Su Wittgentesin e l’impressione artistica.
L’estetica è quel dominio che dovrebbe comprendere lo studio e la ricerca della natura del “bello”, nonché la sua definizione, e le declinazioni storico-filosofiche che lo caratterizzano. Il suo regno è vasto e per la maggior parte delle volte frainteso. Il fine di questi paragrafi è triplice: proporre un’indagine che tenti di mediare un nuovo approccio a tale argomento; ampliare l’insieme di quelli che possono essere chiamati “giudizi estetici“; infine far emergere la natura pratico-interattiva di quest’ultimi. Inoltre, si tenterà di sottolineare l’uso “descrittivo” di aggettivi estetici come “buono”, “splendido”, “grazioso” etc., che esprimerebbero un certo grado di correttezza, più che di apprezzamento. A ragion di questo, alcune lezioni sulla natura del bello tenute da Wittgenstein nel ventennio 1920-1940 a Cambridge, saranno di vitale importanza.
Il “linguaggio” estetico.
Una delle più note tesi del filosofo austriaco è quella di considerare il linguaggio come uso che si è fatto della forma delle parole e non come forma delle parole in sé[1]. In campo estetico questo implica la trascurabilità degli aggettivi estetici e il fraintendimento dei giudizi affini. Se ci si chiede come vengono imparate parole come “bello”, “grazioso”, “buono” ci si accorgerà che la maggior parte delle volte esse risultano il precipitato di usi e interazioni. L’idea sottesa è che tali parole (nel nostro caso aggettivi estetici) vengono insegnate ed imparate come sostituzione di un atteggiamento[2]. Un esempio potrebbe essere quando una madre imbocca il proprio figlio e mentre gli porge il boccone esclama «Buono!». I bambini solitamente imparano tali aggettivi in primo luogo per il cibo. Tale esempio (come altri) non evidenzia l’utilizzo dell’aggettivo estetico, ma più l’espressione del volto o di un gesto e le occasioni in cui tali parole vengono utilizzate. L’interazione di assenso, in questo caso, è l’occasione, il gioco, in cui appare la forma della parola[3]. Non solo veniamo trascinati e spinti lontano da quelli che sono i comuni luoghi di studio dell’estetica, ma veniamo catapultati nel campo delle espressioni estetiche, nonché nelle occasioni in cui tali espressioni vengono utilizzate.
Quello che implica l’utilizzo di tale prospettiva è l’analisi, più che degli aggettivi estetici, delle interazioni. Se invece di dire «questo è bello» noi avessimo semplicemente sorriso o mostrato un’espressione di gioia, forse avremmo colto in maniera più precisa la natura di ciò che viene chiamato un giudizio estetico. In questo frangente la proposizione, la parola, è più che trascurabile.
Regole, musica, sartoria
Un giudizio estetico è comunemente utilizzato per esprimere un certo grado di apprezzamento. Se ascolto una persona che disquisisce di un certo brano musicale e lo descrive come “grazioso”, “imponente”, “pomposo” etc., immagino stia esprimendo il suo apprezzamento nei riguardi di quel brano specifico. È veramente comune e notevole come tali parole, nella vita quotidiana abbiano pochissima importanza. Nella maggior parte di questi casi, non avendo strumenti adatti per una vera critica musicale, le persone utilizzano tali aggettivi per sostituire gesti, movimenti. Un esempio potrà forse chiarire: se dico di un passaggio musicale che è «Stupendo!» o anche «Bellissimo!», io sto sostituendo l’interazione che ho con la melodia con tali aggettivi, e tramite essi esprimo il mio piacere e il mio apprezzamento. Ma nell’interazione ciò che è avvenuto sarà forse la comparsa di un sorriso sul mio volto, un sospiro profondo o anche un gesto. Ed è proprio all’interno di questa interazione che le parole sono per la maggior parte delle volte trascurabili.
Ci si è voluto concentrare su occasioni quotidiane che implicano sì, giudizi estetici, ma che potrebbero rimanere marginali poiché molti, non sapendosi esprimersi con proprietà specifiche, tendono ad usare molto spesso tali espressioni inconsciamente. È possibile però indagare il caso in cui si stia operando una vera e proprio critica, e si stia cercando di esprimere un giudizio estetico. Rimaniamo all’esempio di una critica musicale. Di un brano o di un passaggio, in una critica musicale, come abbiamo già evidenziato, si può dire che è “grazioso”, “ritmico”, “armonioso” etc. In questo caso, tali espressioni non indicano un apprezzamento ma piuttosto un determinato grado di correttezza. Nei giudizi estetici, per quanto possa essere sovversiva tale idea, contano ben poco le parole, se non per caratterizzare l’oggetto estetico ed esprimere un metro di correttezza relativo a “forme interne” che definiscono le regole di quell’ambito artistico. Di fatto se l’obbiettivo fosse quello di giudicare un brano musicale, sarebbe più esatto utilizzare un gesto o un’espressione della faccia, come una smorfia. Se leggo una poesia di Pasternak, o guardo un film di Bergman, o ammiro una scultura di Jago, invece di parole, ciò che esprime meglio la mia impressione estetica è lo spalancare gli occhi o la bocca, un profondo respiro, o lo scuotere la testa in maniera disarmante. Quindi interazioni, gesti, non parole. Questi sono casi in cui viene espresso un profondo giudizio estetico che difficilmente troverà alloggio nella dimora del linguaggio.
Per intendere ancor meglio il paradigma della correttezza introdotto in campo estetico quando esprimiamo giudizi, sarà molto utile esporre un altro esempio. Se immaginiamo una persona che va dal sarto per comperare un abito su misura, cosa si direbbe per esprimere che si sta facendo un buon vestito? Più che parole di approvazione come “bello”, “splendido”, si utilizzerebbero espressioni della tipologia di «troppo corto!», «troppo largo!» e alla fine la persona sembrerà soddisfatta se il vestito sarà fatto bene. Conseguentemente, come mostro la mia approvazione e il mio apprezzamento per tale vestito? Indossandolo svariate volte.
In questo esempio emergono due fatti di capitale importanza per il campo estetico. Il primo è che gli aggettivi estetici raramente hanno importanza nell’apprezzamento di un’opera d’arte. Il secondo, è che la forma di un giudizio estetico non è da trovare negli aggettivi utilizzati ma nei gesti, e che i primi più che esplicitare un apprezzamento, nascondono una volontà a conformarsi ad un certo grado di correttezza. È il grado di correttezza relativo a determinate regole ciò che viene espresso dai giudizi che vengono impegnati per tali questioni. Wittgenstein spiega limpidamente come un giudizio estetico sia correlato più ad un “caratterizzazione” che ad un apprezzamento, e che ciò implica la trascurabilità dei singoli aggettivi estetici e la presa di coscienza delle “interazioni estetiche”
D’altra parte, se non avessi appreso le regole, non sarei in grado di dare il giudizio estetico. Imparando le regole si acquista un giudizio sempre più accurato[4].
Quando si esprime un giudizio estetico si distingue tra una persona che sa quello che dice da una che non lo sa proprio in conformità alla conoscenza di determinate regole applicate a quell’ambito artistico. Banalmente per apprezzare la poesia inglese bisogna sapere l’inglese.
Sino ad ora si è visto come il campo dell’estetica in realtà risulti molto più ampio e come il giudizio estetico comprenda attività che prima gli erano estranee. In primo luogo, è stato evidenziato come l’analisi di aggettivi estetici, sia da sviluppare più verso l’uso e le occasioni in cui vengono impiegate, intendendo per ‘uso’ l’ambito pragmatico-gestuale in cui tali parole vengono adottate. Di qui la trascurabilità degli aggettivi comunemente impiegati. In secondo luogo, è stato possibile notare come un giudizio estetico non esprima un apprezzamento (se mai quest’ultimo è espresso ancora una volta da gesto, dall’interazione, dall’uso, non da parole) ma più un certo grado di avvicinamento a “forme interne” (regole) dell’ambito artistico preso in esame. Di qui l’estetica risulta essere un dominio di interazioni tra l’oggetto e chi “giudica”. Si è consapevoli di cosa accade esattamente quando una persona che se ne intende di musica esprime un giudizio estetico: dimostrerà di conformarsi a certe regole e valuterà di conseguenza.
Il nuovo fondamento dell’Estetica
È stato osservato come gli aggettivi estetici in realtà sostituiscano interazioni. Come i giudizi estetici anch’essi esprimano interazioni che comprendono attività come il valutare o l’esprime un certo grado di correttezza. Infine, che ciò che esprime un vero apprezzamento estetico non sono parole, bensì una specifica fenomenologia del corpo, composta da gesti, smorfie, movimenti.
La grande intuizione che sottende questi esempi e queste idee non è solo quella che le parole possono in realtà dirci ben poco riguardo il dominio dell’estetica e il nostro posto all’interno di esso, ma che gli studi estetici devono essere indirizzati verso l’analisi delle interazioni che avvengono nelle occasioni dove viene espresso un giudizio estetico.
Indubbiamente l’estetica non è la ricerca del Bello, ovvero non è la ricerca di cosa sia “oggettivamente” bello. Al contrario, noi forse tendiamo a certe “reazioni” estetiche, e di queste vogliamo saperne il movente. Ma rimanere ancorati ad una ricerca causale di tali reazioni peccherebbe di presunzione e non gioverebbe alcuna analisi propriamente fondata. L’estetica, quindi, deve essere compresa come lo studio che si occupa delle “impressioni” che le arti esercitano su di noi, di come tali impressioni si mostrano, del quod non del quid di tali impressioni. E di qui i problemi estetici sono problemi che analizzano gli effetti delle arti su di noi.
Questo è la grande lezione sulla natura del bello, questa è la linea guida espressa in quelle lezioni per i futuri studi estetici e si crede che questo sia il modo migliore per discostarsi da una metafisica dell’arte ancorata ad un paradigma causale-essenziale che vede nella ricerca del Bello il suo obbiettivo.
Bibliografia:
Ludwig Wittgenstein, Lezioni e conversazioni. Sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, 1995, Adelphi, Milano.
[1] Ludwig Wittgenstein, Lezioni e conversazioni. Sull’etica, l’estetica, la psicologia e la credenza religiosa, pp. 53.
[2] Ibid, pp. 53
[3] Ibid, pp. 53
[4] Ibid, pp. 58.