Su “Privatocrazia” di Chiara Cordelli

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Non si sa se siano di “destra” o di “sinistra”, e questo è solo l’inizio. In Italia arrivano con un governo tecnico, quello di Amato, nel mezzo della crisi della Prima Repubblica. Senza visioni di lungo periodo, senza essere sorrette da ideologie più riconoscibili come in altri paesi – il tatcherismo britannico -, ma solo dall’imperativo di contenere il debito pubblico, rimettere a posti i conti. Le privatizzazioni italiane arrivano nel 1992; l’anno di Tangentopoli, delle stragi mafiose, e dell’Unione Europea. Nascono nell’emergenza. Bisogna sistemare i conti per poter entrare nel Mercato Unico Europeo: da pochi mesi è stato firmato il Trattato di Maastricht, ci sono pressioni sulle politiche di bilancio. Nell’estate di quell’anno, l’Iri, l’Enel, l’Ina e l’Eni diventano società per azioni (legge 359/1992), e il loro pacchetto azionario passa nelle mani del Tesoro. Da allora, il programma di privatizzazione delle imprese pubbliche si è imposto a strategia comune, mettendo d’accordo sia i governi incaricati di destra, sia quelli di sinistra, forse contribuendo a svuotarne di senso il discrimine distintivo. Il dibattito sulle dismissioni statali è così riuscito a diventare impermeabile dalle considerazioni strettamente politiche, perché unanimemente consacrato a problema tecnico, al di fuori dei giochi di partito. Non è bastato il crollo del Ponte Morandi di Genova, né – da ultimo – la strage ferroviaria di Brandizzo, perché si aprisse al dibattito pubblico il confine tra mercato e tenuta democratica di un paese, tra diritto privato e diritto pubblico, profitto e interesse generale.

Privatocrazia (Mondadori, 2022) di Chiara Cordelli, filosofa dell’Università di Chicago, ha il merito di inserirsi in questo vuoto, affrontando le privatizzazioni dal punto di vista della legittimità politica. La domanda riguarda precisamente la legittimità di potere di uno Stato che si affida alle privatizzazioni: prescinde dalle valutazioni tecniche di merito (l’efficienza economica, il calcolo costi/benefici), ma vuole giudicare la forma di governo che affida parte di sé ad agenti privati. Se il privato diventa co-responsabile della cosa pubblica, il suo non è più semplicemente un ruolo ancillare, facoltativo, “ausiliario” – come si dice spesso -, rispetto allo Stato, ma finisce per sovrapporsi al suo potere, occupandolo, e come tale va giudicato.

Se lo stato agisce tramite il privato, il privato si trasforma a sua volta in un agente dello Stato – ecco perché si può parlare appunto di privatocrazia. Dobbiamo quindi tornare al nostro quesito iniziale: può un sistema privatocratico governare in modo legittimo? (p. 7)

Il ragionamento è chiaro. Il problema da cui si prendono le mosse è l’incompatibilità dello stato democratico con gli effetti delle privatizzazioni. Ora, tra l’interesse di un privato e l’interesse per la cosa pubblica c’è una lunga tradizione illuminista che ha reso ragione della loro differenza, argomenta Cordelli. Una differenza che passa sia – kantianamente – dallo Stato inteso come l’unica entità che assicura la determinazione e l’attuazione dei diritti e dei doveri dei cittadini «in maniera pubblica, reciproca e rappresentativa della volontà di tutti» (p. 9), sia – roussovianamente – dall’idea di rappresentanza democratica, che insieme vanno a definire un’idea repubblicana di «autogoverno democratico» (p. 17).

In poco più di vent’anni, pare che la scia ininterrotta di dismissioni statali abbia inarcato la volontà pubblica di un paese, il nostro, nella direzione di un ritorno dello stato di natura, lo stato del dominio dell’uno sull’altro – o della “precarietà del diritto”, come diceva Kant. Cioè in una condizione pre-politica in cui domina la volontà unilaterale del più forte – fosse anche formalmente vincolata da un contratto. Se insomma le privatizzazioni delle imprese pubbliche fanno ripiegare lo Stato nella condizione da cui si era affrancato, lo stato di natura, stiamo forse entrando in una zona grigia di confine, privata di una ragione per la sua legittimità di potere: siamo di fronte a una forma di governo non legittima.

Cordelli formalizza la sua posizione individuando tre condizioni minime dell’autogoverno democratico:

  1. Il “controllo direttivo”, cioè quella capacità di vigilanza che serve per prevenire gli abusi di potere;
  2. La vigilanza civica;
  3. La capacità – formale e sostanziale – di influenzare le decisioni pubbliche (per mezzo dei canali democratici).

Attraverso una panoramica dei settori che più si sono piegati alle esternalizzazioni – la sanità, l’istruzione, a cui sono dedicati i due capitoli centrali – insieme all’enfasi odierna sulla filantropia che fa da pendant sintomatico, in Privatocrazia ne viene mostrata la loro più evidente smentita: le strategie di mercato nella gestione degli affari pubblici portano ad esternalizzare anche la funzione di “supervisione democratica”, affidata ad appaltatori che, forti della minaccia di ritirare le proprie risorse, assumono sempre più potere di condizionamento – e quindi di pressione politica. C’è una perdita di controllo direttivo, di vigilanza civica, essenzialmente corrotte alla radice, che finisce per trascinare lo Stato democratico in un’autocontraddizione: vengono meno i principi fondatori, i presupposti per i quali era sorto, ovvero l’uscita dallo stato di natura.

La critica di Cordelli si rivolge al cosiddetto «New Public Management», alle ondate dell’outsourcing e del contracting out che dagli anni Ottanta hanno contribuito all’erosione dello Stato socialdemocratico. Se dunque il neoliberismo «dà vita a un sistema in cui l’esercizio del potere politico è sempre più orientato a scopi privati» (p. 99), siamo di fronte a una riproposizione delle dinamiche di dominio e di subordinazione – chiaramente incompatibili con i principi liberali di ispirazione kantiana – che costringono a una presa di posizione normativa.

Occorrerebbero limiti costituzionali alle privatizzazioni – questa è la proposta di Privatocrazia. Ciascuna Costituzione dovrebbe dunque contemplare dei vincoli concepiti non solo in termini di diritti individuali, ma anche di quelli collettivi, cioè di prevenzione ai “mali sociali” – compresi gli esiti che de jure potrebbero derivare dalle privatizzazioni. Cordelli cita a proposito l’articolo 43 della Costituzione Italiana, cercando di rivitalizzare un’espressione precisa che lì compare: «Ai fini di utilità generale»[1]. Si tratta di un concetto – quello di “utilità generale” – ampiamente dibattuto nel corso degli anni Sessanta[2], quando il settore delle radiotelevisioni fu affidato a una società privata – la RAI, e la Corte Costituzionale non intervenne, respingendo l’interpretazione di chi vedeva contraddizione tra l’esigenza di utilità sociale e l’affidamento ai privati.

Ora, è proprio in questo passaggio conclusivo che forse emergono alcune tensioni di Privatocrazia. Le considerazioni di Cordelli, del tutto condivisibili (e ragionevoli anche per senso comune), si fermano a un auspicio vago e indefinito, quello di un’«umanizzazione della burocrazia» di un governo solo allora legittimo, e che rispecchiano la logica di metodo delle premesse. Una logica di metodo liberale, quasi comparativa, “astratta”, che valuta la realtà a partire da categorie politiche (l’«autogoverno democratico»), ma non da un punto di vista che ne è immanente.

Certamente il risultato dell’impostazione ‘sopraelevata’ di Privatocrazia permette di prescindere dalle valutazioni economiche e dal calcolo costi/benefici (valutazioni tuttavia non tralasciate: le privatizzazioni italiane, scrive Cordelli, non hanno portato ai risparmi presunti per le quali erano state inaugurate), per poter giustificare – a priori – l’illegittimità della privatocrazia. Per poter insomma sancire l’illegittimità a prescindere dal riduzionismo tecnocratico, o dal fatto che i privati siano mossi o meno da scopi lucri (potrebbero infatti rispettare perfettamente il principio dell’”utilità socio-economica generale”, ma questo non sarebbe rilevante). D’altra parte, proprio la presa di distanza dal piano fattuale e descrittivo della realtà – l’impostazione di metodo liberale – pare riflettersi nella mancanza di una proposta realmente normativa e costruttiva, in termini di realizzabilità. L’autrice si limita a offrire cornici di legittimità, ma la mancanza di una teoria della transizione – o di una proposta istituzionale concretamente realizzabile – la avvicina più all’ideal theory rawlsiana che alla non-ideal theory (e, va da sé, alla teoria critica). Una ideal theory, quindi, che restando ancorata a una concezione statuale classica – repubblicana, rappresentativa, costituzionale – non riesce a problematizzare il nostro presente, quello dello svuotamento di capacità del potere statale in un contesto post-sovrano e transnazionale.

Si ha per questo una sensazione di incompiutezza nel leggere le conclusioni, perché appoggiate su modelli astratti e isolati: ci si chiede quale forma specifica di Stato, ad oggi, sul piano dei rapporti di forza della cosiddetta “anarchia internazionale”, possa avere il potere di dare corpo a un “autogoverno democratico”, o quale tipo di società possa ambire all’attivazione della “vigilanza civica” – posto che siano concetti ancora adattabili ai nostri tempi. Non sono domande sterili, ma essenziali per integrare lo sguardo – lodevole – di Privatocrazia.


[1] “A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale” [Art. 43 Cost.].

[2] Antonio Ignazio Arena, “Un tentativo di individuare limiti alla privatizzazione nella Costituzione italiana”, «Costituzionalismo.it», 2, 2020.

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