Pensare la storia, pensare il presente: quattro modelli di temporalità

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La filosofia, diceva Hegel, è apprendere il proprio tempo attraverso l’elemento del concetto. Ma che cos’è il “il proprio tempo“? Il problema della temporalità e del suo rapporto con la storia attraversa l’intera filosofia dalla modernità in poi, ed è ritornata oggi al centro del dibattito a seguito dell’irruzione nel nostro presente, da un lato, dello sviluppo tecnologico, che sembra tracciare reti di connessione globali proiettandoci in un eterno presente, e dall’altro, della crisi ecologica, che ci mette a contatto con i ritmi lunghi della Terra, ritmi che le dinamiche umane e sociali. Come articolare allora questo rapporto? Come pensare il presente? Nel seguito, a partire dalle riflessioni di alcuni importanti filosofi di questo e del secolo scorso, proveremo ad abbozzare una soluzione, basata sull’idea di “multitemporalità” o “storia a strati”.

Hartog e il regime di temporalità

François Hartog ha coniato il concetto di “regime di storicità” per registrare le temporalità che strutturano e ordinano i fenomeni sociali e culturali.  Si tratta di un’operazione di denaturalizzazione del tempo storico volta ad indagare le tensioni esistenti – per riprendere alcune nozioni provenienti dall’opera di Reinhart Koselleck, determinante nella genesi del concetto – tra “campo di esperienza” e “orizzonte di attesa”, rivolgendo l’attenzione ai modi di articolazione del presente, del passato e del futuro nel contesto culturale volta a volta indagato. Il “regime di storicità” è dunque uno strumento essenzialmente comparativo, utile a configurare e confrontare le diverse tipologie di storicità in seno a culture, o epoche, differenti, ma anche a mettere in luce i diversi modi di relazionarsi al tempo propri a ciascuna di esse. La tesi fondamentale di Hartog è che a partire dalla caduta del muro di Berlino, il regime di storicità occidentale si sia configurato come un “presentismo”, in cui, da un lato, passato e futuro sono schiacciati sul presente togliendo ogni spazio all’aspettativa futura, e dall’altro, ogni temporalità divergente o discordante da quella del regime presentista venga esperita come “non-contemporanea” ad esso, dando luogo in questo modo ad una “frammentazione” delle temporalità del mondo.

Recentemente, Hartog ha introdotto l’interessante nozione di “regime di storicità antropocenico”. Secondo Hartog, la nuova epoca geologica avrebbe prodotto uno sconvolgimento e una complessificazione del regime presentista riaprendo – dopo la sua morte, annunciata a più riprese nel ‘900 – la questione della storia. E ciò in virtù della posizione paradossale in cui si situa l’esperienza del tempo nell’epoca dell’Antropocene, all’incrocio tra un passato profondo e non figurabile (il deep time), ed un futuro incerto, se non addirittura catastrofico (il collasso ecologico). Secondo Hartog, il regime di storicità antropocenico si caratterizzerebbe allora per uno scarto ed un’insanabile divergenza fra le diverse temporalità (quella presentista, quella geologica, quelle non-simultanee del mondo) intricate nella presente congiuntura. Scrive Hartog: “Non si tratta più […] di articolare passato, presente e futuro, ma di prendere in considerazione dei passati, dei presenti e dei futuri, che sono di portate differenti, divergenti, persino contraddittorie, ma che formano un nexus o una matassa di temporalità di cui noi ci troviamo ad essere […] partecipi e anche agenti”. Il problema indicato da Hartog consiste dunque nell’individuare tali temporalità e configurarne il rapporto.

Chakrabarty e il deep time

Lo storico indiano Dipesh Chakrabarty può fornire alcuni strumenti teorici per articolare ulteriormente questo problema. In una serie di articoli dedicati all’Antropocene ed alla relazione fra storiografia e cambiamento climatico, Chakrabarty ha sostenuto che l’Antropocene istituisca – per reimpiegare la concettualità di Hartog appena esposta – un regime di temporalità caratterizzato dallo scontro fra tre ritmi temporali diversi: quello della storia geologica, quello della storia della vita umana, e quello della storia dell’industrializzazione (che, per molti, scrive Chakrabarty, coincide con la storia del capitalismo). Tale scontro avrebbe, da un lato, fatto collassare la distinzione tra storia umana e storia naturale tipica della storiografia moderna, e dall’altro costringerebbe la pratica storiografica a riconfigurarsi, includendo al suo interno il punto di vista della specie (biologica) Homo. È necessario cioè integrare la storia umana e dell’industrializzazione alla storia della specie e a quella della Terra, ovvero alle condizioni fisico-materiali attraverso cui la storia umana stessa si è sviluppata. Tralasciando la problematica tesi storiografica, relativa all’assenza dell’orizzonte storico-naturale nella coscienza e nella pratica storiche occidentali, nonché quella naturalistica circa il ruolo della categoria di “specie” nella nuova configurazione teorica così ottenuta, Chakrabarty indica nondimeno un problema cruciale all’interno del dibattito, che ne sintetizza la posta in gioco. Si tratta del problema che concerne la pensabilità di diversi ritmi temporali nella loro differenza, e, al contempo, interazione. L’Antropocene mostra come solo un quadro complesso di temporalità possa rendere ragione dell’interazione e degli scambi fra umani e non umani che avvengono all’interno dell’attuale “congiuntura planetaria”, aprendo in questo modo lo spazio per l’azione politica. La difficoltà di una tale impresa consiste proprio nel rapporto fra differenza e interazione, vale a dire nel concepire i ritmi temporali senza atomizzarli o discioglierli in un magma senza alcuna gerarchia (com’è tipico delle cosiddette “ontologie piatte”), né farne un unico fascio indifferenziato, una totalità chiusa nella quale presente, passato e futuro si dispongano su una linea che avanza uniformemente (le prospettive collassologiche, così come quelle ecomoderniste, ci sembra sottintendano una simile struttura temporale).

Koselleck e la storia a strati

Un modo per concepire questa molteplicità di temporalità che s’intersecano è il modello “stratigrafico” o “a strati” elaborato da Reinhart Koselleck. Nel breve saggio Sediments of Times  Koselleck abbozza una teoria generale della storia, o meglio, delle strutture della storia, che viene qui ricostruita facendo ricorso a un vocabolario proveniente dalla geologia. Scrive Koselleck: “‘Sediments’ or ‘layers of time’ refer to geological formations that differ in age and depth and that changed and set themselves apart from each other at differing speeds over the course of the […] history of the Earth”. Ciascun momento del tempo storico è dotato non solo di una pluralità di “tempi storici” (cioè di diversi modi di articolare presente, passato e futuro), ma anche di “stratificazioni temporali, o “strati di tempo” [Zeitschichten], i quali sono presenti e attivi contemporaneamente, e che permettono, se distinti analiticamente, di individuare “i diversi livelli temporali sui quali le persone si muovono”. Alla dimensione epistemologica – relativa all’esperienza del tempo così come concettualizzata nella nozione di “temporalizzazione” –, si aggiunge in quest’ultima fase del pensiero di Koselleck una caratterizzazione ontologica: la storia stessa si configura come un’interazione di questi strati, che si muovono a differenti ritmi e velocità. Un primo strato è quello degli eventi singolari, esperiti come irripetibili e, soprattutto, irreversibili, che aprono quindi una faglia nel continuum del vissuto temporale. Un secondo è quello delle strutture ripetitive che non si esauriscono nella singolarità, ma che, al contrario, la rendono possibile. Tali strutture seguono un ritmo più lento rispetto a quello, istantaneo, dell’evento, e nondimeno sono esse stesse passibili di mutamento: l’evento può, in un certo senso, retroagire sulla struttura e alterarne la composizione. È proprio questo, sostiene Koselleck, il vantaggio di una teoria a “strati” della storia, ovvero la sua capacità di misurare differenti velocità – accelerazione o decelerazioni – rivelando così differenti modalità di mutamento storico. Questo secondo “strato” strutturale non è solo istituzionale e sociale, ma anche, diremmo, naturale, comprende cioè anzitutto le strutture biologiche entro le quali si svolge la vita umana, e poi – ma questa è un’ipotesi nostra – le condizioni geo-logiche sulle quali s’installano i differenti strati di tempo. In un altro saggio, contenuto nella stessa raccolta, Koselleck tenta di complessificare la distinzione braudeliana delle tre temporalità in cui si articola la storia, pensando in modo elastico, entro questo stesso quadro “stratigrafico”, il rapporto fra temporalità umana e le condizioni naturali. Secondo Koselleck, i presupposti naturali possono intersecarsi con la storia umana e interagire con essa: “These […] conditions of possible histories are those that withhold themselves from human intervention and that, as conditions of our action, provoke human activity”. Ora, se questo modello offre un paradigma efficace per inquadrare l’immensa “complessità del tempo storico”, esso nondimeno non aiuta a definire la modalità d’interazione fra le diverse temporalità.

L’idea di multitemporalità in Althusser

Luis Althusser, autore per molti versi lontano da Koselleck, condivide con quest’ultimo alcuni esiti relativi alla concezione della storia, ed offre alcuni strumenti concettuali utili a pensare tale relazione. La riflessione althusseriana sulla temporalità muove da una critica radicale alla visione hegeliana della storia. Althusser attribuisce ad Hegel una concezione del tempo quale “continuità omogenea”, a partire da cui la storia viene pensata come semplice periodizzazione in funzione dei differenti momenti di sviluppo dell’Idea. Ogni momento della totalità storica hegeliana è “contemporaneo a sé stesso”, vale a dire il movimento di ciascun elemento della storia riflette la struttura del principio spirituale unificatore del processo stesso, ovvero, di nuovo, l’Idea: la storia, perciò, non è altro che la storia dell’Idea[1]. Nell’ipotesi mentale di effettuare un taglio sulla totalità storica hegeliana ed inciderla verticalmente, ciò che si otterrebbe è una sezione indifferenziata al suo interno, in cui ogni parte è il corrispettivo speculare del tutto. Secondo Althusser, il vero “oggetto” del Capitale di Marx sarebbe una teoria dei tempi storici articolata su un’idea di totalità anzitutto aperta, e poi – ancor più fondamentale per noi – eterogenea, strutturata cioè secondo un ordito differenziale di temporalità. Scrive Althusser: “A ogni livello dobbiamo assegnare, al contrario, un tempo proprio, relativamente autonomo, dunque relativamente indipendente, nella sua stessa dipendenza, dai “tempi” degli altri livelli […]. La specificità di questi tempi e di queste storie è dunque differenziale, poiché è fondata sui rapporti differenziali esistenti, nel tutto, tra i diversi livelli”. All’interno di questo quadro, non vi è un solo presente, ma delle temporalità scandite da ritmi differenti, che “insistono” le une sulle altre, sur-determinandosi vicendevolmente. Ecco un altro termine chiave: sur-determinazione, vale a dire una figura non-lineare e complessa della determinazione. La “congiuntura” è l’incontro durevole di queste temporalità tra loro incompossibili, che, nella contingenza di tale convergenza, danno luogo ad una struttura, la quale, pertanto, è sempre passibile di mutamento.

Nonostante – o forse proprio per questo – il problema di Althusser sia pensare, attraverso Marx, la transizione da un regime di produzione ad un altro, questo schema, se integrato con l’elemento naturale, presenta un modello utile per leggere la questione della multitemporalità nell’Antropocene. Avanziamo dunque l’ipotesi, sulla scorta degli autori precedentemente citati ed in linea con il quadro “geologico-trascendentale” che stiamo qui ricercando, che anche la natura detenga una temporalità propria, fatta di ritmi, durate, cicli specifici, e che anch’essa “insista” sulla congiuntura, sur-determinandone le componenti strutturali. Althusser aggiunge che ciascuna temporalità non è semplicemente “data”, ma va “costruita”, ossia è necessario un processo di mediazione conoscitiva per accedere ad essa. Tale, invero complessa, suggestione althusseriana, che non possiamo qui approfondire, reintroduce il problema epistemologico. Anche la conoscenza, e, più specificatamente, la scienza – dunque la geologia in quanto campo disciplinare – è presa in questa totalità aperta ed eterogenea, e gioca un ruolo nella sur-determinazione delle altre istanza.

Giovanni Fava

Classe 1996; filosofia, Antropocene, geologia. Perlopiù passeggio in montagna.

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