La proposta del filosofo Yuk Hui consiste nel ripensare i concetti di “tecnica” e “tecnologia” a partire da una prospettiva ontologica, sottolineando cioè come la tecnica non vada intesa solo in termini strumentali ma possegga invece una dimensione metafisica, legata al modo in cui ciascuna cultura inserisce l’oggetto tecnico all’interno di uno specifico quadro cosmologico e gli dà significato a partire da esso. Entrambe le dimensioni della tecnica sono vere: essa, scrive Hui, è sia antropologicamente universale, in quanto strumentalità che assolve a una funzione di estensione corporea e di esteriorizzazione delle capacità mnemoniche, sia antropologicamente non universale, poiché acquista significato solo entro una più ampia contestualizzazione cosmologica che varia a seconda del contesto.
Questa rivalutazione del concetto di tecnica è elaborata da Hui attraverso un confronto con pensatori che hanno insistito sulla componente ontologica della tecnica, e il suo ruolo nella costituzione della storicità umana. Dal suo maestro Bernard Stiegler e dalla linea franco-tedesca a cui quest’ultimo si riconnette, Hui recupera l’idea della costitutiva tecnicità dell’umano, vale a dire, la concezione secondo cui gli esseri umani non potrebbero né esistere, né evolvere, né venire concepiti prescindendo dalla produzione di artefatti tecnici: la tecnica, da questa prospettiva, possiede una funzione “antropogenica”. Questo tesi ontologica e insieme antropologica viene installata da Stiegler all’interno di una filosofia della storia in cui il ritmo del divenire temporale è scandito dalla successione epocale dei sistemi tecnici, e dagli effetti di rimodulazione antropologica da essi prodotti. Da Gilbert Simondon – anch’egli interno alla tradizione di filosofia della tecnica centrale per Stiegler – Hui riprende invece l’idea che la tecnofobia della cultura contemporanea di cui Simondon rivendica la centralità ontogenetica. Simondon proponeva una “cultura tecnica” quale rimedio a questa incomprensione, capace di attribuire all’oggetto tecnico una posizione non oppositiva rispetto alla natura e riunificarlo al suo “sfondo”, superando in questo modo la distinzione fra tecnica e natura.
Nel suo libro Cosmotecnica, Hui innesta quindi la lettura stiegleriana della tecnica intesa come costitutiva dell’umano e determinante del divenire storico sulla prospettiva simondoniana dell’oggetto tecnico quale ente dotato di una propria autonomia ontologica, sostenendo come la tecnica sia sempre, anche, una “cosmotecnica”, vale a dire un’espressione dell’«unificazione tra ordine cosmico e ordine morale». Ordine cosmico, perché ogni cultura fa esperienza della tecnica coerentemente al quadro cosmologico in cui la tecnica è inserita. Ordine morale, perché la funzione della tecnica è a sua volta determinata dalla cosmologia. Il rovescio di questa tesi è che, secondo Hui, non esiste un’essenza univoca della tecnica, ma ogni tecnica riceve la sua essenza a partire dalla cosmologia in cui è inserita: «il concetto filosofico di tecnica non può essere assunto come universale».
A questo relativismo cosmotecnico, che Hui analizza ripercorrendo l’evoluzione delle diverse cosmotecniche alternatesi nel pensiero cinese dalla classicità ad oggi, si sviluppa parallelamente una tendenza storica più generale, che Hui chiama “modernizzazione”, definita da una tensione fra due elementi. Da un lato, la modernità coincide con un aspetto antropologico, legato all’incoscienza tecnologica che caratterizza l’essere umano. Quest’ultimo infatti, pur essendo per costituzione un essere tecnico, la cui memoria e operatività dipendono strutturalmente da supporti tecnici, tende a screditare il ruolo “antropogenetico” posseduto delle tecniche. Dall’altro lato, sul piano storico, secondo Hui è in corso una progressiva integrazione delle cosmotecniche entro un’unica cosmotecnica globale – il capitalismo –, che appiattisce e annulla le differenti cosmotecniche regionali: «la ragione tecnologica si sta espandendo fino al punto di avviarsi a diventare la condizione di tutte le condizioni, la possibilità di tutte le possibilità». L’Antropocene, secondo Hui, è il momento in cui questa tensione esplode, portando in primo piano il ruolo della tecnica all’interno del divenire storico e, insieme, aprendo la possibilità di una «biforcazione», vale a dire di una «reinvenzione» di una cosmotecnica ad esso alternativa.
L’Antropocene viene quindi inquadrato da Hui come l’esito necessario dell’incoscienza tecnologica occidentale, e il suo prolungamento altrettanto necessario: «la modernità» scrive Hui «continuerà necessariamente a propagarsi». Hui non identifica un soggetto della trasformazione storica, ma inscrive quest’ultima sul piano destinale dell’essere – al quale, specularmente, occorre far fronte attraverso soluzioni altrettanto metafisiche. Non si tratta cioè di «ridurre l’inquinamento», scrive Hui, ma di «ripensare una cosmotecnica globale» per uscire dalla modernità «attraverso la modernità», vale a dire arrestare la sincronizzazione delle cosmoteniche entro un unico piano planetario per mezzo dell’elaborazione di una cosmotecnica adatta alla dimensione «tecno-politica globale».
Il punto centrale dell’analisi di Hui è che esista una logica instrinseca all’espansione su scala planetaria del sistema tecnico avviato con la modernità. Si tratta di una logica che Hui definisce “organica” o organicistica, che mira all’integrazione entro una totalità chiusa delle parti che compongono la totalità stessa – in questo caso, i sistemi tecnici. La cibernetica ne rappresenta l’esemplificazione più matura. Cosa significa, in questo caso, “organico”? Nella sua definizione essenziale, secondo Hui, l’organismo designa una totalità la cui struttura viene mantenuta per mezzo delle operazioni effettuate dalle parti della totalità stessa. Ma se in Kant – che Hui individua come l’origine di questa concettualizzazione, in cui l’organismo è indicato come «la nuova condizione del filosofare» – tale paradigma ha valore epistemologico, viene cioè impiegato come principio esplicativo per rendere ragione del vivente e soprattutto quale condizione epistemologica del filosofare, con la cibernetica esso subisce un dislocamento ontologico. Macchine ed esseri viventi assumono qui lo statuto di organismi, sono organismi; obbediscono cioè alla logica della strutturazione intrinseca mediante ricorsività.
La rete di sistemi tecnologici (di cui Hui però non definisce mai le caratteristiche specifiche) estesasi su scala planetaria supera le capacità operazionali dei singoli oggetti tecnici così come le capacità cognitive di qualsiasi individuo umano, integrandoli all’interno del circuito ricorsivo che struttura la «mega-machine» cibernetico-planetaria. La cibernetica rappresenta quindi un progetto metafisico, la cui traduzione storica coincide con il passaggio dall’inorganico all’organico. Le macchine, da «organized inorganic» – combinazione soggettiva di macchine e lavoratori, direbbe Marx –, divengono «organizing inorganic» – o, sempre in termini marxiani, organismo di produzione totalmente oggettivo, che funziona in maniera ricorsiva per produrre le proprie strutture e i propri pattern operazionali. Per usare il lessico simondoniano ripreso da Hui, nell’epoca attuale la tecnica da figura integrata all’interno di uno sfondo cosmologico diventa sfondo di se stessa; la sua autonomia coincide con la logica della ricorsività che si è sin qui spiegata.
Ora, secondo Hui, non si tratta di invertire questo processo, ma piuttosto di riconcettualizzare la relazione tra essere umano e macchina, spinta dall’organizzazione cibernetica del mondo in direzione di una totalità chiusa. Per il filosofo di Hong Kong, occorre piuttosto «risituare la tecnologia», vale a dire inventare una nuova cosmotecnica che «liberi» la tecnologia. Hui non specifica chi sia il soggetto dell’invenzione della nuova cosmotecnica (se non, come si legge, “lo spirito del mondo”), né cosa significhi “inventare” una cosmotecnica, e cosa, concretamente, debba seguire in termini materiali a tale invenzione; ciò che specifica è che, la «nuova condizione umana» inaugurata dalla tecnologia richiede un cambio di paradigma in campo politico, un cambio di paradigma che includa all’estensione planetaria della tecnologia e che, perciò, Hui denomina «pensiero planetario». Nel suo lavoro ad oggi più recente, Machine and sovereignity, si trovano sviluppati i punti cruciali di un tale paradigma e, parallelamente, il tentativo d’articolazione di una «techno-politics» globale. Coerentemente a quanto sinora detto, il punto cruciale di questa nuova forma di sovranità coincide con «portare la tecnologia sul primo piano della filosofia politica», vale a dire riconnettere la sfera del politico a quella della tecnica per dar forma a ciò che Hui chiama Tractatus Politicus-Technologicus. Occorre, scrive Hui, «fondare la filosofia politica nella tecnologia». In estrema sintesi, la proposta avanzata da Hui si basi su due tesi: 1) la necessità del superamento dello stato quale forma politica di governo adatta alla nuova condizione planetaria; 2) l’idea di una cosmotecnica “organologica” come alternativa all’organicismo in direzione – lo si è visto – del quale si muove l’attuale cosmotecnica globale, assimilato da Hui, in termini hegeliani, allo spirito del mondo.
Per quanto riguarda il primo punto, si tratta del controcanto politico della tesi già esposta sull’organismo cibernetico, di cui la forma-stato sarebbe l’attualizzazione politica. Lo stato, in altri termini, costituisce la realizzazione politica (ideale) della cibernetica – una realizzazione di cui Hegel rappresenta il teorico più avanzato. Da un lato infatti, secondo Hui, Hegel vede nello stato il culmine della ragione e soprattutto la forma oggettiva in cui la libertà e la vita etica sono possibili. Dall’altro, il concetto di stato è dedotto logicamente dal metodo dialettico, che trova proprio nella forma organica il suo compimento. Ma in Hegel tale paradigma resta, continua Hui, ideale, vale a dire è impiegato come la sua forma ancora irrealizzata, laddove invece le macchine cibernetiche nel Ventesimo secolo hanno concretizzato tale forma. È l’attuale congiuntura tecnologico-politica non solo a rendere effettivo tale ideale, ma fare appello al superamento dello stato stesso quale unità organismica. Lo sviluppo tecnologico ha acquisito un grado di autonomia tale da non seguire il volere politico dei nostri leader: per questo motivo, anche lo stato così come concepito da Hegel dev’essere superato in direzione di una tecno-politica planetaria.
Per quanto riguarda il secondo punto, Hui deriva il concetto di organologia dalla riflessione di Bergson. Secondo Bergson, gli strumenti tecnici costituiscono organi artificiali che amplificano le capacità dell’uomo, permettendogli di superare i limiti della sua struttura biologica. Tuttavia, questa estensione non è neutrale: se la tecnica si sviluppa in modo puramente materializzante, corre il rischio di ridurre l’essere umano a un mero esecutore meccanico. Se invece viene integrata all’interno di una visione più ampia, denominata da Bergson “spiritualizzante”, può diventare un mezzo per l’espressione dello slancio vitale, cioè della forza creativa che anima l’evoluzione della vita.
È in questa seconda direzione che muove la proposta di Yuk Hui: si tratta di integrare la tecnologia all’interno di un orizzonte politico ed epistemologico che ridefinisca i propri fondamenti e le proprie finalità. In questa prospettiva, il superamento dello stato come forma politica prelude, scrive Hui, ad un nuovo ordine basato sulla «tecnodiversità», ovvero sulle pluralizzazione delle tecniche, e su una governance ancorata a un’intelligenza collettiva capace di orientare il destino tecnologico dell’umanità. Mentre la “tendenza” razionalizzante della tecnologia muove in direzione della chiusura del pianeta entro un sistema cibernetico autonomo (la tendenza “materializzante” dell’organologia bergsoniana) Hui denomina “technodiversity” la tendenza opposta, in cui alla chiusura fa fronte quest’idea insieme politica ed ontologica di una moltiplicazione delle tecniche, presupposto di una nuova forma di “pensiero planetario”.