La migliore amica dell’uomo: a proposito di Sabrina Carpenter, male gaze e mogli tradizionali

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Man’s best friend, la migliore amica dell’uomo, è il titolo del nuovo album di Sabrina Carpenter, in uscita il 29 agosto, e già da qualche settimana sta abbondantemente facendo parlare di sé. Chi legge potrebbe legittimamente obiettare: stiamo assistendo in tempo reale al collasso economico, materiale e ideale del mondo occidentale, siamo sull’orlo della terza guerra mondiale, ha davvero senso adesso interessarci del più recente successo dell’ennesima principessa del pop commerciale? La risposta dovrebbe poter essere no; eppure l’uscita di Man’s best friend sembra collocarsi perfettamente nel solco di un trend ben più ampio, che TikTok, come spesso fa, ha intercettato e rielaborato lessicalmente, coniando un vero e proprio vocabolario diagnostico, che riesce a descrivere lo Zeitgeist che stiamo attraversando in una maniera, forse, più acuta e puntuale di quanto si potrebbe pensare. Si parla quindi di rising conservativism (crescita del conservatorismo) nella gen Z, di tradwives (mogli tradizionali), di anti-intellettualismo, di choice feminism, di costruzione del sé a partire dal desiderio maschile, del riuso più o meno criticamente elaborato, della categoria di male gaze

Male gaze, female gaze

Cominciamo dalla base: che cosa si intende per male gaze? Male gaze, letteralmente lo “sguardo maschile”, è una categoria analitica coniata dalla critica cinematografica femminista Laura Mulvey nel 1975, per poi radicarsi nel discorso comune in modi in una certa misura inediti e sconosciuti ad altri pilastri portanti del pensiero femminista. Per male gaze si intende una specifica modalità, identificabile come “scopofilica” (in linea con la tradizione foucaultiana che rintraccia nello sguardo lo strumento privilegiato del potere), di guardare, rappresentare e concettualizzare il corpo femminile all’interno di media cinematografici, letterari e nelle arti visive. Nello specifico, quando si guarda attraverso le lenti dello sguardo maschile, che è coinciso a lungo di fatto non solo con lo sguardo egemone ma con l’unico sguardo effettivamente legittimo, il corpo femminile è sempre un oggetto di scena, nello specifico un oggetto erotico, che svolge una doppia funzione, come scrive Mulvey: “[…] per i personaggi della storia che si svolgeva sullo schermo e come oggetto erotico per lo spettatore in sala, con una tensione mutevole tra gli sguardi da un lato e dall’altro dello schermo” (Mulvey 1975). Le donne su schermo, e nella materia letteraria, dunque, secondo Mulvey, non possono assumere la posizione centrale di soggetti dotati di agentività e identità proprie, ma tendono a incarnarsi nella materializzazione visivamente pregnante del desiderio erotico maschile; desiderio che contemporaneamente pervade i personaggi attivi sulla scena ma intreccia anche direttamente un dialogo con lo spettatore, sottintendendo dunque che lo spettatore, indipendentemente dal suo genere, tenderà all’identificazione con i protagonisti maschili e dunque ne condividerà i desideri.

Il concetto di male gaze ha subito una parziale quanto interessante risemantizzazione, che lo ha reso di fatto appetibile per l’algoritmo. Non diversamente da altre cosiddette “estetiche” (aesthetics), ad uso e consumo specifico di TikTok e con cicli di obsolescenza sempre più brevi, anche il male gaze è diventato un trend, insieme alla sua controparte femminile, di più difficile inquadramento concettuale, il female gaze. Fino a qualche anno fa (e anche tutt’ora, sebbene con meno frequenza) navigando sulla propria for you page, era relativamente semplice imbattersi in contenuti relativi a come vestirsi per il male gaze o come acconciarsi i capelli per il female gaze

Le due categorie, come spesso accade poi in ambienti che sollecitano alla polarizzazione del dibattito, come i social, sono state caricate di una solida connotazione morale: asservirsi al male gaze coincide con espressioni della femminilità tradizionali, marcatamente eterosessuali, allineate se non addirittura forgiate sul desiderio maschile. Allinearsi al female gaze invece coincide con una sorta di miracolosa esclusione degli uomini dalle proprie vite, che ha un che di redenzione ma anche di irreversibilità. Non ci si riferisce al lesbismo come strategia politica, come già teorizzato da autrici come Rich e Wittig, quanto più a una fase embrionale e nel migliore dei casi comunque non così intellettualmente connotata, di esclusione del maschile dalla costruzione della sessualità femminile che per certi versi può ricordare posizioni di teoriche come Andrea Dworkin e Catherine MacKinnon, ma sprovviste di analogo spessore critico.

Quali sono le conseguenze? Dire di una donna che si adegua al male gaze, nella sua versione parossistica, può di fatto giungere a sanzionarne moralmente la condotta sessuale, in altre parole a farle slut shaming per la sua sola espressione di desiderio eterosessuale esplicito; desiderio in cui è anche possibile rintracciare elementi di subalternità radicati nella costruzione dicotomica tradizionale dei ruoli di genere, ma che non per questo è indicativo necessariamente di mancanza di agentività. Le donne etero, dunque, specie se bianche, non possono che essere solo vittime del proprio desiderio, anzi, di un desiderio che può essere loro solo imposto e che è loro compito apprendere e riprodurre, senza mai potersi sottrarre al panopticon dello sguardo maschile. Al female gaze, al contrario, proprio in funzione dell’aleatorietà della sua definizione, della sua stessa inconsistenza, è possibile attribuire un’aura di redenzione tale per cui tutto quanto possa essere esteticamente gradevole in una maniera spesso leziosa, iperbolicamente femminile, è necessariamente indicativo di un desiderio femminile autentico e autosufficiente.

La casa nella prateria diventa virale

Interessante in questo senso è il fenomeno delle tradwives, che ci consente di leggere il corpo femminile come socialmente costruito in funzione del target di riferimento. Le cosiddette “mogli tradizionali” di TikTok, fenomeno marcatamente statunitense e convintamente cristiano, sono considerate l’incarnazione della crescita del conservatorismo nella generazione Z. Si tratta di donne giovani, spesso poco più che maggiorenni, che scelgono con grande convinzione di ripudiare un secolo di conquiste femministe per abbracciare uno stile di vita esplicitamente fondato sull’assoluta devozione al proprio marito. Laddove risulti traducibile in contenuto video, si intende. Fioccano quindi contenuti di lifestyle che vedono al centro della scena giovani donne dai toni garbati, quasi confortanti, spesso circondate da uno stuolo di pargoli identici rigorosamente abbigliati come in un episodio de La Casa nella Prateria, intente dal mattino a preparare from scratch qualunque prelibatezza il giovane marito (quasi mai protagonista) possa desiderare al suo rientro. I loro contenuti sono spesso innocui, nella migliore delle ipotesi risultano a tratti caricaturali, ma possono dimostrarsi anche attivamente lesivi per il pubblico: non sono infrequenti esplicite condanne all’uso dei profilattici (compito primario delle donne è infatti mettere al mondo quanti più figli possibile) o persino la negazione del consenso nel matrimonio. Si potrebbe pensare che le tradwives rappresentino l’epitome del male gaze, eppure analizzando il target di riferimento dei loro contenuti, la risposta appare più complessa. A seguire le tradwives sono di fatto altre donne, che ne apprezzano l’estetica curata e iperfemminile, spogliata di connotazioni esplicitamente sessuali, ma soprattutto ne ammirano la presunta sottrazione all’iperlavorismo tardo capitalista. Le tradwives trascorrono giornate lente, scandite da ritmi naturali, immerse in suggestive cornici bucoliche, apparentemente non toccate dallo zeitgeist postfordista che esorta al guadagno e alla costruzione di una solida e invidiabile carriera. Apparentemente. Perché il vero cortocircuito epistemico generato dalle mogli tradizionali sta nel fatto che la loro presenza online, attraverso un’identità visiva riconoscibilissima e fortemente lucrativa, è di fatto un lavoro altamente retribuito, che fa spesso di loro le vere breadwinner del nucleo familiare.

Sex work, razza e classe

Torniamo ora a Sabrina Carpenter e alla copertina del suo album in uscita: una foto che la ritrae in ginocchio, trascinata per i capelli da un uomo in giacca e cravatta, richiamando quindi esplicitamente l’immagine di un cane fedele, come suggerisce anche il titolo dell’album. Il dibattito su TikTok si è rapidamente polarizzato attorno a due fazioni mutuamente escludenti: chi fa di Carpenter un’icona dell’autodeterminazione dei corpi, chi la identifica come la responsabile di aver riportato (lei sola, con la sua sola immagine) il femminismo indietro di cento anni. Ogni partito taccia l’altro di non non poter essere davvero femminista, lasciando quindi intendere che il femminismo sia riconducibile alla posizione del singolo in un dibattito di cultura pop, invece che a un movimento di lotta politica per sua natura collettivo. Quello che qui ci interessa non è tanto sottolineare la validità dell’una o dell’altra parte, né tantomeno propendere per l’intramontabile cerchiobottismo de “la verità sta nel mezzo”. Piuttosto, risulta interessante leggere tale dibattito in chiave di cartina tornasole di certi aspetti della contemporaneità e di cosa significhi definirsi femministe.

A Carpenter è stata spesso, in maniera più o meno pretestuosa, accostata un’altra artista, a sua volta tacciata di asservimento al male gaze: la sex worker Bonnie Blue. Bonnie Blue ha spesso adoperato la categoria del femminismo della scelta (choice feminism) per legittimare il proprio operato, non di rado al confine con lo sfruttamento della prostituzione. La posizione di Blue è piuttosto diffusa: l’emancipazione economica coincide con il raggiungimento della parità, qualunque strumento le donne scelgano di usare per guadagnare autonomamente denaro costituisce una scelta in ogni caso libera e insindacabile e mai moralmente connotata. Tale presupposto, tuttavia, muove da una premessa fondamentale: il principio di libertà negativa proprio dell’ideologia neoliberista. In altre parole, tendere al guadagno è l’obiettivo ultimo e la libertà rigorosamente individuale di perseguirlo non deve essere ostacolata. Il femminismo di Bonnie Blue quindi è personale e capitalisticamente orientato; all’interno del suo discorso, le donne marginalizzate come soggetto collettivo non possono trovare posto, perché lo sfruttamento della prostituzione come fenomeno determinato da concause di etnia e soprattutto di classe non riguarda la sua esperienza individuale di donna inglese, bianca ed economicamente privilegiata. Razzismo e classismo contribuiscono a organizzare gerarchicamente le lavoratrici sessuali, esponendole a gradi molto diversi di violenza  e sfruttamento. Puntualizzarlo significa negare la possibilità per le singole donne di scegliere scientemente il lavoro sessuale come strategia di guadagno remunerativa e soddisfacente?

Sabrina Carpenter non è certamente l’icona del femminismo contemporaneo e si spera che nessuno la ritenga tale. Ma certo è che con la sua ironia sboccata e sempre sessualmente allusiva ha costruito un brand solido, che gioca con l’ipersessualizzazione del tropo della dumb blonde in una maniera leggera ma intelligente. Un po’ come aveva fatto a suo tempo una ben più celebre dumb blonde, che poi di dumb non aveva niente: Marylin. Ma il punto resta uno: perché è solo responsabilità delle donne preoccuparsi di come siano percepite e di quale messaggio veicolino, ma mai di come gli uomini le percepiscono? Forse in fondo il male gaze, come campo dialettico e relazionale, è davvero solo negli occhi di chi guarda. 

Mariagiulia Gargiullo

Nata a Brindisi nel 2002, studia Antropologia, religioni e civiltà orientali all'università di Bologna. Interessata in particolare all'econtransfemminismo e alle filosofie non occidentali, sogna di vivere come Laura Ingalls de La casa nella prateria, ma leggendo Mark Fisher e Donna Haraway.

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