Antropocene o Capitalocene? Oikeios e rapporti di valore in Jason W. Moore

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All’interno del dibattito eco-marxista e non, la critica di James W. Moore al concetto di Antropocene è diventata un riferimento centrale. Il concetto di Capitalocene, coniato da Moore come alternativa politicamente connotata rispetto a quello di Antropocene, è forse il contributo maggiore del sociologo ambientale e storico statunitense. Procediamo analizzando come Moore inquadri l’idea di Antropocene e le sue criticità per poi analizzare in che modo egli rielabori una controproposta.

La critica di Moore all’Antropocene si articola in tre punti[1]. Il primo: l’“Anthropos” dell’Antropocene è un’entità astratta e omogenea, un significante vuoto di contenuto[2]. Presentando l’umanità come un tutto indifferenziato, l’Antropocene non spiegal’origine della crisi ecologica planetaria ma descrive – erroneamente – uno stato di cose. Il secondo: tale prospettiva è il frutto di un presupposto ontologico, anch’esso erroneo, alla base del concetto di Antropocene, il quale fa propria implicitamente la distinzione tra due dominii della realtà, “Natura” e “Umanità”, che interagiscono come due poli chiusi e incomunicanti, due “boxes”[3] scrive Moore. Moore denomina tale assetto ontologico “Dualismo cartesiano”. La sua traduzione sul piano pratico-politico, che innerva tutto il pensiero Verde, l’eco-marxismo e, non da ultimo, la scienza[4], è quanto Moore chiama “Green arithmetics”, aritmetica verde, secondo cui la crisi ecologica sarebbe il semplice prodotto di una somma di fattori: “Natura + Società = Crisi ecologica”. Natura e società preesistono alla crisi ecologica; interagendo, la producono. In questo senso, dietro la lente dell’Antropocene, la Terra viene assimilata a un’unità “cibernetica”[5], in cui le diverse parti che la compongono entrano in contatto come unità esterne l’una all’altra. Infine, il terzo punto concerne l’origine “di breve periodo” dell’Antropocene. La periodizzazione che ne colloca l’inizio in Inghilterra in coincidenza con la Rivoluzione Industriale, e dunque con l’impiego massiccio di combustibili fossili, è miope, vede cioè solo i sintomi di un processo dal più lungo corso che occorre inquadrare attraverso una prospettiva storica definita da Moore, richiamandosi alla scuola dei sistemi-mondo e soprattutto a Braudel, della longue durée.

Il concetto di Capitalocene rovescia questi tre punti: non è l’Anthropos, ma il capitalismo il fautore della crisi ecologica; il Dualismo cartesiano è un’astrazione che nasconde la rete di rapporti e relazioni interne che costituiscono ciò che Moore chiama oikeios, la matrice attraverso cui prendono forma e si sviluppano sempre nuove configurazioni storico-naturali, o, per usare di nuovo le parole di Moore, “regimi ecologici”; infine, l’origine dell’Antropocene va rintracciata nella trasformazione dei rapporti dell’oikeios e del regime ecologico derivatovi cominciata con il lungo XVI secolo e giunta ora al suo sviluppo terminale.

Dialettica delle relazioni

Cominciamo con il secondo punto. Come abbiamo accennato, secondo Moore il problema del “Dualismo cartesiano” consiste nella spartizione del reale in due dominii ontologici distinti, Natura e Società, due dominii incomunicanti e autonomi. Moore specifica tale critica, definendo il dualismo alla base del pensiero verde, da un lato, come un’ontologia sostanzialista, tale per cui le cose sarebbero anzitutto sostanze provviste di specifiche qualità che precedono la loro interazione, e dall’altro, come una logica dell’“either/or”[6], in virtù della quale ogni cosa è anzitutto identica a se stessa e diversa da un’altra, e ogni sostanza può essere o se stessa o qualcos’altro. Dualismo, sostanzialismo, e principio d’identità danno forma ad una Natura composta di sostanze, manipolabili e controllabili dall’Uomo in virtù delle loro identità stabili. La critica che Moore rivolge a questa ontologia si articola su due livelli, uno, più fondamentale, teoretico, e un secondo invece di carattere storico. Dal punto di vista teoretico, egli oppone al Dualismo cartesiano un monismo immanentista che fa leva sul concetto di oikeios. Dal punto di vista storico, invece, Moore cerca di mostrare come il Dualismo cartesiano costituisca un prodotto storico, funzionale alla dinamica di appropriazione e sfruttamento che definisce il capitalismo.

Il quadro ontologico tracciato da Moore, che recupera elementi filosofici provenienti dal postumanesimo, dalla filosofia ANT di Bruno Latour e dalla scuola dei sistemi-mondo, fa collassare la distinzione tra natura e umanità entro un unico piano ontologico, nel quale alle sostanze pre-esistono processi e alle relazioni esterne le relazioni interne. Eccone la definizione: l’oikeios rappresenta la “relazione creativa, storica e dialettica tra, e anche dentro, le nature umana ed extra-umana”[7]. Si tratta del “cardine” del cambiamento storico, il magma nel quale tutte le nature, dagli elementi geologici, sino a quelli biologici e sociali, ma anche cosmologici, interagiscono, e interagendo assumono configurazioni storicamente determinate. In questo senso, la natura non è un substrato, ma una “rete”, un processo generativo e dinamico di continua trasformazione in cui le cose sono anzitutto il risultato di “relazioni” storiche, relazioni che cioè mutano col tempo. All’unità cibernetica della visione cartesiana, Moore oppone l’unità dialettica di una natura-matrice, o oikeios, in cui le cose emergono a partire dalle relazioni: è questo che nell’accezione mooriana significa “dialettico”[8]. E dialetticamente, all’interno di tale magma, si forma il capitalismo, che non è perciò separato dalla rete della vita, come vorrebbe l’aritmetica Green, ma un suo prodotto, vale a dire un assemblaggio “co-prodotto dagli esseri umani e dal resto della natura”[9]. Possiamo provare a immaginare tale processo come se la matrice-oikeios si ripiegasse su di sé per dar forma – al suo stesso interno – al capitalismo, il quale, a sua volta, retroagisce sulla rete della vita riorganizzandola secondo le proprie necessità. Il capitalismo quindi, come l’essere umano, è una “forza naturale”, è “ontologicamente coincidente con, e costituito attraverso, rapporti specificamente legati insieme con il resto della natura”[10]. Moore batte costantemente su questo punto, che ci sembra essere il cardine della sua proposta: la rete della vita ha agency, vale a dire è capace di “fare […] storia”[11]; anzi, solo la rete della vita è il vero soggetto della storia, essendo quest’ultima nient’altro che il susseguirsi delle sue riconfigurazioni temporanee. Il capitalismo rappresenta una modalità particolare e storicamente determinata attraverso cui, da un lato, la natura-matrice si è organizzata, e dall’altro, tale organizzazione ha prodotto effetti sulla natura-matrice stessa.

I “Four Cheaps” e la Natura sociale astratta

Moore può così affermare che il capitalismo non possiede un regime ontologico, ma è un “regime ecologico”, un “modo di organizzare la natura nella sua dimensione storica più fondamentale”[12]. Si tratta quindi di chiarire in che modo il capitalismo in quanto processo, e cioè effettiva dinamica storica co-prodotta da nature umane ed extra umane, progetti, e quindi organizzi, la rete della vita per mezzo dell’accumulazione del capitale, della ricerca del potere, e della co-produzione della natura[13]. Il cardine di tale articolazione risiede nella rielaborazione del concetto di valore proposta da Moore, categoria centrale nel marxismo ma, a detta di Moore, trascurata dai fautori della frattura metabolica. La legge del valore non è un fenomeno riducibile alla forma economica del capitalismo, ma un processo sistemico che organizza il mondo, le cui conseguenze hanno un peso economico centrale. In Marx la sostanza (ciò che dà valore) alla merce è il lavoro sociale astratto. Ma tale forma-valore, aggiunge Moore, è secondaria, dipende cioè da rapporti di valore che, dialetticamente, mettono in rapporto il lavoro salariato con un bacino di lavoro non retribuito necessario ad assicurare la riproduzione del processo di capitalizzazione. Detto in altri termini: l’accumulazione di lavoro sociale astratto è possibile solo nella misura in cui il lavoro non retribuito (umano ed extra-umano) può venire appropriato. Tale zona di appropriabilità non deve essere mercificata, deve cioè rientrare nel processo di valorizzazione come un “surplus ecologico”, costituito da cibo, energia, forza-lavoro e materie prime disponibili “a buon mercato”. Ci interessa sottolineare, a questo proposito, che secondo Moore la natura lavora, e che l’aritmetica Green non tiene in considerazione esattamente questa zona di lavoro non pagato fondamentale per il capitalismo. “Many species—and biological and geological processes—perform work for capital that cannot be “valued” in a system that values only paid work”[14].

Cibo, energia, forza-lavoro e materie prime sono quindi i “four cheaps” di cui il capitale si appropria, ridisegnando volta a volta le “frontiere” della natura, di modo che l’appropriazione, terminato un ciclo di accumulazione capitalistico, possa spostarsi da una zona di lavoro non pagato esaurita ad un’altra. Qui incontriamo una delle critiche principali di Moore alla aritmetica Green, vale a dire l’esistenza di limiti planetari: tali limiti non riflettono l’impoverimento delle sostanze ecologico-naturali che il capitale sfrutterebbe, ma piuttosto l’esaurimento delle strategie di accumulazione. Allo stesso modo, la frattura metabolica non è il prodotto del capitalismo, ma semplicemente l’avvio di un ciclo di accumulazione, che riconfigura globalmente i rapporti di valore disegnando una nuova sfera di approbiabilità. Il capitale può sempre spostarsi da una zona di lavoro non pagato ad un’altra, ridisegnandone i confini; ed è in questo che consiste la sua natura di “progetto”, oltreché quella già esposta di “processo”: il capitale agisce simbolicamente per plasmare la realtà in vista dell’appropriazione di nature a buon mercato. La Rivoluzione scientifica del XVI e XVII secolo sarebbe, per Moore, la manifestazione di questa dinamica, per mezzo della quale spazio e tempo avrebbero subito una ridefinizione in funzione dell’accumulazione capitalistica dando forma a una natura esterna, misurabile e quantificabile. Le grandi innovazioni tecnologiche di questi secoli – telescopi, mappe, progressi nella navigazione, scoperta di nuove terre – hanno risposto a tale scopo. Di qui, la dicotomia tra natura e umanità: il Dualismo cartesiano, infatti, – l’idea che esista una natura esterna di cui il capitalismo può appropriarsi – è un’”astrazione reale”[15], un apparato simbolico prodotto dal capitalismo stesso che, nondimeno, possiede una forza materiale nel dar forma alla costituzione del reale. Moore definisce “natura sociale astratta” la natura del Dualismo cartesiano, mettendo con ciò in rilievo la sua genesi storico-sociale – quale prodotto di una riorganizzazione dello spazio-tempo in funzione dell’accumulazione – e, in ultima istanza, capitalistica. Rileviamo infine come anche la “scienza borghese”[16], che Moore considera come un blocco indifferenziato, venga inclusa in questo quadro sociale-astratto: anche la scienza cioè si fa forza del dualismo cartesiano per pensare il rapporto fra natura e umanità, di cui l’Antropocene è l’ultimo “feticcio”, inteso nell’accezione propriamente marxiana del termine: la naturalizzazione di un rapporto sociale.


[1] Cfr. J. W. Moore, Antropocene o Capitalocene, tr. it. A. Barbero, E. Leonardi, Ombrecorte, Verona 2016, pp. 37-43.

[2] Si tratta di una critica che da Moore in poi è diventata imprescindibile all’interno del dibattito. Cfr. J. W. Moore (a cura di), Anthropocene or Capitalocene. Nature, History and the Crisis of Capitalism, PM Press, Binghamton 2016.

[3] J. W. Moore, Capitalism in the Web of Life, Verso, London-New York 2015, p. 30.

[4] Cfr. J. W. Moore, J. P. Antonacci, Good Science, Bad Climate, Big Lies, Working Paper, World-Ecology Research Group, Binghamton University, 13 June, 2023. Disponibile online: urly.it/3132pm. Ultima consultazione: 30/11/2024.

[5] J. W. Moore, Antropocene o Capitalocene?, cit., p. 29.

[6] J. W. Moore, Capitalism in the Web of Life, cit., p. 29.

[7] J. W. Moore, Ecologia-mondo e crisi del capitalismo, tr. it. G. Avallone, Ombrecorte, Verona 2015, p. 126.

[8] Ivi, p. 20.

[9] Ivi, p. 119.

[10] Ivi, p. 138.

[11] J. W. Moore, Antropocene o Capitalocene?, cit., p. 56.

[12] Ivi, p. 57. 

[13] Cfr. J. W. Moore, The Rise of Cheap Nature, in J. W. Moore (a cura di), Antrhopocene or Capitalocene?, cit., p. 79 e sgg.

[14] J. W. Moore, The Rise of Cheap Nature, cit., p. 90. Su questo punto, si veda la critica di P. Guilibert, F. Monferrand, Ecology/Ontology. A Contribution to Historical Naturalism, in «Dialogue and Universalism», vol. 28, n. 3, 2018, pp. 245-251, i quali sostengono che la natura non lavora di per sé, ma solo quando entra nel processo di capitalizzazione.

[15] Non possiamo ora soffermarci su questo concetto di derivazione Marxiana, che Moore impiega per descrivere la forza materiale di una costruzione “astratta”. Cfr. A. Toscano, The Open Secret of Real Abstraction, in «Rethinking Marxism», vol. 20, n. 2, 2008, pp. 237-284.

[16] W. Moore, J. P. Antonacci, Good Science, Bad Climate, Big Lies, cit.

Giovanni Fava

Classe 1996; filosofia, Antropocene, geologia. Perlopiù passeggio in montagna.

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