell’essere liberi? A che serve la libertà se non per impegnarsi?» (p. 173 [corsivo nel testo]). Per quanto egli abbia sempre cercato di scongiurare tale rischio insistendo sul suo carattere determinato, a Sartre sovviene il sospetto di non aver mai impegnato la sua libertà.
«Proprio perché siamo liberi, possiamo andare contro alla storia, tentare di deviarla, anche se questo dovesse costare ogni cosa. Serve allora una guida morale per il dopoguerra: gli intellettuali sono necessariamente in prima linea » (p. 169). Viene fondata, in questo contesto, la rivista Les Temps
Modernes, Sartre inizia ad emergere non solo come scrittore celebre ma come vero e proprio intellettuale engagé, colui che pone la sua penna al servizio delle cause morali del mondo.
Comincia, così, quella che Russo chiama, prendendo in prestito il titolo di un testo di Simone De Beauvoir, “età forte“. I restanti tre capitoli del testo sono dedicati al Sartre “icona pop”, quello che divenne una vera e propria moda negli anni ’60. È la pratica della scrittura a cambiare significato per Sartre, essa acquisisce una dimensione marcatamente più performativa, «la parola è azione» (p. 213).
Ciò spinge Jean-Paul a mettere la sua penna al servizio di tutti gli oppressi del mondo. Inizia, in questa fase, la composizione di un gran numero di pamphlet sui temi cruciali dell’epoca: la bomba atomica, la Guerra Fredda, l’antisemitismo, la questione coloniale e così via.
Russo ci trasporta nello sviluppo di questa nuova pagina della vita e del pensiero di Sartre all’interno del quarto capitolo (pp. 193-257) raccontandoci la nascita di quella podeorsa sintesi di filosofia morale e filosofia della storia che costituisce i Cahiers pour une morale, forse la più importante opera non completata della produzione del filosofo. Parallelamente, un nuovo grande interesse di Sartre in questa fase sarà quello per le vite dei personaggi storici, soprattutto degli artisti e degli scrittori. Nasce così il filone delle psicobiografie e l’idea di poter comprendere qualcosa sull’epoca e le sue condizioni storico-sociali a partire dalla vita e dalle opere di un uomo. Sartre ne scriverà molte, su Baudelaire, su Genet e una monumentale su Flaubert.
A partire dalla metà degli anni ’50, Sartre cambia di nuovo la sua rotta, Russo ce ne parla nella quinta sezione del testo (pp. 257-320). Il filosofo è in «un vortice di lotte, denunce, impegni sociali» (p. 272) e inizia la scrittura di una poderosa opera di filosofia che, pur senza offrire esplicitamente un’etica, proponga una riflessione morale sulla storia e la politica. Inizia l’epoca della Critique de la raison dialectique.
Un’opera fondamentale, composta con l’idea di sviluppare un’antropologia filosofica da porre a fianco dell’ontologia esistenziale del ’43. Il problema di come relazionare i due colossali testi sartriani è immenso, Russo rifiuta, in perfetta coerenza con la convinzione fondamentale del libro, l’ipotesi di una rottura radicale. A ben vedere, infatti, la Critique presenta la medesima questione dell’esistenzialismo “puro”, quella del rapporto con l’Altro:
«Una volta il centro della filosofia pulsante di Sartre era il dissidio tra essenza ed esistenza, adesso è tra prodotto passivo e agente storico, tenendo conto, in entrambi i casi, dell’attrazione e della vischiosità di questi concetti, che si contagiano l’uno con l’altro, per cui l’agente storico è prodotto della storia su cui egli ha agito e che aveva agito su di lui». (p. 277)
La dimensione dell’Être et le Néant viene parzialmente difesa da critiche non particolarmente caritatevoli ma, nondimeno, Sartre riconosce il rischio di quell’impostazione sostanzialmente individualista e astratta. Per comprendere meglio gli uomini, serve comprendere meglio il mondo. Bisognerà studiare dunque le maniere attraverso cui il mondo agisce sull’individuo e come questo reagisce sul mondo.
In ciò consiste il carattere esplicitamente dialettico della nuova opera sartriana. Coerentemente con la totalità della sua filosofia Sartre non cede mai alla visione determinista della dialettica e al necessitarismo storico, la “conversione” hegelo-marxista del filosofo mantiene un inevitabile spazio di indeterminatezza che, secondo Russo, traduce l’antica preoccupazione morale:
«La dialettica è un’avventura e non uno schema prestabilito una volta per tutte; nessuna volontà o Spirito che l’abbia già scritta: al contrario, essa è il risultato delle azioni umane, la razionalità a posteriori che può rendere intelligibile l’insieme di contraddizioni che gli uomini generano nella Storia». (p. 279 [corsivo nel testo])
Inventando un’opera di filosofia della storia e di comprensione delle dinamiche dialettiche in ogni momento temporale, Sartre sta inserendo se stesso e le sue lotte all’interno di una storia lunga, secolare, che si articola nel 1789, nel 1848 e poi ancora in una panoplia di casi storici che il filosofo studia con l’idea di attribuirvi filosoficamente un significato vitale utile all’azione.
L’ultimo grande saggio filosofico di Sartre può essere letto come la base concettuale delle sue poliedriche battaglie su molteplici fronti. È nel solco della Critique che sorgeranno le conferenze in cui Sartre dichiara esplicitamente la sua idea di universale-singolare e la sua concezione di intellettuale: la storia fatta è universale ed è fatta da singoli che vivono questa universalità in maniere particolari. La possibilità di lottare al fianco dei “dannati della Terra” deriva, dunque, precisamente dall’armatura dialettica della Storia:
«Il senso della storia, insomma, è la possibile realizzazione dell’umanità, ossia il fatto che la vita umana venga valorizzata dall’uomo stesso. Il senso della storia è la possibilità che si realizzi l’umanismo». (p. 310)
Artista, psicologo, soldato, partgiano, pamhplettista, politico, filosofo. Giunto all’ultimo decennio della sua vita -che occupa la sesta parte del testo (pp. 321-381)- Sartre si accinge a scrivere un’enorme psicobiografia. Gustave Flaubert e le dinamiche della sua famiglia borghese nella Francia monarchica e liberale di Luigi Filippo sono il suo interesse per anni e, nel 1973, vengono date alle stampe le 2800 pagine che compongono L’Idiot de la famille.
La questione è quella della Critique e, in un certo senso, de L’Être et le Néant: quali sono i rapporti fra un individuo, la sua azione sul mondo e la storia che l’ha posto in quella situazione? Quale è il legante di queste tre sfere? Sartre ha la risposta fin dal 1943 (e forse da prima): la libertà.
Questa, «è ancora in situazione, solo che questa situazione si è incredibilmente arricchita rispetto alle pennellate de L’essere e il nulla» (p. 347).
Il sesto capitolo procede, infine, a seguire il declino fisico di Sartre. Combatte ancora e, in punto di morte, dichiara di avere ancora qualcosa da scrivere ma che non riesce a causa della cecità.
Come ogni biografia, Russo termina raccontandoci il decesso di Sartre, la morte di questo “fenomeno di massa” che venne ricordato in ogni angolo del globo e al cui funerale parteciparono cinquanta mila persone. Ma come ogni biografia filosofica, anche il racconto della vita di questo filosofo radicale non può che terminare riflettendo sul senso di quei 75 anni.
Innanzitutto, è fondamentale tenere a mente che «Sartre rimane un filosofo che non chiude» (p. 381); la sua vita è una continua riscrittura di sé stessi e la sua opera (come, secondo lui, l’opera di ogni uomo) è un continuo circolare “a spirale”, modificando continuamente di qualche grado l’impostazione originale, in un binomio di ripetizione ed invenzione.
Inoltre, al di là di questo elemento “metodologico”, Sartre rimane un sigillo impresso sulla storia della filosofia; inevitabilmente legato al XX secolo, di cui è stato una delle più lucide coscienze:
Sartre supera i confini del secolo breve per ricordare alla filosofia il valore della libertà, della responsabilità, di quella soggettività che ha poi inorridito tanta filosofia, senza capire che, in fondo, ciò che è “soggetto” nell’opera di Sartre, lungi dal rievocare semplicemente una tradizione che da Cartesio arriva ai nostri giorni, è già rivoluzione. (p. 380)
Wow veramente ben scritto, mi ha fatto venire una gran voglia di andarlo a comprare!