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Alla ricerca dell’autenticità: uno sguardo sui processi di turistificazione e patrimonializzazione

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Il dibattito contemporaneo sul turismo appare inesorabilmente instradato in una direzione che definire inclemente appare riduttivo. Tra le molte colpe attribuite al turismo come fenomeno di massa, la più imperdonabile sembrerebbe quella di aver sacrificato la dimensione di irripetibilità del viaggio come esperienza eminentemente soggettiva sull’altare della produzione commerciale in serie. Tale presunto processo di snaturamento, come rilevato dal sociologo americano Daniel J.Boorstin (1962) e in accordo con la critica all’industria culturale proposta dalla scuola di Francoforte, si configurerebbe di fatto come collaterale ai più ampi fenomeni di democratizzazione e redistribuzione della ricchezza, avvenuti a metà del secolo scorso. In sostanza, in una sorta di spinta inflazionistica del leisure, la sublime arte di viaggiare (Boorstin, 1962), sino a quel momento propria di pochi eletti (sostanzialmente aristocratici e alto-borghesi) animati esclusivamente dal nobile intento di elevare la propria anima allargando i propri orizzonti, si trasforma in un bene mercificato, accessibile a un significativamente più ampio segmento della popolazione. 

Dunque, più persone viaggiano, con maggiore facilità e spendendo sempre meno, più è probabile che l’esperienza stessa del viaggio assuma progressivamente una tendenza alla riproducibilità, obliando dunque l’elemento di straordinarietà quasi sacrale che pareva costitutivo dell’esperienza stessa. Boorstin definisce eloquentemente “bolla ambientale” quell’insieme di beni e servizi che il turista medio può acquistare al fine di creare attorno a sé uno spazio familiare, confortevole e riconoscibile. La diretta conseguenza, rileva l’autore, sarebbe tuttavia costituita dall’impossibilità di costruire connessioni autentiche e significative con la realtà del luogo di destinazione.

Paradisi brandizzati

Il fatto che la nostra post-modernità si caratterizzi soprattutto per un accorciamento estremo delle distanze e un aumento sostanzialmente isterico della velocità ha fatto sì che del viaggio si perdesse anche l’idea così tipicamente occidentale e dal retrogusto squisitamente colonialista di “avventura”. Per avventura si intende specificamente l’esplorazione di territori dal sapore ignoto, verginale, la cui caratteristica comune è sicuramente una irriducibile alterità a cui nella migliore delle ipotesi è attribuita una valenza salvifica dal nostro alienante mondo urbanizzato. Oggi non solo la più remota isoletta dell’arcipelago norvegese delle Svalbard risulta raggiungibile in un tempo assolutamente ragionevole, ma è anche probabilmente dotata del suo personalissimo brand, corredato di un corollario estremamente specifico di immagini, pratiche, discorsi ed esperienze riproducibili in serie e per questo adatti a farsi fonte di lucro. 

La costruzione di tale brand si impernia soprattutto su quel desiderio di autenticità che animava i primi esploratori romantici e che ad oggi resta comunque proprio di chiunque viaggi. Non è poi molta la differenza tra un hipster che viaggia solo a piedi e una carovana di turisti di mezza età a cui è stato venduto il più standardizzato pacchetto vacanze. Entrambi cercano un’alterità che risulti autentica e che soddisfi quell’atavico bisogno di accertarsi che oltre il proprio incomprensibile presente esista dell’altro, più vero, più autentico, ancora dotato di un potere salvifico che possa redimerci o trarci in salvo. 

Autenticità messa in scena

Ma l’autenticità, intesa come desiderio di penetrare profondamente, di compartecipare intimamente della vita vera, del nucleo di un luogo, può effettivamente essere anche solo sfiorata? Secondo Dean Maccannell sostanzialmente no. Il sociologo americano si serve invece dell’espressione staged authenticity, con il fine di descrivere quel processo per cui i residenti di una destinazione turistica diventano comparse in una performance coestensiva alla realtà stessa messa in piedi per il turista, convinto così di stare avendo accesso a quelle back regions (Goffman, 1959) che ardentemente desidera e che poi riterrà di essere l’unico privilegiato ad aver scoperto. 

Il risultato è sostanzialmente una inevitabile gerarchizzazione tra soggetti che osservano e soggetti osservati, nella quale i secondi diventano in pratica inscindibili dal landscape in cui sono inseriti e la loro funzione è provarne attivamente l’autenticità come una sorta di pedigree. Emerge così una pratica estrema di ricostruzione culturale post-hoc che attinge dalla tradizione locale (o presunta tale) per produrre campionari di elementi proposti come autentici, ma comunque sapientemente mescolati all’idea che lo sguardo egemone del turista ha dell’autenticità locale e li rende virtualmente sempre fruibili, dietro pagamento.

Spesso si tratta di luoghi, pratiche e immagini che nel passato hanno subito processi di marginalizzazione e condanna sociale e morale, come la taranta o i Quartieri Spagnoli di Napoli, ma che adesso, adeguatamente ripuliti e, soprattutto, addomesticati attraverso la proposta di una loro versione posticcia e sempre ripetibile, diventano veri e propri patrimoni che rimandano a un passato necessariamente concluso e per questo rassicurante, se guardato da un vetro. 

Disneyland a Venezia

Una conseguenza dei fenomeni di turistificazione e patrimonializzazione consiste quindi nella sottrazione sistematica di spazi, luoghi, pratiche e persone ai circuiti della storia, per farne oggetti di scena di un passato che ha solo funzione commemorativa, oppure di specifiche fantasie escapiste, che proiettino il turista nell’altrove autentico e intimo tanto sognato.

Mete turistiche di fama internazionale come Napoli, Firenze ma soprattutto Venezia possono essere così legittimamente ascritte a quel processo che Giacomo-Maria Salerno, nel testo Per una critica all’economia turistica: Venezia museificazione e mercificazione (Quodlibet, 2020), definisce “disneyficazione“. Per disneyficazione si intende la messa in scena artificialmente ricostruita di un’utopia disposta per la fruizione turistica, che attinge a immaginari collettivi sedimentati (immaginari e fiabeschi nel caso di Disneyland, storici nel caso di molte città d’arte), riproducendoli in forma edulcorata e dunque lucrabile. All’interno del parco tematico, la vita contingente non è contemplata né tantomeno attesa: tutto quello che avviene è funzionale a fare da sfondo all’esperienza del turista, che è l’unico vero soggetto attivo e destinatario.

Più recentemente, è emblematico il caso di Borgo Egnazia, amena località nel brindisino, ricettacolo della più verace tradizione salentina e dunque perfetta candidata a fare da sfondo al G7 per l’Italia meloniana dell’autentico e del made in Italy. Il sito lo descrive evocativamente nel seguente modo:

È un mondo in miniatura di colazioni fatte in casa preparate da Massaie pugliesi , deliziose esperienze culinarie sia gourmet che tradizionali fortemente legate alla Dieta Mediterranea e poi Vair , la poetica Spa pugliese, due splendide spiagge private (Cala Masciola e La Fonte ) e lo scenografico San Domenico Golf circondato da ulivi secolari con viste che si estendono fino al mare.

Il tutto accessibile pagando profumatamente, perché borgo Egnazia, checché ne lasci intendere il nome, non corrisponde ad alcun luogo realmente abitato: si tratta di un residence extra lusso, proposto come sospeso al di fuori di qualunque contestualizzazione spazio-temporale. Qualcuno potrebbe osare suggerire che forse sottoporre all’attenzione degli illustri rappresentanti del forum intergovernativo che la provincia in cui si trova Borgo Egnazia è interessata da una situazione di assistenza sanitaria al collasso non avrebbe portato lo stesso lustro al nostro Paese. 

Passivi, ma fotogenici

Il risultato più immediato e più incisivo di tali processi è soprattutto la sparizione e progressiva erosione e allontanamento dei residenti e dei loro spazi, attraverso espropri e aumento incontrollato dei prezzi degli affitti. In altre parole, scarseggiano le case e proliferano gli affitti brevi destinati ai turisti. Patrimonializzazione e disneyficazione procedono quindi di pari passo, si compenetrano e alimentano vicendevolmente; e possono dirsi pienamente raggiunte quando i destinatari delle politiche locali non sono più gli effettivi residenti, poi costretti a emigrare, ma i soli turisti. Spazi, edifici, discorsi e narrazioni che avrebbero funzione di espressione dell’agentività della comunità locale e che sono frutto dell’interdipendenza dell’umanità con il proprio territorio di radicamento all’interno di un divenire storico, subiscono dunque un effettivo processo di snaturazione. Nel nome della preservazione, sono di fatto condannati a un’eterna passività, ma quantomeno verranno bene in foto.

Gli interrogativi aperti restano parecchi, in un dibattito che prolifera di contraddizioni in termini. Come si può condannare in toto il turismo, laddove diviene di fatto la prima fonte di reddito, soprattutto in contesti con tassi di disoccupazione allarmanti? Ė possibile sottrarre il patrimonio locale all’erosione del tempo senza farne una reliquia intoccabile? E soprattutto, può esistere un turismo sostenibile che non si approcci all’identità locale con modalità sostanzialmente estrattive? Quale può essere, in questo senso, il rimedio all’iperturistificazione che sta portando allo spopolamento di moltissimi luoghi attraverso politiche attivamente lesive per le comunità residenti? Secondo Salerno, la risposta starebbe non solo nell’adozione di politiche che limitino nel breve termine la moltiplicazione di b&b, come quelle adottate di recente a Barcellona; ma soprattutto in un cambiamento radicale di prospettiva che reinserisca le città nei circuiti della storia, restituendole alle comunità locali affinché possano tornare ad abitarne gli spazi e significarli attraverso categorie proprie, affinché i residenti di Venezia non vengano sospinti inesorabilmente verso Mestre dal prezzo degli affitti, per fare posto a orde di turisti in breve permanenza. Affinché le signore pugliesi che impastano orecchiette trai vicoli di Bari vecchia non siano più solo le (neanche troppo) inconsapevoli protagoniste del nuovo contenuto aspirante virale su Tiktok ma abbiano accesso a infrastrutture, sanità e trasporti così che la loro città possano non solo rappresentarla in una performance ma pure viverla.

Mariagiulia Gargiullo

Nata a Brindisi nel 2002, studia Antropologia, religioni e civiltà orientali all'università di Bologna. Interessata in particolare all'econtransfemminismo e alle filosofie non occidentali, sogna di vivere come Laura Ingalls de La casa nella prateria, ma leggendo Mark Fisher e Donna Haraway.

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