Su “Democrazia e anarchia” di Donatella Di Cesare

36 minuti

La libertà ha per principio la Natura; per regola la giustizia; per salvaguardia la legge

Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, 1793

È nelle librerie Democrazia e anarchia. Il potere nella polis (Einaudi, 2024), di Donatella Di Cesare. Una ricerca filosofica che indaga in modo inedito il sorgere della democrazia politica.
Un libro che si presenta al pubblico in un momento storico cruciale, poiché si propone di fornire una risposta essenziale ad una domanda che dovrebbe oggi rimbombare nelle nostre menti: che cosa è democrazia?

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La democrazia, ci è noto, almeno a partire dai principi della Rivoluzione Francese, ha cominciato ad assumere il ruolo di forma di governo prescelta, preferibile a tutte le altre. L’elezione delle cariche istituzionali e la libertà che riconosce formalmente e legalmente ogni cittadino ugualmente democratico rispetto sia al mercato sia al potere di governo, sappiamo ne sanciscono i capisaldi atti a non creare voragini e danni troppi complessi per essere risolti senza gravi conseguenze. 

Dopo i terribili tentativi di trovare alternative alla democrazia repubblicana nella seconda parte del Novecento, la forma di governo democratica si è definitivamente confermata la migliore, per la pluralità di vedute che ammette e per la turnazione delle cariche politiche, rituale che dovrebbe limitare tanto i disordini sociali, quanto impedire l’imporsi di un potere politico totalitario, violento e repressivo.
Nondimeno, come accade in Italia dagli anni ‘50, la democrazia liberale, sebbene impedisca il ricostituirsi di regimi criminali che dominino impunemente senza ritegno, non libera la governance della comunità dalle élite di potere. Non prepara lo spazio pubblico ad una coabitazione politica inclusiva, attiva e consapevole.

La democrazia, nella sua forma liberale attuale, viene spesso aggiogata da tentativi di privarla dei tratti caratteristici che riteniamo dovrebbero essergli propri. Intuiamo, quindi, che un conto è la democrazia in quanto consolidato sistema di governo; altro conto sono le azioni e gli eventi democratici. Nel primo caso abbiamo un sistema collaudato di rituali dal valore nominale e legale, spesso logorati dalla corruzione, nell’altro caso abbiamo insorgenza di democrazia con gesta e azioni: la democrazia come spontanea e autentica energia politica attiva del popolo. 

Che cosa significherebbe questa distinzione, se le gesta e gli eventi democratici insorgessero all’interno della forma di governo che già si proclama democrazia?

Di Cesare chiarisce il senso della sua ricerca di filosofia archeologica, volta a scoprire la dinamica del manifestarsi storico della democrazia, facendo emergere quel che fu l’insorgere della democrazia nell’orizzonte politico della polis greca in una diversa luce rispetto come la democrazia greca viene tutt’ora raccontata e tramandata. La ricerca è archeologica nel senso che il ricercato non è l’origine teorica della democrazia, ma il suo atto di insorgenza nella polis greca. Siccome La ricerca archeologica, infine, fa scoprire che la democrazia greca depone il comando e il fondamento (arché), Di Cesare configura la propria ricerca anche come an-archeologia: la scoperta storico filosofica del nesso ontologico politico tra democrazia e anarchia che irrompe, per la prima volta, nella polis di Atene. 


L’archeologia filosofica impiegata da Di Cesare nell’ambito della storia delle vicende politiche greche, ricercando fessure e crepe anzitutto nei testi antichi da cui trapela il “non detto” sulla democrazia, riesce a introdurre una nuova prospettiva, differente dalle tradizioni storiografiche (monumentali o meno), nel dibattito sulla ricezione contemporanea del nostro più antico passato politico. 
L’importanza di una ricerca atta a dispiegare una nuova visione degli sviluppi iniziali della vita politica occidentale, rivalutandoli smascherando la natura posticcia della tradizione che li riguarda, si dovrebbe misurare in tutta la sua portata soltanto osservando le ripercussioni pratiche connesse alla scoperta dell’esistenza di una simile lettura alternativa e divergente. 

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lai ogni modo, la forte tesi che Di Cesare fa emergere dalle crepe del non-detto storico – dalla interpretazione dei testi greci pervenuti e approfondendo studi di autori come Cornelius Castoriadis, Claude Lefort, Miguel Abensour, Reiner Schürmann, Nicole Loraux, e altri – è che il cuore della democrazia è an-archico, nel senso che l’anarchia non è né solo una caratteristica accanto ad altre, né solo una fase del processo autocostituitivo della democrazia ateniese, bensì il tratto essenziale dell’insorgenza della democrazia tout court. Non può esserci democrazia senza anarchia.

Infatti, riferisce Di Cesare, la democrazia (demoskratos, letteralmente, “la forza del popolo”) viene all’essere proprio nell’atto di deposizione del principio del potere e del comando. La democrazia afferma sé stessa anzitutto attraverso la forza di rimuovere fondamenti e principi ultimi di comando accettati e ubbiditi passivamente. La costituzione democratica è quindi sempre l’operazione politica più complessa, oltre che la più rispettosa della libera pluralità sociale e politica. Al posto di un comando “ristretto” autoritario e oppressivo, la democrazia costituisce comunitariamente lo spazio pubblico del confronto tra pari che decidono sul governo della comunità, senza comandare ed essere comandati.

Perciò, la democrazia è realmente presente non solo quando l’assenza dell’arché libera lo spazio pubblico del conflitto, ma anche allorché il demos della comunità riesce a trovare accordi nel conflitto e a prendere scelte comuni orientate a compiti reali. Altrimenti, o l’inclinazione al caos di una comunità senza più guide, oppure il ritorno di un potere passivamente accettato e condiviso che comanda, dissolvono il politico. Il demos rimane parcellizzato e impotente, perde la positività politica del proprio kratos nello spazio pubblico, se i confronti/scontri politici tra pari non trovano accordi orientati all’azione. Per sventare il potenziale caos infecondo generato dalla deposizione dell’arché, il demos deve realizzare la democrazia an-archica. Come si può fare? 

Di Cesare a questo punto tocca il cuore dell’argomento. Se da una parte cerca di segnare una distinzione onto-politica tra la democrazia liberale odierna – impegnata a risolvere problemi amministrando e creando istituzioni – e la democrazia al suo insorgere, la filosofa d’altra parte riconosce che la realizzazione – temporanea e sempre a-venire – della democrazia passa necessariamente attraverso un processo di progettazione, di regolamentazione. 
Il demos che “sa di potere tutto” deve decidere collettivamente ciò che è bene e ciò che è male, assumendo una concezione di giustizia. Ecco che si ritorna al tema cardine della Repubblica platonica. 
Il modo in cui il demos democratico, rispettando sempre i tratti distintivi che lo hanno liberato dall’arché (turnazione delle cariche per mezzo del sorteggio, isonomia e isegoria), può autocostituire una democrazia che abbia la forza di governare senza l’arché e senza disperdere il proprio kratos nella stasis infeconda, e darsi delle leggi. 

Di Cesare sembra riconoscere nettamente questo aspetto essenziale, senza approfondirlo:

lo spazio dell’interrogazione democratica è anche quello della domanda sulla giustizia. Se non esiste una norma della norma, allora occorre non solo darsi una legge, ma anche decidere ciò che è giusto e ciò che è ingiusto. A questo è chiamata la comunità politica (p. 104).

La pratica del legiferare salva la democrazia dal collasso su sé stessa e al contempo ha la forza di arricchirla. Le leggi democratiche infatti non sono archiche, non possono essere principi di comando o fondamenti ultimi, giacché le leggi, come sappiamo fin troppo bene, si possono sempre riformare, modificare, abrogare. 

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L’apertura della democrazia, che non cessa di autocostruire sé stessa nel coabitare egualitario e anarchico, consiste proprio nel legiferare in una comunità di pari che o si autoregolamenta costantemente, oppure si dissolve nel disordine o di nuovo viene aggiogata da un comando dispotico. Il dissolversi della comunità politica è il solo pericolo intrinseco all’abissalità dell’assenza di fondamento della libertà politica del demos paritario non livellato da un comando supremo, da una sovranità totalitaria. Disordini e défaillances della democrazia divengono condizioni di possibilità predilette per il potenziamento estremo dello strapotere sopraffattore dell’arché: il totale dominio di cui parlò Hannah Arendt
Di Cesare non manca di precisare come 

ciò che ha mostrato la totale Herrschaft è la politica stessa a essere eliminata […]. Arendt era ben consapevole della necessità di prendere decisioni in politica, ma intendeva mettere in discussione quella visione normativo-istituzionale della politica che la riduce alla conservazione di un ordine (p. 126)

Ma un ordine equo e non archico resta la conditio sine qua non per la sussistenza della forza democratica del demos eterogeneo. Nella legge è infatti anche contenuto lo spirito del rinnovamento, ciò che nei termini di Di Cesare è il tratto proprio che consente alla democrazia di esistere. Stupisce tuttavia che su questo aspetto Di Cesare non insista oltre.


È nella natura del lavoro ermeneutico delle fonti fatto con il metodo dell’archeologia filosofica, trattandosi di scarsi documenti tramandati ma sufficienti al compito, rinvenire sia elementi positivi che negativi rispetto alla coerenza di una interpretazione sul passato storico. I detrattori della democrazia greca (Platone e Aristotele) si rivelano allora non solo attenti osservatori, rivelatori della sua natura, ma anche cronisti ed esegeti in contraddizione con sé stessi. È nell’uso delle fonti che fa Di Cesare che ciò sembra evidente. Da la Repubblica al Menesseno, dalla Politica alla Costituzione degli Ateniesi. E non per caso, sono più le riflessioni dei filosofi Platone e Aristotele e dei poeti tragici, che non degli storici Tucidide ed Erodoto, a testimoniare la natura contraddittoria dell’esperienza politica ateniese. 

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Il problema democratico della stagnante conflittualità del popolo si rispecchia oggi nel conflitto dei partiti politici in competizione e non in collaborazione. Essendo il popolo variegato, si costituiscono gruppi partitici, rappresentanti a tutela di interessi necessariamente faziosi. E i gruppi partitici hanno leader più o meno carismatici. La politica fondata sulla leadership partitica fa sempre sì che nel conflitto democratico un leader conquisti consensi e lì il suo potere diventa comando accettato e condiviso. Questo implica comando e obbedienza, supremazia carismatica, ovvero l’arché ripristinato nelle democrazie liberali. 

Questo arché neutralizza la forza del kratos del demos, o meglio la ammansisce, tra promesse e seduzioni, lavorando sulle paure e sulle speranze, che arrestano la dirompenza del confronto democratico “extraparlamentare”, svilendola ad una attesa immobile e depoliticizzata del popolo frazionato del mantenimento di promesse che rispondano alle speranze delle rispettive fazioni e sventino le loro paure. Perciò la democrazia liberale attuale è politicamente divisiva e paralizzante nel modo più assoluto che si possa immaginare. In questo senso, attraverso la vicende dell’aurora democratica attica della polis di Atene, sembra che Di Cesare voglia parlare alla democrazia presente, tanto ai suoi rappresentanti politici, quanto ai cittadini del popolo attuale. 

Di Cesare fa emergere come, a dispetto di ciò che può sembrare, non esista una forma di governo democratica perennemente fondata su dei principi, all’interno della quale si susseguono gli eventi sociali, economici, etc. come se la democrazia fosse uno sfondo politico, la cornice-contenitore delle vicende del popolo.  


Al contrario, la democrazia è un farsi del popolo, e deve dunque incessantemente essere costruita comunitariamente e sempre deve ri-affermarsi rinnovandosi. Non è una forma di governo creata per autoperpetuarsi senza ostacoli, come fu pensata la monarchia moderna. Ciò significa che il popolo, nei suoi confronti e scontri interni tra cittadini, non è un soggetto sovrano come il monarca, con una identità e una individualità definite che incarna il comando per principio, bensì è una entità collettiva sempre in aggiornamento ed in espansione, che autoplasma sé stessa attraverso il solo mezzo politico che può farlo: il kratos il cui contenuto positivo è il conflitto che porta al legiferare tra pari. Mentre il popolo si va costruendo e sempre ampliando deve al contempo sempre anche stabilire di volta in volta un assetto politico capace di legiferare, modificare e riformare tutto ciò che ritiene opportuno. Questo si rivela essere il potere democratico del popolo nella lettura di Di Cesare. Le derive del caos e del dispotismo sono intime alla democrazia, sebbene essa sia una loro auspicabile alternativa, rimane sempre un laboratorio politico collettivo e non un regime politico di governo predeterminato. 

Tuttavia, proprio come i monarchi dell’Ancien Régime avevano dei vincoli e delle responsabilità stabilite e tramandate tenuti a non violare, così alcuni aspetti della democrazia sono stati consolidati, e tesaurizzati vengono tramandati in modo fisso e invariato. La democrazia liberale, infatti, ha delle caratteristiche peculiari invariabili che la contraddistinguono. 


La caratteristica ontologica che Di Cesare riconosce alla democrazia in quanto tale resta però l’assenza del fondamento archico del comando. L’assenza dell’obbligo per il popolo di fare le cose per forza in un determinato modo disposto da una autorità suprema incontestabile, ciò implica la dirompente forza operativa del popolo nel cambiare a piacimento tutto ciò che ritiene, quando lo ritiene. La libertà del popolo è in questo senso assoluta, solo esso stesso può autodeterminarsi. 

Il popolo, però, così come non è un soggetto unitario, alla stregua di un ceto sociale o un’élite di governo, neppure è una entità collettiva unificata e sovrana, che agisce di concerto come una brava orchestra. Caratteristica del demos è l’eterogeneità, dunque la connaturata divergenza. Facilmente si costituiscono “partiti” nel demos libero, proprio perché la diversità di intenti, di scopi, di interessi, cresce ed è irriducibile all’uniformità. Questa eterogeneità resiste e ha resistito anche ai più aggressivi tentativi di livellamento totalitario. L’eterogeneità del demos non è mai dominabile e non è mai riconducibile ad un ordine stabile che si vorrebbe perenne. 

È d’altronde l’eterogeneità del popolo la causa delle regole della democrazia, come la scelta di rappresentanti politici. La democrazia ateniese, per mezzo della turnazione delle cariche attraverso il sorteggio, mirava certamente a massimizzare la partecipazione collettiva alla vita pubblica, cioè al governo della comunità. ma anzitutto l’obiettivo era accrescere la comunità stessa, cioè il popolo.
Nel 1791, Robespierre, in un discorso come accusatore pubblico al tribunale di Parigi disse: 
«Il popolo, questa moltitudine di uomini di cui io difendo la causa possiede dei diritti che hanno la medesima origine dei vostri» 

Il popolo qui è il Terzo Stato, una totalità di cui si può difendere la “causa” in tribunale, mentre il 
demos che fa emergere Di Cesare è una comunità in fieri la cui unificazione è impossibile: un concetto astratto indefinibile, perché troppo generale, quello di un “tutti quanti che si accresce arricchendosi di differenze”; perciò il demos concepito come unificata totalità sovrana semplicemente non esiste. Sorprendentemente, il demos non è affatto un’entità politica definita.


Il demos, perciò, scrive Di Cesare, «non è semplicemente la maggioranza e neppure una classe». 
“Tutti i cittadini” vuol dire tutti coloro i quali entrano nello spazio pubblico. Se quest’ultimo è aperto vuol dire che è illimitato nell’accogliere nuovi membri. Stando così le cose, con l’estensione dell’accesso alla comunità politica a chiunque, a prescindere da titoli o criteri predefiniti, accade l’estensione indiscriminata e illimitata dei pari. I pari diventerebbero, allora, tutti coloro i quali si trovano a soggiornare in una comunità politica per una durata significativa, senza principi oltre l’appartenenza allo spazio pubblico. Senza criteri e senza ragioni discriminanti, l’eterogeneità della comunità democratica è assolutamente insopprimibile. Nemmeno il potere “archico” riesce a eliminare definitivamente l’eterno dissidio, il confronto e scontro della forza democratica.

Questo è il carattere ontologico del popolo: il complessivo frazionamento sociale. Perciò il rapporto tra demos e kratos è sempre un “equilibrio instabile”, così come politica e democrazia sono, infine, riconoscibili come la medesima cosa.

La ricerca di Di Cesare sembra enfatizzare e anche fermarsi su questa importante presa di coscienza sulla democrazia. A nostro avviso, si può aggiungere qualche riflessione.

La natura disordinata del frazionamento della comunità in fieri si organizza in confronti e scontri senza regole, fintanto che il popolo non si dà delle leggi. Le leggi, finché restano accettate e condivise, a prescindere dall’eterogeneità della comunità democratica, sono dunque l’elemento ontologico della possibilità di esistenza della democrazia politica. Con ciò non si vuole elogiare l’universalità livellante della legge. Regolamentando i conflitti interni al kratos del demos, però, è indubbio che la legge stabilizza temporaneamente la democrazia, “frena” il kratos dirompente ed eccedente, e canalizza in un positivo ordine parziale e vulnerabile, sempre riformabile, la tragicità della vita politica democratica, senza tuttavia voler rimuovere le differenze o discriminare. 

Infatti, l’effetto benefico delle leggi resta tale fintanto che non si creano pericolose cristallizzazioni di potere, nel qual caso i decreti diventano abusi repressivi e le leggi da benefico stabilizzatore della dirompente forza democratica diventa strumento di controllo e di censura, di punizione del dissenso e e della critica. Le leggi diventano cioè l’arma di annientamento della democrazia politica stessa, a vantaggio di un diverso tipo di potere, in perenne lotta contro la democrazia. 


La sublime potenza dirompente del kratos è tale da essere incline ad impedire che la democrazia anarchica diventi una forma di governo. Non nel senso che il kratos abbia anche il potere di annientare il demos, bensì anzitutto che la sua potenza ha il potere di annientare sul nascere la democrazia stessa come concreta opzione politica della comunità. In altri termini, c’è un elemento di instabilità disgregante nella democrazia sia dal versante del demos (il popolo è di per sé eterogeneo e in fieri, non unitario e predefinito) sia dal versante del kratos (la forza conflittuale che anima il demos e lo rende tanto capace di destituire l’arché del comando, quanto anche però di impedire un qualsiasi stabilizzarsi duraturo della governabilità del popolo senza arché).

 

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Il destino della democrazia, così intesa, sarebbe perciò quello di non durare: o fallire senza esiti, oppure autodistruggersi periodicamente. La stabilità non sarebbe affatto una prerogativa della democrazia in sé stessa. Essa sorgerebbe già sempre in lotta contro l’arché, come reazione esasperata ad esso, in finestre storico-temporali di crisi della sovranità del comando, per rimuoverlo e poi però cedere il passo a un nuovo ricominciare archico. Cosi intesa la democrazia sarebbe in definitiva un momento di disordine passeggero, destinato ad estinguersi da sè, una anomalia sociale da cui poi viene ripristinato un ordine. Pertanto, dunque, la democrazia quando irrompe nella comunità è un fenomeno tragico e spaesante, che mette a soqquadro una società organizzata da un comando che ordina, e dal quale la società esce smarrita, ma anche eccitata dalla vertigine delle possibilità di una comunità senza più comandanti e comandati. 


Se dunque la sottomissione a un potere fondato di comando indiscusso, passivamente accettato, è proprio di una società frustrata e malata in cui il popolo che la compone paga l’ordine costituito a prezzo della sopraffazione e della discriminazione, d’altro canto l’alternativa democratica, che libera la comunità e la rende anarchica fatica a presentarsi come soluzione, perché fragile e sempre esposta ad un rinnovato cominciamento del dominio quando non dichiaratamente oppressivo, comunque opprimente.

Infatti, oggi ci siamo abituati al fatto che è la sacra democrazia stessa ad essere asfissiante e opprimente. Sono le logiche del mercato e della prestazione continua, le regole della finanza, a cui noi tutti obbediamo, ad essere dominanti e il principio economico ad essere il fondamento ultimo e iniziante del nostro agire e pensare. Questa democrazia attuale, caratterizzata secondo Di Cesere da “un demos senza kratos“, è una peculiare democrazia liberale in cui le leggi faticano ad essere applicate e riformate in chiave democratica, in cui il pensiero della cosa giusta e ben fatta, che dovrebbe garantire un minimo stabilizzatore nello sviluppo della democrazia, si perde all’atto pratico. 

Alla sparuta disobbedienza civile, anarchica e democratica, non seguono effettive risposte politiche.
Il rifiuto di ogni principio e di un cominciamento che prenda il comando non è solo il rifiuto di una legittimazione surrettizia che si pretenda universale, ma è anche il gesto filosofico per eccellenza, il gesto che cioè tende a gettare il pensiero e l’azione umana in un farsi e in un darsi svincolato rispetto alla ricerca di un fondamento ultimo e irrevocabile su cui tutto fondare. Da tempo ormai la filosofia si è resa conto che qualsiasi principio, in quanto puramente teorico, si può far valere solo come costrutto umano, perciò riconoscere un principio come legittimo in modo assoluto e, pertanto, ad esempio riscontrarne il fondamento intorno al quale costruire una comunità politica nel concreto della prassi significa autoilludersi.

D’altro canto, libertà assoluta implica impossibilità di istituire, e dunque molteplici tentativi irruenti di stabilizzare ciò che non può mai assumere forma definitiva: il demos. Tuttavia, compreso che un principio e un fondamento ultimo della vita politica non c’è, allora il compito edificante che appartiene alla libertà della democrazia politica è precisamente di sperimentare politicamente nuove vie, spingersi oltre le idee tradizionali, pensare sempre ad una comunità a venire e non sforzarsi a tutti i costi di preservare nel futuro le direttrici di una comunità già fondata. La sfida della democrazia politica è dunque quella di ordire il cambiamento comunitario, riuscendo a realizzarlo sempre in modo democratico.

Il tema della libertà democratica viene presentato da Di Cesare come l’attività politica di una comunità in cui chi non ha titoli per comandare accede a un potere politico tale per cui nessuno comanda ed è comandato. Questa è la comunità di pari la cui forza dovrebbe decidere politicamente senza più arché.

Occorre subito chiedersi: sappiamo noi anzitutto pensare un potere politico con queste caratteristiche? Oppure, attualmente, ci risulta del tutto impensabile, e abbiamo invece sempre in mente un preciso concetto di potere che è essenzialmente proprio comandare ed essere comandati?

Il termine greco arché è stato illustrato da Hannah Arendt cf. (Tra passato e futuro, Garzanti, 1999), in relazione alla libertà, in questi termini:

la parola greca archein comprensiva dei significati di cominciare, guidare e governare, le facoltà precipue dell’uomo libero, faceva coincidere l’essere liberi con la capacità di cominciare qualcosa di nuovo: solo chi già governava poteva cominciare qualcosa di nuovo. perché costui si era già reso libero dalle necessità e per l’esercizio dei diritti nella polis. Comunque, quanti possedevano tale requisito, non governavano più, diventavano governanti tra governanti, in mezzo ai loro pari. poiché soltanto con l’aiuto altrui il governante, l’iniziatore, poteva veramente agire, realizzare quello che aveva avviato.

La democrazia dunque non inventa la libertà tra pari, bensì – secondo Di Cesare – la novità che introduce è l’anarchia, appunto. Cioè il fatto che i pari diventano la moltitudine eterogenea in costante ampliamento di sé stessa e non solo i membri delle élite di governo. Anche chi non gode di libertà politica secondo i criteri etnici tradizionali diventa un pari politico nello spazio pubblico democratico, e questo vuol dire rovesciamento dei rapporti di uguaglianza e disuguaglianza di cui fa menzione Platone nell’VIII libro della Repubblica, segnalando come la democrazia pretenda l’assenza di diseguaglianza politica tra qualsiasi persona che viene ad essere presente in qualsiasi momento nello spazio fisico-politico della polis. Da un lato, la parità assoluta destituisce il comando di pochi garantito da diritti tradizionali quali il lignaggio o l’autoctonia del cittadino, dall’altro è ciò che costituisce il ‘potere destituente’ che fa della democrazia «non una forma di governo tra le altre, bensì un processo in cui la potenza costituente del popolo si manifesta e si articola, senza mai né esaurirsi né concludersi».

In questo senso, capace di iniziare cose nuove e realizzarle diventerebbe la comunità anarchica stessa, il demos nella sua reale configurazione di moltitudine eterogenea, aperta e inclusiva, che collettivamente pratica quell’attività dell’innovare, che in politica è il legiferare. È il polemos (conflitto) l’essenza del kratos della democrazia e come tale risulta esserne il motore, il suo darsi e anche il suo sottrarsi nella moltitudine della comunità. 


Per questo Di Cesare fa emergere come la stasis sia intrinseca alla democrazia politica in quanto forza operante tra figure diverse che si scontrano non in quanto parti del popolo sovrano da comporre quale soggetto politico della democrazia, che non esiste realmente. In conclusione, Di Cesare sottolinea con forza proprio come l’idea di una moltitudine che si omogenizza nel soggetto politico sovrano, cioè nel popolo, è solo un’idea astratta e illusoria, pericolosa perché foriera di segregazioni e violenze sociali: «ancora oggi la difficoltà insita nel concetto di popolo è che il suo impiego può unire e raccogliere quanto separare ed escludere».


Se la democrazia è un processo politico e non il regime di un uniformato e serrato popolo sovrano, ed è escluso che possa esservi un fondamento in ciò che la sostiene, non si trova nulla qualora si ricerchi una Norma Fondamentale che legittimi il potere del popolo. In quanto risulta senza fondamento e senza soggetto, la forza democratica è sempre un esito positivo e mai definitivo del confronto/scontro di una moltitudine aperta e inclusiva. L’elemento che garantisce questo “positivo” temporaneo e instabile è tutt’ora la legge. Lungi dall’essere universale e livellante, la natura democratica della legge è quella di creare sempre nuove stabilità garantendo sempre rinnovate configurazioni di nuove moltitudini politiche di pari. 


Il sistema legale dovrebbe conservare la natura anarchica della democrazia in un governo con criteri di riferimento, regole in evoluzione, che la rendono politicamente operante nelle comunità a venire, alternativa ai domini politici archici, e dunque sempre pronta a difendersi dall’irrigidirsi in tradizioni sclerotiche, che impediscono l’insorgere di rinnovati conflitti democratici riformatori di nuove moltitudini comunitarie. 

Lorenzo Pampanini

Classe 1994. Laureato in Scienze Filosofiche all'Università La Sapienza di Roma.

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