«Sequestrati il suolo, quindi la fertilità, e il ventre della donna (cioè la fecondità), era logico che il sovrasfruttamento dell’una e dell’altra avrebbe portato a questo duplice pericolo minaccioso e parallelo: la sovrappopolazione, l’eccesso di nascite, e la distruzione dell’ambiente»[1].
Il femminismo o la morte
Quando negli anni Settanta Françoise d’Eaubonne pubblica Le fèminisme ou la mort, di cui ora possediamo finalmente l’edizione italiana nella cura e traduzione di Sara Marchesi (Prospero Editore, 2022), il dibattito femminista francese è cristallizzato intorno all’approccio materialista. Le femministe materialiste si focalizzano principalmente sulla condizione femminile e sull’esame dei meccanismi alla base del sistema, definito successivamente patriarcale-capitalistico, che determina la subordinazione delle donne. La lotta di classe è al centro del dibattito.
In questo contesto, d’Eaubonne rappresenta una voce dissidente. La sua formazione è legata ai movimenti militanti, la sua voce è indipendente dall’istituzione e la sua teoria propone un cambio di direzione del femminismo. La priorità doveva diventare la salvaguardia dell’ambiente, una lotta inscindibile da tutte le altre. L’idea di d’Eaubonne infatti è che il sistema patriarcale impone il suo dominio non solo sulle donne, ma anche sull’ecosistema. Il femminismo o la morte conteneva dunque una nuova prospettiva, preludio a una pratica radicale e intersezionale: l’ecofemminismo. Ma oltre a ciò, la teoria d’eaubonniana riportava a galla il legame tra donne e natura, una connessione che l’ambiente materialista francese non poteva accettare.
La questione, ancora oggi rilevante nelle teorie ecofemministe contemporanee, riguarda l’accusa di un approccio essenzialista. L’associazione donne-natura determinata da una loro supposta inclinazione “naturale” alla cura è stata storicamente utilizzata per limitare il ruolo delle donne alla procreazione, all’educazione e in generale alla sfera domestica. Dichiararsi protettrici della natura, o semplicemente ecofemministe, sembrerebbe reiterare la propria oppressione.
Per queste ragioni, d’Eaubonne rimase per anni nell’ignoto. I suoi testi furono riscoperti in concomitanza alla rinascita dei movimenti ecofemministi in tutto il mondo, riconoscendo all’autrice l’invenzione del neologismo “ecofemminismo” e della sua prima articolazione teorica.
Féminité et Féminitude
La giustificazione dietro alla lotta di cui parla Il femminismo o la morte non è un presunto tratto essenziale delle donne. D’Eaubonne fonda la sua teoria su un dato concreto, lontano dall’essenzialismo: le statistiche demografiche. La popolazione femminile, quando l’autrice scrive, rappresentava il 52%. Era una maggioranza ridotta allo status di minoranza. «Erano i non-donna, in questo caso, l’accidente di natura. E allora? Sentivo in me lo stupore del ragazzo in Macbeth: le canaglie erano dei pazzi a farsi impiccare dalle genti oneste, dal momento che erano più numerose di loro».[2]
L’accusa di essenzialismo, viene inoltre screditata dal modo in cui l’autrice analizza la condizione di genere, indagata attraverso due concetti: femminilità (féminité) e femminitudine (féminitude). La femminilità, traduzione che purtroppo in italiano racchiude un archetipo stereotipato, rappresenta l’insieme degli attributi biologici dell’individuo donna. La femminitudine è costruita invece socialmente e culturalmente con lo scopo di assegnare alle donne determinati attributi fisici e interiori, identificarle come variazione rispetto all’universale maschile. La femminitudine è l’essenzializzazione degli attributi femminili, «è l’interiorizzazione di questa accusa, un nido per l’Idra dalle mille teste»[3].
Il malheur d’esser donna non deriva, secondo d’Eaubonne, da una questione biologica ma da un paradigma costruito e attribuito alle donne e a tutti quegli individui che si oppongono alle norme imposte dal sistema patriarcale. Questo tipo di società, descritta dall’autrice come eteropoliziesca e fallocratica è responsabile della distruzione dell’ambiente e dell’oppressione delle minoranze.
La teoria ecofemminista
In Il femminismo o la morte sono due i fattori che d’Eaubonne identifica come minacce all’esistenza umana: la sovrappopolazione e la distruzione dell’ambiente. La responsabilità di entrambi questi problemi è attribuibile al sistema fallocratico.[4] Al concetto di Antropocene, d’Eaubonne opporrebbe probabilmente quello di Androgene, dove andro sta per genere maschile. La colpa della catastrofe ambientale non è di un’umanità indefinita, ma di un preciso modello patriarcale-capitalistico. L’inizio di questo processo di distruzione ha luogo, a suo dire, quando l’uomo si è reso conto di poter controllare non solo la fecondità del suolo ma anche la fertilità femminile.
Ottenendo il controllo sul corpo delle donne e sulle scelte relative alla procreazione, sono gli uomini che hanno provocato il sovrappopolamento e la distruzione delle risorse naturali. Di conseguenza, l’unica soluzione possibile per arrestare questo processo è la liberazione della sessualità delle donne. Questa è la tesi centrale del testo.
Dotare le donne della possibilità di scelta significa, secondo d’Eaubonne, scatenare il loro potenziale di mutazione. Il controllo sul proprio corpo e sulle proprie scelte riproduttive è l’unica cosa in grado di rovesciare il sistema dominante. «Da ella dipenderà, non appena questo diritto potrà essere liberamente vissuto con la contraccezione di massa e l’aborto senza impedimenti, la possibilità che metà dell’incubo umano svanisca».
Il rifiuto collettivo alla procreazione è la soluzione radicale proposta da d’Eaubonne, dove appare chiara la lontananza da un senso di “cura” dell’ambiente che possa avere riferimenti essenzialistici alla maternità. Solo le donne, secondo l’autrice, potranno attuare un mutamento strutturale in grado di arrestare lo sfruttamento dell’ambiente e degli esseri umani. Questo è il potenziale di mutazione delle donne, la loro capacità di determinare le sorti dell’umanità.
Paradossi
Ma c’è un’altra importante intuizione di d’Eaubonne. Comprende la necessità di una transnazionalità dell’ecofemminismo. Analizza attentamente il ruolo che i Paesi del Nord hanno avuto nella sottomissione e nella distruzione delle risorse nei paesi del Sud del mondo e chiarisce come questa relazione di potere avesse un impatto maggiore sulle donne. D’Eaubonne identifica anche il ruolo di ciò che oggi definiamo «impronta ecologica» di un neonato, affermando che «la nascita di un neonato americano ha venticinque volte più importanza per l’ecologia di quella del bambino indù»[5]. Questo dimostra l’acuta osservazione delle dinamiche globali vigenti. Proprio per queste intuizioni, il testo è giustamente definito manifesto dell’ecofemminismo.
Sicuramente è un punto di partenza che apre la strada a una migliore comprensione dell’intersezionalità tra femminismo e ambientalismo. Tuttavia, una prospettiva di liberazione femminista che pone al suo centro il controllo della crescita demografica risulta molto problematica. Quando prendiamo in considerazione il fatto che l’accesso ai metodi contraccettivi non è equamente distribuito, che in passato ci sono state pratiche di sterilizzazione di massa e che molte donne, se avessero avuto la possibilità, avrebbero scelto di avere più di un figlio, diventa difficile sostenere che la liberazione delle donne risieda nel rifiuto alla maternità. O meglio, risulta più facile sostenerlo se sei nata in Occidente. Ma sono soprattutto le donne dei Sud ad essere rappresentate come “riproduttrici incontrollabili” e questa soluzione sembra alludere al fatto che il problema debba essere risolto soprattutto in quei luoghi.
Le fèminism ou la mort, è scritto in un determinato contesto storico che influenza il suo linguaggio e le sue analisi. Il testo è tanto visionario quanto paradossale. Uno dei punti più problematici è quello relativo all’analisi transnazionale dell’oppressione delle donne, dove viene ignorato un elemento fondamentale: la colonizzazione.
D’Eaubonne rinchiude i Paesi non occidentali nella categoria dell’alterità, usa tropi razzisti e parla della loro arretratezza come di una condizione della quale sono responsabili. Oggi, riconosciamo quella responsabilità a un sistema-mondo in cui i Paesi sono sottosviluppati perché la loro economia è stata subordinata agli Stati colonizzatori. D’Eaubonne si fa portatrice di una narrazione eurocentrica del mondo connessa a un razzismo sistemico caratteristico dell’epoca, e non solo, che si rifiuta di considerare le donne e le minoranze non bianche come soggetti in grado di esercitare una qualche forma di agency. L’autrice critica l’universalismo maschile di cui è pregna la società, eppure, ricade nella stessa prospettiva dove però il soggetto unico sono questa volta le donne bianche.
Non bisogna per questo oscurare la teoria d’eaubonniana, ma anzi, occorre leggerla cogliendone i suoi paradossi. È necessario usare questi testi, estraendone ciò che contribuisce alle buone pratiche e criticandone ciò che influisce ancora oggi su di esse. Il femminismo e la morte ci insegna cioè, con radicalità, che il femminismo non deve cancellare, ma leggere criticamente e usare le categorie del passato come strumenti di autocritica.
[1] Francoise d’Eaubonne, Il femminismo o lo morte, 1974, Prospero Editore: Novate Milanese, 2022, pp. 375-76
[2] Ivi,p.129
[3] Ivi, p.123.
[4] Il termine è usato frequentemente nel testo, appartiene al linguaggio del femminismo radicale degli anni Settanta. A fallocrazia, parola connessa a una visione binaria, oggi preferiamo il termine patriarcato
[5] Francoise d’Eaubonne, Il femminismo o lo morte, cit., p. 390.