Corpo, umano (Einaudi, 2024) è l’ultimo lavoro dello psichiatra e scrittore Vittorio Lingiardi: un’indagine trasversale sul tema del corpo che intreccia, con pazienza e maestria, saperi e orizzonti appartenenti ai più disparati campi della conoscenza umana — scientifico, umanistico, digitale.
Se la maggior parte delle ricerche si innestano in un punto di domanda, l’esplorazione di Lingiardi prende avvio da una virgola. Corpo, umano — una pausa che apre uno spazio di riflessione, partendo dal corpo e dal tentativo di definirlo, per poi sospingerci verso quell’aggettivo che gli è sempre più estraneo: umano. D’altronde, in un’epoca in cui ideologia e tecnologia hanno trasformato il corpo in un campo di battaglia, sottoposto a pretese e offese costanti, è lecito chiedersi: quanto di umano è ancora rimasto nei nostri corpi? Quanta umanità sono ancora in grado di evocare?
Rispondere a questi interrogativi significa restituire centralità al corpo. Non solo riportandolo al centro del discorso, ma soprattutto riappropriandoci della sua poesia. Un percorso che ci invita a riscoprire i sentieri tracciati dall’arte, dalla letteratura, dalla politica e dalle scienze, al di là di quell’errore di Cartesio che ha segnato la visione occidentale della corporeità, separando carne e anima fino a renderle estranee l’una all’altra. Ma in alcuni luoghi dell’arte, della letteratura e delle scienze umane — recuperati archeologicamente dall’autore — questo rapporto sopravvive e viene narrato come un’amalgama, un’indissolubile «gemellarità siamese». Luoghi come il nostro stesso linguaggio, che pregno di corporeità esprime le emozioni avvalendosi del corpo come metafora: in francese, a memoria si dice par coeur, ovvero “attraverso il cuore”; in latino, ricordare significa “richiamare nel cuore” (cor, cordis). Quando Ulisse sussurra «sopporta, o cuore, più atroce pena patisti», si rivolge davvero solo al suo cuore? O tenta forse di raggiungere un punto più profondo, coincidente con l’anima?

Il corpo riportato al centro da Lingiardi è un corpo vivo e vivente, e non la mera sommatoria di processi meccanici figlia dell’attuale paradigma biomedico. «Il corpo è prima di tutto la sua vita stessa», scriveva Hans Loewald. È un corpo che sente, vive e soffre, che si fa portavoce della nostra esperienza, traducendo in manifestazioni somatiche il nostro funzionamento psichico. Un corpo da intendere, con Merleau-Ponty, come chiave d’accesso al mondo, strumento di conoscenza, ed i suoi organi particelle di una danza ancora in parte indecifrabile. Perché se è vero che di quello che vi accade «sappiamo molto di più rispetto al passato, molto rimane avvolto nel mistero» e «sappiamo abbastanza da capire che rimarrà tale. Come le opere d’arte» d’altronde «trascendiamo il materiale con cui siamo stati realizzati».
Ma siamo anche capaci di una trascendenza ben più perniciosa: quella dell’eradicazione del sé dal corpo, demandato alla trasmissione virtuale, alle immagini filtrate, alla digitazione. Cerchiamo di superare il nostro corpo cancellandolo. Viviamo nell’epoca del sé ancorato alla rete e non più al contatto, dell’identità modellata da aspettative più social che sociali. Il corpo contemporaneo diventa così un prodigio ambiguo: spaventosamente assente e presente al tempo stesso. Assente, fagocitato dal virtuale. Assente, soppresso negli incontri demandati a un messaggio o a una chiamata. Presente nella sua sovraesposizione sui social. Presente nella sua capacità di somatizzare il disagio: corpi stanchi, ansiosi, nevrotici. Presente, infine, nella sua capacità di testimoniare le barbarie di cui siamo capaci: corpi crivellati, corpi sepolti dalle macerie, scenari di insensatezza che osserviamo inermi dagli schermi. Quanta umanità sa ancora rievocare un corpo?
Corpi schiavi: di un partito, di un’ideologia, di una religione. Corpi prigionieri: legislazioni repressive, divieti, obiezioni di coscienza che minano i diritti fondamentali. Corpi invisibili: i corpi senza pace nei cimiteri sommersi, i corpi spezzati dal lavoro.
Il corpo è tante cose. Può essere destino o punto di partenza. Ed è da dal modo in cui lo significhiamo nel nostro tempo che dipende il nostro futuro, come individui e come società. E il destino del corpo non può che essere quello dell’emancipazione e della dignità. Dobbiamo sforzarci di immaginarlo come tale, anche nei momenti di più aspra negazione dell’umanità. Perché, se il corpo è davvero un «laboratorio alchemico capace di apparizioni infinite», tra queste non può che esserci anche la propria sconfinatezza. Una libertà da conquistare, attraverso il corpo, per il corpo.