La questione dell’adesione filosofica al Nazismo da parte di Martin Heidegger è notoriamente diventata un topos della storiografia filosofica. Oggi si presenta anche come argomento inconsistente e fuori tempo massimo.
Siccome le questioni politiche e culturali soccombono oggi alla semplice cronaca quotidiana in un modo mai visto prima, e le attività digitali social catturato gran parte dell’interesse popolare, a chi interessa, perché, e in che modo la questione “passata” dell’adesione di un filosofo come Heidegger al movimento politico nazista?
Martin Heidegger è considerato oggi il filosofo del Novecento che ha rivoluzionato il modo di pensare della filosofia, da Platone a Friedrich Nietzsche compreso. Questa rivoluzione essenzialmente consiste in un nuovo modo di pensare l’essere, l’umanismo e l’essere dell’uomo. Il pensiero di Heidegger, in quanto filosofia della vita storica, ha elaborato una via critica capace di portare ad una profondità ulteriore la comprensione della civilizzazione.
I suoi concetti di storia della metafisica e di verità dell’essere, l’idea di differenza ontologica e di essenza della tecnica, e quindi un più profondo modo di concepire la dignità propria dello stare al mondo essenziale dell’essere umano, hanno segnato per sempre il corso storico non solo del pensiero, ma della civiltà occidentale stessa. Chiunque, ancora oggi, legge Heidegger e pensa con lui non può non trarre delle ripercussioni essenziali sul proprio modo di vivere la vita e di pensare il mondo.
Il pensiero di Martin Heidegger percorre la via della profondità abissale di una trascendenza conservata ma interamente risolta nell’immanenza scaturita dalla rimozione nietzschiana della distinzione reale tra “mondo vero” e “mondo apparente” e quella della distinzione tradizionale tra teoria e prassi.
Dunque, a chi interessa, perché, e in che modo la questione dell’adesione al nazismo di Heidegger?
La posizione più provocatoria, e probabilmente anche la più centrata al riguardo, vale la pena di essere ricordata. Slavoj Žižek, nel suo In difesa delle cause perse (2008), arriva a dichiarare corretta l’adesione di Martin Heidegger al nazismo, in quanto critico del “nazismo reale”, Heidegger avrebbe riconosciuto nel movimento nazista delle potenzialità tradite o rimaste latenti; potenzialità che il movimento aveva nella sua essenza, ma che non è riuscito a realizzare. Žižek vede giusto anzitutto perché fu lo stesso Heidegger ad affermare qualcosa del genere. In una lettera a Marcuse, scrive: «Io mi aspettavo dal nazionalsocialismo un rinnovamento spirituale di tutta la vita»,
In effetti, siccome la concezione del rapporto tra Seyn e Dasein in Heidegger è priva di fondamento metafisico, pura libertà del possibile in quanto dimorare del presente e dell’assente nella radura dell’essere, il filosofo poteva ben vedere nel nazionalsocialismo una nuova manifestazione della verità dell’essere e dell’essere dell’uomo, una nuova possibilità dell’essere che, scuotendo radicalmente tutto l’ente, andava svelandosi storicamente.
Inoltre, il potenziale essenziale del movimento nazista si presentava politicamente con l’intenzione programmatica di rifondare radicalmente la vita occidentale. Questa prospettiva spiegherebbe da sola perché Martin Heidegger non si è mai dilungato sul proprio rapporto con il movimento nazista, anche se, sollecitato, ha invero preso le distanze dai suoi sviluppi.
Che il pensiero di Martin Heidegger sia di matrice conservatrice e sostenga un circoscritto e ripetitivo provincialismo naturalistico non è nemmeno una interpretazione. Il concetto heideggeriano di verità dell’essere e dell’esserci come radura va esattamente in senso contrario. La verità dell’essere non è altro che lo svelarsi di possibilità nell’aperto. Se una qualsiasi di queste possibilità viene svelata dall’uomo nel suo rapporto con l’essere e assume il predominio su tutte le altre (come nel caso della possibilità dell’essere che è la manipolazione tecnica dell’impiego dell’ente), allora questa singola possibilità limita e sbarra la strada all’essenza stessa della verità dell’essere, cioè al manifestarsi di altre possibilità nell’aperto dell’essere. Come scrive il filosofo ne L’essenza della tecnica:
Impegnarsi nel furioso movimento dell’impiegare, che impedisce ogni visione dell’evento del disvelare e in tal modo minaccia nel suo fondamento stesso il rapporto con l’essenza della verità.
Questo è il pericolo che Martin Heidegger individua nel mondo contemporaneo, un pericolo intimamente connesso con la cecità e con l’oblio, di cui l’essere umano attuale, lungi dall’essersene liberato, ne è ancora il prodotto esistenziale.
Franco Volpi e Peter Sloterdijk raccontano la communis opinio di uno Heidegger in cerca di una riabilitazione internazionale, uno Heidegger “senza amici”, quando nel 1946 scrive il testo Über den Humanismus. La delibera del Senato Accademico, convalidata dal governo militare francese, il 19 gennaio 1946 interdisse Heidegger dall’insegnamento, vietandogli anche la partecipazione attiva a qualsiasi iniziativa universitaria. Il filosofo cadde nello sconforto totale, al punto di essere ricoverato nella clinica di riabilitazione di Badenweiler. Solo nel 1952 fu riabilitato, ottenendo anche il titolo di professore emerito.
Il cercare di Heidegger una via di comunicazione con l’esistenzialismo francese per legittimare la volontà di ricondurre la questione dell’umanismo alla sua filosofia per conferirgli rinnovata eco rappresenta una osservazione irrilevante. Rilevante è invece ciò che Heidegger afferma sull’essere umano e sulla nozione di umanismo nello scritto.
Nell’importante discorso del 15 giugno 1997, Regeln für den Menschenpark, Sloterdijk coglie così il senso e il merito filosofico del testo di Heidegger sull’umanismo:
Heidegger si offre di preparare la fine dell’omissione incalcolabile del pensiero europeo, cioè della non posizione della domanda sull’essenza dell’uomo, nell’unico modo secondo lui appropriato, cioè nel modo esistenzial-ontologico. (…) Con questi cambiamenti, apparentemente modesti, Heidegger apre sconcertanti conseguenze: l’umanismo – nella sua figura antica, in quella cristiana come in quella illuminista – viene riconosciuto come la causa agente di un non pensare che dura da duemila anni.
Questi cambiamenti sono riassunti da Heidegger in un passo chiave dello scritto:
[…] Esiliato dalla verità dell’essere ovunque l’uomo gira attorno a se stesso come animale razionale. Ma l’essenza dell’uomo consiste nel fatto che egli è più del mero uomo come ce lo si rappresenta quando lo si intende come un essere vivente fornito di ragione. Qui il «più» non lo si deve intendere come una aggiunta, come se la tradizionale definizione dell’uomo dovesse restare la determinazione fondamentale per poi subire un’amplificazione solo mediante l’aggiunta del carattere esistenziale. Il «più» significa: più originario e quindi più essenziale nella sua essenza. […] L’uomo è più che animale razionale proprio in quanto è meno rispetto all’uomo che si concepisce a partire dalla soggettività. In questo «meno» l’uomo non perde nulla, anzi ci guadagna, in quanto perviene alla verità dell’essere.
Il non pensare che caratterizza la concezione umanistica dell’uomo riguarda l’assunzione di una preinterpretazione dell’essere umano come animale razionale, che vede cioè l’essere dell’uomo come quello di un organismo vivente, un esemplare del genere animale, dotato di ragione. Questa preinterpretazione non riconosce la dignità dell’uomo e la sua vera essenza. Comporta, inoltre, la conseguenza terribile per cui ogni essere umano impara e accetta normalmente di comportarsi fondamentalmente come un animale anche e soprattutto nell’impiego che fa del proprio raziocinio. Ciò significa: l’essere umano usa la propria ragione come un animale, quando essenzialmente non ha nulla a che fare con l’animalità. Martin Heidegger spiega questo punto della concezione dell’umanismo con la forte affermazione che l’essenza dell’uomo è più prossima al divino che alla fisicità organica del biologismo animale.
La cosa sorprende soprattutto perché una simile considerazione risulta a prima vista eminentemente platonica e idealistica: l’essenza più intima e autentica dell’essere umano, che in ultima istanza è l’anima razionale, è l’assolutamente altro alla corporeità sensibile della persona vivente nel mondo empirico, giacché è la nostra “parte” divina.
Martin Heidegger però segnala solo il fatto che l’essenza dell’essere umano sia ben al di là della semplice presenza espressa nella cura pratica degli enti, risieda cioè nella comprensione profonda della propria condizione “estatica” nell’ampio raggio storico del suo esserci, dunque della temporalità universale dell’essere. Così l’essere umano è l’esserci storico nella radura dell’essere. Questa è l’essenza intima dell’umanità in generale colta col pensiero. L’essere dell’esserci umano nella verità dell’essere ha pertanto il proprio carattere autentico in ciò che Heidegger chiama “meditazione” (Besinnung), un comportamento che risulta per noi oggi ancora assai poco accessibile e quindi poco esperito, a vantaggio del comportamento del prendersi-cura costante e ossessivo dell’ente nella sua totalità.
Se leggiamo lo scritto di Martin Heidegger Über den Humanismus troviamo un punto della situazione su quella che possiamo considerare l’autopercezione dell’essere umano cosciente della propria storia trasmessaci dal filosofo Heidegger. Si tratta certamente di una prospettiva, ma il contenuto dello scritto non può assolutamente essere considerato l’opinione del filosofo Martin Heidegger nato a Meßkirch il 26 settembre 1889.
Se volessimo leggere il contenuto dello scritto come l’opinione di un intellettuale che dice la sua, assumendo l’idea volgare della filosofia come pensare libero a vuoto, mostreremmo solo la nostra ignoranza riguardo a cosa rappresenta un filosofo per i posteri. È lo stesso Heidegger a dirci qualcosa di preciso su questo punto:
I pensatori decisivi sono tali perché decidono loro stessi la misura in base a cui noi misuriamo l’essenza e la necessità del pensare.
Heidegger ci informa che il pensatore autentico decide ciò che è degno di essere pensato e il modo in cui occorre pensarlo.
Per Martin Heidegger, il vero filosofo è una guida e un custode della verità che illumina la realtà storica anzitutto agli altri contemporanei e poi ai posteri. I filosofi in ogni tempo sono coloro che portano al pensiero ciò che è degno di essere indagato (fragwürdig).
Qualsiasi filosofo in ogni tempo è la voce che esprime il limite di uno stato storico presente della vita umana. Le analisi più complessive e più profonde su questo giungono alla vita umana collettiva sempre e solo dai filosofi in ciascun tempo.
Nondimeno, a suo modo ciascun filosofo ha i propri limiti nelle proprie profonde disamine complessive della “realtà”.
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Giorgio Agamben ha recentemente dato alle stampe gli appunti che raccolse nei seminari di Le Thor “con Heidegger” degli anni 1966-1968. In una pagina riporta questa osservazione di Heidegger:
Heidegger commenta che comprendere veramente il pensiero di un filosofo significa percepirne il limite e questo è precisamente ciò che il filosofo stesso non può fare. “Voi”, aggiunge a bassa voce, “potete vedere i miei limiti. Io non posso”.
Il limite a cui Martin Heidegger è giunto riguardo l’essenza dell’uomo e dell’umanismo è anche il cuore della sua filosofia. L’essere umano è in virtù dell’essere, stando in un rapporto privilegiato con l’essere.
L’essere umano dà senso all’essere e quel senso lo sa dare in virtù del rapporto privilegiato che intrattiene con l’essere stesso. Una armonia corrisposta, che lo apre a tutto ciò che è in modo da poterlo rendere essenziale. Nello scritto a Beaufret si legge in modo inequivocabile:
L’uomo è essenzialmente (west) in modo da essere il “ci”, cioè la radura dell’essere. Questo essere del ci, e solo questo, ha il carattere fondamentale dell’e-sistenza, cioè dell’e-statico stare-dentro nella verità dell’essere.
L’empirismo antimetafisico di Heidegger è qui solidissimo. Il suo è un realismo trascendente che tutt’ora a stento comprendiamo e soprattutto che ancora non sappiamo vivere.
L’essere dell’uomo, di una vita umana dispiegata e davvero vissuta risiede nella consonanza con l’essere, con tutto ciò che accade e non accade a un uomo nel suo tempo storico. Una concezione dell’essere e dell’essere dell’uomo che pensa un reale diverso tipo di trascendenza, la trascendenza oltre l’ente visto come oggetto su cui concentrare una intera vita.
L’essere dell’uomo che corrisponde all’essere ha sempre a che fare con gli enti e con gli accadimenti storici nel loro complesso, è estatico tra il passato e il futuro che producono ogni presente possibile; l’essere dell’uomo che corrisponde solo agli enti, invece, non ha reale consapevolezza dell’essere stesso né del proprio esserci. La trascendenza che vediamo palesarsi oggi negli sviluppi digitali e tecnologici si inserisce in un superamento integrativo della differenza ontologica pensata da Martin Heidegger, eppure, l’essere dell’uomo nella sua totalità è ancora per lo più immerso nella inconsapevolezza dell’essere, dunque non ha ancora una reale visione storica del proprio esserci. L’essere dell’uomo è una radura dell’essere che deve ancora del tutto di-radarsi.
L’avvenire della verità dell’essere, del dispiegamento dell’essere dell’uomo come apertura di tutto l’essere, è possibile solo con il superamento della primalità dell’ente nel suo complesso, nel momento in cui l’essere umano vede la sua vera essenza abbandonando l’autopercezione di sé come soggettività sovrana-manipolatrice di oggetti. La presupposizione del sistema metafisico di interpretare e praticare la vita e il mondo in base all’essenza dell’uomo concepita come vigile e astuta razionalità calcolante manipolatrice di enti è una possibilità dell’essere, ma non la sola e ultima. Questo è un aspetto cruciale del pensiero di Martin Heidegger che interroga direttamente l’umanità storica contemporanea e ha il potere di insidiare lo stile di vita dell’occidente odierno.
L’essere umano storico nella sua variante occidentale è ancora una versione sofisticamente aggiornata dell’uomo metafisico, soggiorna ancora nella fase della storia dell’essere in cui il solo impiego e la sola manipolazione dell’ente determinano ancora il vivere reale degli esseri umani. L’essere umano è dunque ancora in balia di una spaesatezza (Heimatlosigkeit) in merito all’autocomprensione di sé, le eco delle cui contraddizioni e variabili collaterali appare oggi sotto forma di sofferenze mostruose, depressioni, suicidi, inconsapevolezze terribili, impotenza, fraintendimenti ed egoismi comunitari.
Una nuova fase della storia dell’essere è frenata nel suo avvenire soprattutto dal capitalismo neoborghese, che non si ritrae, nonostante la maturità dei tempi. Il predominio dell’ente è maggiormente preservato dalla mentalità capitalistica, che in virtù del potere economico che esercita, tutto a sé soggioga. Sono richiesti un coraggio e una forza di volontà all’essere dell’uomo di cui, allo stato attuale, dispone in minima parte.
L’essere umano, nota Heidegger, è oggi in ritardo sul proprio tempo e incapace di avere una autentica percezione del proprio essere. Significa: l’essere umano si percepisce e si comporta come un animale dotato di raziocinio, mentre non è affatto essenzialmente questo ente che si autoillude di essere. L’essere umano può fondare interamente la sua vita attiva nella manipolazione dell’ente, ma ciò che autenticamente gli compete nolens volens è la comprensione e la significazione dell’essere nel suo continuo avvenire. Mentre si occupa dell’ente, consapevole o meno, l’essere umano non può non svelare possibilità dell’essere.
Indagare e scoprire per subito fare opera dell’ente, non già indagare e scoprire per loro stessi e per meditare adeguatamente sulle metodologie di indagine e sui molteplici sviluppi che le possibilità delle scoperte possono esercitare sul rapporto dell’essere umano con l’essere, cioè con la “realtà” sempre avveniente, è uno dei più importanti limiti cognitivi che il superamento della visione umanistica pensata da Martin Heidegger può farci superare.