Più un concetto viene detto, ripetuto, maggiore è il rischio che venga frainteso o peggio, che entri nel grande calderone di quelle parole mai comprese fino in fondo. Già da qualche anno – per quanto il nostro computer continui a sottolinearlo con un ondulato tratto rosso – il termine Antropocene è entrato a far parte del lessico tecnico per designare un’epoca inedita della storia del pianeta Terra; un’epoca caratterizzata dal fatto che gli esseri umani, al pari degli agenti fisici, sono in grado di alterare nel complesso gli equilibri geologici e climatici del globo terrestre.
Frattura metabolica e Antropocene. Saggi sulla distruzione capitalistica della Natura, nella preziosa cura di Alessandro Cocuzza e Giuseppe Sottile per Edizioni Smasher (2023), offre un’occasione concreta di comprensione del problema Antropocene. Attraverso la penna di alcuni tra i più rilevanti autori sull’argomento (John Bellamy Foster, Paul Burkett, Ian Angus, Brett Clark, Richard York e Stefano Longo), la raccolta di saggi mostra, dalla pandemia di Covid-19 alla pesca intensiva nel Mediterraneo, le conseguenze più drammatiche del modo capitalistico di gestione della Natura.
Una svolta epocale: il potenziale distruttivo della tecnica moderna
La crisi climatica rappresenta indubbiamente la principale sfida del nostro tempo, ma per poter farsi carico in modo radicale del problema è prima necessario rendersi conto del fatto che siamo di fronte ad una circostanza unica: per la prima volta nella storia dell’umanità, disponiamo di una potenza tecnica capace di incrinare in modo irreversibile l’intero ecosistema. Questo aspetto e l’enorme responsabilità che ne deriva risultano tutt’altro che assimilati dall’opinione pubblica – complici naturalmente gli interessi economici di governi e multinazionali. Ma in cosa consiste questa trasformazione?
Di fatti, per millenni le società umane hanno organizzato la produzione intrattenendo un rapporto equilibrato di scambio con la Natura: gli esseri umani immettevano energia sotto forma mediata dal proprio lavoro nel mondo naturale ricevendo in cambio materie prime e risorse indispensabili per la soddisfazione dei propri bisogni. Condizione necessaria di questo scambio, che d’ora in poi definiremo “metabolismo“, era il rispetto dello stato di salute della Natura, dato che, qualora eccessivamente sfruttata, questa non avrebbe restituito una sufficiente quantità di prodotto.
La rottura del metabolismo nell’Antropocene
Per sopperire a questo “limite” naturale, il nascente sistema capitalistico ottocentesco sperimentò le prime forme di sfruttamento della Natura, intensificando i ritmi di produzione in vista dell’accumulazione di capitale senza tener conto delle condizioni di salute di quelle stesse risorse. Marx ed Engels furono tra i primi a rendersi conto della trasformazione epocale in atto, inquadrando l’azione capitalistica come la prima frattura del metabolismo organico tra esseri umani e Natura. Fin da subito fu chiaro che questo nuovo meccanismo era possibile fintantoché esistevano quantità ingenti di altre risorse naturali da appropriare, sfruttare, distruggere.
Per quasi due secoli il capitalismo ha guadagnato terreno imponendosi come sistema economico globale offrendo quantità sempre maggiori di nuovi beni a basso consumo; il prezzo da pagare, aspetto che deve necessariamente esser tenuto nascosto al consumatore, è lo sfruttamento del lavoro di esseri umani e Natura per poter minimizzare i costi di produzione di quei beni.
Oggi questa dinamica ha raggiunto dei ritmi insostenibili e non esiste angolo del pianeta non immesso nel circuito della logica di accumulazione capitalistica delle risorse. Naturalmente, ad un problema di tipo estensivo (vale a dire la presenza capillare del capitalismo ad ogni latitudine) se ne aggiunge un secondo di tipo intensivo. In altre parole, i mezzi tecnici di cui dispone oggi il capitale incidono a tal punto da determinare, da un lato, l’esaurimento delle risorse sfruttate, e dall’altro la compromissione dello stato di salute di quelle stesse risorse a causa dello scarico dei materiali di scarto della produzione.
Il caso CO₂: la triplice minaccia degli oceani
Su quest’ultimo argomento risultano particolarmente preziosi i contributi di Ian Angus sullo stato di salute dei nostri mari, analizzato sotto la triplice criticità dell’acidificazione, della perdita di ossigeno e del surriscaldamento. Denominatore comune di questo triplice deterioramento degli oceani è naturalmente la quantità di CO₂ dispersa nell’atmosfera. Si prenda il caso dell’acidificazione. Per anni gli oceani hanno assorbito oltre il 25% delle emissioni di anidride carbonica di causa antropica, fungendo da discarica capace di ammortizzare i livelli di irrespirabilità dell’aria. Il prezzo di questa azione benefica è un drammatico cambiamento nella composizione chimica degli oceani; il calcolo è piuttosto semplice: H₂O + CO₂ = H₂CO₃, detto altrimenti, acqua più anidride carbonica produce acido carbonico.
Oggi gli oceani risultano più acidi del 30% rispetto agli ultimi 55 milioni di anni. La presenza di queste quantità massicce di acido carbonico rende non facilmente assimilabile il carbonato di calcio, indispensabile per la formazione di coralli e conchiglie che costituiscono l’ossatura delle barriere coralline. Basta rendersi conto del fatto che se il 25% dell’intera fauna marina dipende per cibo e riparo da queste barriere, allora ci troviamo davanti a un evento disastroso per la biodiversità dei nostri oceani.
L’assorbimento di CO₂ da parte degli oceani ne determina inoltre la de-ossigenazione e il riscaldamento: a livello fisico, quando viene somministrato calore all’acqua (in questo caso sotto forma di anidride carbonica) quest’ultima, aumentando di temperatura, è in grado di trattenere meno quantità di ossigeno. Le conseguenze sono di immediata comprensione e riguardano tanto la vita sulla terra, dato che gli oceani provvedono in modo determinante al ciclo di ossigenazione dell’aria che respiriamo, che della vita marina, dato che acque povere di ossigeno causano estinzioni di specie su larga scala, cosa vera in particolare nell’Antropocene.
Crisi sistemiche e stato del dibattito attuale
Bisogna opporsi con fermezza alla narrazione di fenomeni del genere come eventi isolati. Meccanismi come quelli sopra descritti rispondono piuttosto ad una crisi di tipo sistemico che vede nel modo capitalistico di sfruttamento della Natura e degli esseri umani la sua unica causa. Il capitalismo si è sempre dimostrato abile nel superare le crisi da esso stesso generate grazie alla capacità di far fronte alla distruzione di una determinata risorsa individuando nuove zone da appropriare e soggiogare ai fini della produzione. Oggi questa dinamica di appropriazione trova un limite nella costitutiva limitatezza delle risorse e del mondo naturale, sempre più visibile nell’Antropocene: è per tali ragioni che occorre invertire immediatamente la deriva cui siamo consegnati mantenendo gli stessi ritmi di consumo e produzione attuali.
Se queste consapevolezze sembrano lentamente prendere piede nella coscienza dei cittadini, la situazione politica a livello internazionale restituisce un quadro ben più desolante. Il caso delle emissioni di CO₂ risulta particolarmente significativo; a conferma di ciò, basti pensare che in occasione della recente COP28 di Dubai l’unico accordo raggiunto sul tema fa riferimento ad una riduzione delle emissioni tendente allo zero non prima del 2050, una data forse troppo ottimistica per i fragili equilibri dei nostri ecosistemi.