/

Menti, umani e persone: uno sguardo al prospettivismo amerindio

16 minuti

L’universo rappresentazionale occidentale è edificato a partire da un’impalcatura ontologica dualistica, che si traduce in una classificazione categoriale del reale sostanzialmente compartimentata. Posta una ben nitida ed empiricamente determinabile distinzione tra animato e inanimato (sancita dal possesso o meno di specifiche qualità organiche identificate come “vitali”), appare necessario effettuare un’ulteriore forma di qualificazione e attribuzione di senso: determinare lo statuto ontologico di “persona” e stabilire il criterio (o il complesso di criteri) universalmente valido per assegnare tale statuto agli enti del mondo. Umani, persone e quasi-persone

Umani e quasi-umani


Entro i confini del discorso dominante nei contesti di socializzazione occidentale, il processo di attribuzione dello status di persona appare piuttosto semplice: gli umani sono persone; la condizione di umano si presenta come del tutto sovrapponibile a quella di persona.

Ciascuna delle pratiche di conferimento di umanità a enti non appartenenti alla classe delle persone umane, in contesto occidentale, può essere dotata di senso solo se interpretata metaforicamente o metonimicamente; ovvero, sostiene Tim Ingold, solo se inscritta preventivamente all’interno di una cornice interpretativa non coincidente con il piano della realtà oggettiva. Miti e favole occidentali, ad esempio, si servono frequentemente del dispositivo retorico dell’antropomorfizzazione, attribuendo soprattutto agli animali (così come eventualmente a elementi del paesaggio o fenomeni atmosferici) qualità e capacità ritenute specificamente umane, al fine di meditare e veicolare insegnamenti, universalmente fruibili, sulla condizione umana. Un individuo correttamente socializzato, dunque, apprende dall’infanzia a non sovrapporre il piano metaforico del discorso a quello fattuale: l’animale protagonista di una favola sta per un umano dotato di specifiche qualità, variamente connotate, ma non le possiede in natura. 

In senso più specificamente metonimico, la tendenza all’antropomorfismo si esplicita anche nell’assegnazione agli animali domestici di una forma di umanità acquisita per estensione, «[…] “spalmata” su di loro attraverso uno stretto contatto con membri umani della famiglia» (Ingold 2019, p. 56). Si tratta di una forma di umanità sempre parziale, una quasi-umanità, locata in una dimensione eternamente infantile e, di conseguenza, non passibile di alcun fraintendimento circa le sue origini derivative. 

Discontinuità di menti

L’edificio ontologico occidentale, cui Philippe Descola attribuisce una matrice naturalista, è congegnato a partire da una specifica modalità di stare nel mondo, che restituisce agli esseri umani, secondo Ingold, «un’immagine sdoppiata dell’esistenza» (Ingold 2019, p. 54). Indubitabilmente le persone risultano ascrivibili alla medesima classe biologica cui possono essere ricondotte altre specie animali e sono dunque identificabili legittimamente come organismi; eppure, l’accostamento dell’umano all’animale, nell’immaginario collettivo, assume diffusamente una connotazione peggiorativa: gli esseri umani non sono animali. O, quantomeno, l’esistenza umana non può esaurirsi nella sola appartenenza alla classe degli organismi viventi, ma deve essere tassativamente corredata da un elemento distintivo che possa motivare l’assunzione immediata dello statuto privilegiato di persone. 

 In accordo con quanto sostenuto da Ingold (2019), codificare scientificamente ed empiricamente l’umanità come specie naturale, come organismo parte del continuum della vita organica, sembra possibile solo per quell’unica specie capace di pensare sé stessa come separata dall’ambiente, traslato in oggetto totalmente altro a cui rivolgersi. Tale capacità di classificazione categoriale e di rappresentazione simbolica è frutto di quel fattore addizionale della nostra organicità, variamente identificato come “mente” o “autocoscienza”, che ci qualifica come più che meri enti dotati di uno specifico e parziale posizionamento nel mondo. In quanto persone umane saremmo, invece, dotati della capacità di astrarci dall’ambiente e dalla contingenza corporea che ci congiunge a esso, adoperando le nostre menti (elemento proprio della nostra comune umanità) come un dispositivo di comprensione e interpretazione dell’oggetto-mondo

 Premessa essenziale di tale modalità d’identificazione (il naturalismo), come rileva Philippe Descola, è l’affermazione di una discontinuità di menti, o più in generale di “interiorità”, contrapposta a una continuità di corpi:

Ciò che per noi distingue gli umani dai non-umani è la mente, l’anima, la soggettività, una coscienza morale, un linguaggio, e così via, allo stesso modo in cui i gruppi umani si distinguono reciprocamente per una disposizione collettiva interiore […] che oggi ci è più familiare sotto l’etichetta moderna di “cultura” (Descola 2019, p. 102)

La mancata ammissione allo status di persone di altri enti, che pure condividerebbero con noi caratteristiche biologiche ritenute comuni alla natura organica nella sua interezza, è sintomatica di come il naturalismo sancisca una forma di privilegio ontologico a partire da criteri fondati non sulla continuità materiale, bensì “sull’espressione di una presunta interiorità” (Descola 2019, p. 102). A discapito di un elemento di continuità rilevato attraverso parametri scientifici (i corpi) apparentemente solidi, tale sistema rappresentazionale individua, dunque, un criterio prioritario di assegnazione di privilegio nell’unico elemento di discontinuità, specificamente umano, che è possibile solo presumere (attraverso inferenze variamente declinate nell’ambito dell’epistemologia e della filosofia della mente) e la cui indagine empirica risulta più complessa e tuttora in via di sviluppo: la mente.

L’ordinamento simbolico occidentale appare dunque imperniato attorno a una definizione esclusivista della nozione di persona, identificata come indice di privilegio ontologico specifico di alcuni enti, presumibilmente forniti di un elemento comune precluso ad altri; questi ultimi, in quanto deficitari di tale specificità, acquisiscono generalmente una connotazione peggiorativa. Una barriera di senso virtualmente invalicabile è eretta a separare umani e non-umani; si esclude, dunque, ogni eventuale tipo di scambio o sovrapposizione trai due termini di tale binomio entro un registro empiricamente rilevante.

Continuità di anime

Aldilà del discorso occidentale, tuttavia, tale rigida ripartizione degli enti in classi mutuamente escludenti e tra loro gerarchizzate risulta sostanzialmente non pertinente. La modalità d’identificazione definita da Descola “animismo”, propria di contesti indigeni in Nord e Sud America, postulando una “continuità di anime e discontinuità di corpi” (Descola 2019, p. 98), nega costitutivamente qualsiasi potenziale forma di differenziazione ontologica tra umani e animali. 

Tale assunto non è indice di alcun tipo di immaturità cognitiva tale per cui un intero gruppo sociale non avrebbe sviluppato le competenze psicologiche necessarie per distinguere un essere umano da un altro animale, alla luce di una valutazione empirica (come vorrebbero talune teorie di matrice evoluzionista); si tratta, al pari del naturalismo, di una forma ontologica attraverso la quale significare e ordinare la propria esperienza nel reale.

Affermare l’esistenza di una continuità di interiorità non equivale ad attribuire per emanazione caratteristiche specificamente umane ad altre specie viventi; al contrario, significa identificare la condizione di “umanità” (e le qualità, le pratiche e le rappresentazioni ad essa corrispondenti) come fondamento condiviso, proprio di tutte le specie viventi. L’umanità, dunque, non corrisponde a una peculiarità specifica dell’essere umani, che può a posteriori essere applicata in forma mediata e spuria a organismi altri; rappresenta, invece, una qualità di cui ogni forma vivente è aprioristicamente fornita, variamente declinata ed esperita in funzione della particolare modalità di esistenza nel mondo, consentita dal corpo che si abita (così come dall’ambiente circostante). 

In tal senso, come rilevato da Viveiros de Castro (1998) a proposito della composizione cosmologica amerindia dell’Amazzonia e del prospettivismo, il valore che i corpi assumono a fronte dell’esistenza di un attributo interiore comune a tutte le specie viventi sarebbe assimilabile a quello di involucri non permanenti di cui è possibile disfarsi. La funzione che il corpo svolge risulta comparabile a quella dell’attrezzatura necessaria per un’esplorazione subacquea: indossare una muta da sub consente di esperire un ambiente attraverso modalità altrimenti precluse agli esseri umani, in funzione dei loro limiti anatomici. I corpi, dunque, si configurano come equipaggiamenti intercambiabili, passibili di essere indossati e dismessi attraverso procedure e modalità variamente definite, con lo scopo di consentire l’accesso a diverse prospettive e significazioni di una stessa interiorità (o umanità), condivisa in senso interspecifico. 

Più specificamente, nel prospettivismo, l’esperienza della metamorfosi (riscontrabile in molteplici contesti indigeni sul continente americano) intesa come capacità di spogliarsi del proprio corpo per indossarne altri, propri di altre specie biologiche, assume la forma di una sorta di travestimento. Un travestimento, sostiene Ingold (2019), non atto a celare un’identità, bensì a offrire un più ampio ventaglio di possibilità di vita, istanziate dalle specifiche capacità e disposizioni proprie di ogni specie. 

Uno sciamano paumari che indossa ritualmente un corpo di giaguaro, in modalità metamorfica, ha accesso alla particolare espressione di umanità delineata dalla prospettiva del giaguaro; assumendo, dunque, tale specifica forma di umanità, lo sciamano sarà in grado di riconoscere attraverso categorie umane tutti quegli elementi che compongono il microcosmo di senso proprio del giaguaro e che, dalla prospettiva consueta, gli sarebbero apparse estranee. La carcassa di una preda, ad esempio, assumendo l’umanità del giaguaro apparirebbe in tutto e per tutto identica a un pasto cotto tipico della dieta paumari. In accordo con la tesi proposta da Ingold (sviluppata a partire dalle pratiche di metamorfosi ojibwa, del tutto simili a quelle di altri gruppi indigeni, come gli stessi Paumari), la metamorfosi non avrebbe un ruolo di copertura, bensì di apertura alle innumerevoli forme che la persona può assumere, in funzione della prospettiva adottata.

Prospettivismo e multinaturalismo

Eduardo Viveiros De Castro (1998) definisce “prospettivismo amerindio” tale assetto dell’ontologia indigena per il quale, come dall’autore rilevato nel contesto amazzonico, l’umanità si costituirebbe come qualità interiore comune a ogni ente, dunque condizione riflessiva del soggetto verso se stesso, mentre l’animalità rappresenterebbe la condizione del corpo così com’è percepito da una prospettiva esterna. Si tratta, di conseguenza, di una modalità d’identificazione che presuppone una forma di relazionalismo profondo, tale per cui la condizione apparente di umano o di animale è definita in funzione della prospettiva selezionata: pur essendo solitamente percepiti dagli umani come tali, gli animali, dal proprio punto di vista, percepiscono sé stessi come umani e replicano quotidianamente strutture, pratiche e rappresentazioni umane.

In questo senso, per “multinaturalismo” Viveiros De Castro intende quell’assetto rappresentazionale che prevede l’esistenza di una pluralità virtualmente illimitata di nature, ognuna delle quali accessibile alle persone umane in funzione della specifica prospettiva biologica che abitano, ovvero del corpo che indossano. Si tratta di un’espressione cosmologica sostanzialmente antitetica al multiculturalismo di matrice occidentale, il quale postula l’esistenza di un’unica Natura unificante, passibile di infinite interpretazioni culturalmente e storicamente connotate.

Disfattasi del dualismo Natura/culture, costitutivo del contesto occidentale, l’ontologia multinaturalista respinge anche l’opposizione binaria mente/corpo. Quest’ultimo, infatti, non può essere ridotto al solo insieme dei processi biologici vitali propri di ogni specie organica, da cui la mente (esclusivamente umana) ha il ruolo di astrarsi, assumendo un punto di vista privilegiato ed esclusivo su un mondo contingente pensato come esterno a noi. Ogni corpo è imbrigliato inestricabilmente nel proprio ambiente fisico e relazionale, che influenza e da cui è influenzato, e istanzia una tra le molteplici modalità di essere persona. Si rivela utile, in tal senso, la nozione di umwelt coniata dal biologo Jakob Von Uexküll (1920): ogni animale rappresenta il soggetto del proprio mondo, il quale si configura come un microcosmo di modalità percettive ed esperienziali specifiche; scevra da ogni riduzionismo meccanicistico, tale tesi riconosce a ogni animale la capacità di attribuire senso al proprio ambiente soggettivo (umwelt), in funzione delle proprie caratteristiche biologiche e contestuali e delle relazioni interspecifiche che costruisce.


Attingendo a tale configurazione cosmologica, la vera sfida alla prospettiva occidentale, sostiene Ingold, sarebbe: “riportare la persona «sulla terra, ripristinarla nel contesto primario del suo coinvolgimento nell’ambiente» (Ingold 2019, p. 65); attribuire, dunque, carattere relazionale e non esclusivo allo statuto di persona e riconoscerlo come non astraibile dal suo contesto di riferimento, che è parte di un complesso semiotico ampio, esteso non solo oltre l’umano, ma persino oltre gli stati ordinari di coscienza, oltre quello che è genericamente pensabile come “reale”.

Mariagiulia Gargiullo

Nata a Brindisi nel 2002, studia Antropologia, religioni e civiltà orientali all'università di Bologna. Interessata in particolare all'econtransfemminismo e alle filosofie non occidentali, sogna di vivere come Laura Ingalls de La casa nella prateria, ma leggendo Mark Fisher e Donna Haraway.

Lascia un commento

Your email address will not be published.

Ultimi articoli di Mariagiulia Gargiullo