La città autistica di Alberto Vanolo (Einaudi, 2024) non è un saggio di Critical Disability Studies o di geografia politica. È un manifesto politico nell’accezione più pura con cui oggi possiamo ricorrere a questo termine: in senso trasformativo e senza il timore di rinvangare lo scenario di beghe, sfiducia, scollamento tra corpo politico ed esigenze del corpo sociale impersonato da una politica sempre più claudicante in tema di diritti umani, autodeterminazione, tutela e valorizzazione della diversità.
La genesi “urbana” delle identità sociali
Nell’illustrarci perché il nostro futuro dipende anche dal nostro modo di intendere, rappresentare e vivere la città — intesa non solo come insieme di edifici, ma come vivere pubblico, terreno di formazione e azione delle identità sociali — Aberto Vanolo ci restituisce la consapevolezza che solo un approccio trasversale in grado di diffondere e cucire assieme il contributo di una varietà di discipline — architettura, medicina, scienze sociali, critical disability studies ed una lunga lista a seguire — ci permetterà di modellare, insieme, una pretesa universale di cambiamento. Una «una visione politica, relazionale e fluida delle identità, incluse quelle neurologiche» che consenta l’elaborazione di percorsi di identificazione ed inclusione che vadano al di là delle categorie di normale e patologico, di ordinario ed extra-ordinario, di medesimo e diverso. Sono proprio queste contrapposizioni infatti, e il modo in cui le nostre identità vi si iscrivono, a determinare il perimetro di ciò che possiamo o non possiamo fare, di ciò che va normalizzato, irreggimentato o addirittura eliso dentro i confini di standard normativi ben specifici. Ecco che per Vanolo intendere la città e lo spazio urbano come una questione politica chiama direttamente in causa «il tema delle identità e dei processi di soggettivazione; di costruzione dei posizionamenti sociali, dei modi di intendersi, riconoscersi, rappresentarsi».
Invocare un diritto alla città, in quest’ottica, si traduce nell’abbandonare quei processi di negoziazione sociale della differenza che insistono attorno alla sua normalizzazione. La neurodiversità, nell’economia di questo discorso, diviene dunque un concetto epistemico «generativo di idee e prospettive» inclusive, un punto di vista inedito di analisi della realtà che ne lascia emergere le sfumature criticamente più indifferenti o coercitive nei confronti della diversità.
Un approccio sociale e politico alla (neuro)diversità, quest’ultimo, che risignifica la disabilità — o la diversità intesa come generale non-adesione, volontaria o involontaria, ad uno standard — come una caratteristica della persona che solo a contatto con un ambiente non funzionale (e pertanto disabilizzante) e con l’operare di certe norme sociali che determinano incomprensione e marginalità diviene concretamente deficit, o peggio, stigma.
Il diritto di abitare
Molteplici, a questo proposito, gli esempi figuranti nel testo che analizzano la sottigliezza delle dinamiche in questione calandole nel quotidiano. Si tratta di sprazzi di vita vera, scampoli di silenziose, audaci rivoluzioni da fare e disfare cui l’autore, in veste di padre di un ragazzo autistico, partecipa e assiste ogni giorno. Sono circostanze in cui ci si scontra con convenzioni ed atmosfere anch’esse soggette ad un’influenza di natura spaziale. Ciò perché i nostri spazi sono tutt’altro che neutri; perché le categorie morali e concettuali con cui interpretiamo la realtà sono specifiche di ogni luogo, e perché se è vero che l’esperienza dello spazio urbano non è necessariamente la stessa per tutti i neurotipici, non lo è nemmeno per tutti i neurodivergenti. Se è vero che edifichiamo ed abitiamo uno spazio che ci edifica, solo raramente lo facciamo in ottica inclusiva. Non costruire e non abitare uno spazio inclusivamente significa non dare «la giusta considerazione a gusti ed esigenze differenti rispetto a quelli statisticamente dominanti», non offrire «spazi e possibilità ragionevoli per garantire un futuro aperto e sereno a qualsiasi individuo, a prescindere dalle sue competenze, abilità o risorse». Un esempio calzante è che
[vi sono luoghi] dove gli sguardi normativi sono meno penetranti, il clima è molto piú tollerante e possiamo rilassarci maggiormente. Se in un bel ristorante del centro far cadere un bicchiere genera un piccolo problema con tanto di sguardi, scuse e spiegazioni, nessuno sembra accorgersene nel tipo di locali periferici che frequentiamo. Il livello di percezione della stranezza appare molto basso, proprio perché parte della clientela è costituita da persone che a loro volta sarebbero considerate «fuori luogo» in spazi maggiormente centrali e alla moda. […] Sono performance che creano prospettive, significati e narrazioni alternative della realtà e della città, al di fuori del discorso convenzionale su autismo, disabilità e tolleranza, e aprono isole urbane felicemente autistiche. Simili riconfigurazioni […] ci consentono di costruire realtà e geografie che squarciano il mondo delle nostre possibilità e rinegoziano su basi completamente differenti il nostro «essere in città».
Nuovi linguaggi dell’esistenza
Inquadrare le soggettività non già come esiti di una classificazione/diagnosi, ma come individui sempre in relazione tra di loro e con uno spazio, con le sue configurazioni e dinamiche, ci consente di «strappare la differenza dal suo stato di maledizione» e di evidenziare la perniciosità dell’impiego di categorie patologizzanti che occultano la nostra responsabilità sociale, politica e culturale nei confronti della questione.
Alla luce di ciò, porre al centro le dinamiche di potere che patologizzano la diversità, non considerare le categorie in cui le soggettività vengono iscritte come fisse ed immutabili, ma terreno fertile di esplorazione, contestazione, revisione — e perché no, distruzione — consente di aprire nuovi interrogativi e scenari, generare modelli e pratiche inediti di vivere o immaginare una condizione di diversità. Destabilizzare le categorie determina infatti «uno slancio vitale verso il rifiuto di dicotomie semplicistiche come sano/malato, abile/disabile, neurotipico/neurodivergente. Si tratta di sfidare l’essenzialismo e il riduzionismo di approcci e discorsi incentrati sul sapere classificatorio».
Se è vero che «la centralità dell’urbano travalica l’esperienza quotidiana e arriva fino alle radici dell’inconscio politico», per l’autore dunque immaginare differenti tipi di città — quasi in omaggio ad una certa tradizione letteraria utopica — diviene un modo per pensare differenti forme di società.
Mi piace immaginare che ogni corpo abbia un modo peculiare di percepire ed elaborare gli stimoli e di muoversi nel mondo, al di là delle categorie neurologiche. Come per ogni altra forma di marginalizzazione, devono essere i corpi delle persone oppresse a costruire le forme e i linguaggi della propria esistenza. […] Si tratta di sguardi che plasmano la realtà urbana in maniere che altre menti faticano anche solo a immaginare.
La realtà urbana e le vite in essa iscritte. Vite finalmente libere di appartenere e appartenersi, radicalmente e fieramente divergenti.