Come abbiamo imparato a essere figli di nessuno. Sloterdijk e l’esperimento anti-genealogico della modernità

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Un vecchio conservatore?

Per quanto il tema sembri oggi passato (probabilmente ingiustamente) in secondo piano, fino a non molti anni fa la domanda sulla posizione del presente nell’alvevo della modernità era centrale. Postmoderno? Metamoderno? Tardomoderno? Neomoderno? La domanda, poichè germogliava dal dibattito indiretto fra Foucault/Lyotard e Habermas, era al contempo descrittiva e normativa. Si trattava tanto di capire quali fossero le caratteristiche del momento presente in confronto con la pesante eredità della modernità quanto di comprendere quale fosse la direzione di sviluppo ulteriore.

Secondo Habermas, abbandonando l’impegno classicamente illuminista alla democrazia, alla giustizia, all’universalismo e all’emancipazione ci si espone al rischio di produrre una condizione in cui ogni rivendicazione sociale non ha un chiaro riferimento normativo. Di conseguenza, i confini fra progresso e reazione, divengono sfumati e non è più possibile discernere il giorno dalla notte. È precisamente per questa ragione che Habermas riservò a Foucualt l’epitteto di “giovane conservatore“.

È in quest polifonia di voci che Sloterdijk ha pubblicato Die schrecklichen Kinder der Neuzeit. Über das anti-genealogische Experiment der Moderne, uscito in Germania nel 2014 e in italiano (I figli impossibili della nuova era. Sull’esperimento anti-genealogico della modernità, tr. it. F. Clerici, Mimesis, Milano-Udine) nel 2018. L’autore, già noto per la sua produzione stravagante e sopra le righe, prende qui posizione su un tema da cui passano le agende politiche. È per questo che, già prima della sua traduzione italiana, il libro era giunto nel Paese tramite l’eco di alcune reazioni negative, di matrice progressista, che il testo aveva suscitato. Scriveva infatti Il manifesto nel 2014, riportando un’opinione comparsa sul Der Spiegel, che il libro si presentava come:

Un’opera ultrareazionaria che gronda risentimento e nutre nostalgia per le gerarchie che hanno governato la società prima della Rivoluzione francese e della frattura (lo «iato») che essa ha determinato nella storia dell’umanità. Dunque una critica complessiva e senza sconti, dei diritti, delle forme e delle categorie politiche su cui poggia la Modernità

Messo a confronto con Foucault, allora, Sloterdijk dovrebbe piuttosto essere definito come un vecchio conservatore, come qualcuno che svolge la sua critica alla modernità in una prospettiva coscientemente e intenzionalmente reazionaria. Sloterdijk sarebbe, dunque, un moralista nella linea intellettuale di de Chateaubriand, Donosio Cortez e Gómez Dávila; il suo riferimento filosofico, Heidegger.

L’accusa politica contro il testo di Sloterdijk si muove indagando sospettosamente le intenzioni dell’autore, che – nell’incipit del testo – cerca di rassicurare il lettore:

Le osservazioni che seguono non offrono alcun pretesto per una restaurazione del peccato originale. Esse vorrebbero tuttavia contribuire a una rinnovata disamina degli effetti della corruzione che da sempre si annidano nei processi generazionali, e ciò con maggiore contezza di quanto la coscienza quotidiana volle mai prendere coscienza: sporadicamente, dal tempo dei classici antichi, in modo amplificato con l’irrompere della modernità e poi inflazionato nelle situazioni che seguirono le “rivoluzioni” tecniche, politiche e giuridiche dei secoli XVIII e XIX (p. 43)

Garantendo a chi legge di non voler portare indietro la lancetta del tempo e, soprattutto, quella del progresso, Sloterdijk dichiara l’intento del suo libro: tracciare la storia di come i “processi generazionali” si siano modificati a partire dalla fine del Medioevo.

In breve, Sloterdijk vuole studiare come il meccanismo di trasferimento di valori, cultura e forma di vita fra genitori e figli si sia modificato con il sopraggiungere dell’età moderna. Egli conia, così, il concetto di “figli impossibili” (schrecklichen Kinder), ovvero quella forma essenzialmente moderna di trasmissione in cui gli individui ripetono e al contempo contraddicono il proprio passato.

È precisamente questa ambivalenza a costituire l’oggetto dello studio di Sloterdijk:

Per l’uomo della nuova era il peccato originale cede il posto alla scoperta – ambivalente come Giano bifronte – dell’eredità tangibile quale peso e chance. Là dove il mondo moderno diviene realmente moderno, esso assume la forma di un esperimento sull’ammissione delle ambivalenze (pp. 39-40).

Indipendentemente da quale posizione valutativa prenda, il testo di Sloterdijk descrive un’epoca rivoluzionaria. Consegue che le accuse di “conservatorismo” o di “reazionaresimo” sono contestualizzate rispetto alla rappresentazione che della modernità viene offerta. Si tratta, pertanto, di approfondire quest’ultima per prendere pienamente posizione e, se politicamente desiderato, rivolgere contro Sloterdijk i suoi stessi concetti.

L’alta marea permanente

Iniziano sotto questi auspici le voluminose trecentottantasette pagine che compongono il testo. Scorrazzando liberamente fra storia e filosofia, discutendo ora di Madame de Pompadour e Letizia Ramolino, ora di Hegel e Tocqueville, l’autore traccia l’inizio della rivolta anti-genealogica in una specifica operazione intellettuale moderna:

A partire dalla metà del XVIII secolo si realizza negli ecosistemi mentali d’Europa la reinterpretazione della relazione tra passato e futuro che ispira ai moderni il pensiero più audace, incomprensibile e impensabile germogliato nei cervelli umani dalla cacciata dei progenitori del paradiso: a un tratto sembra concepibile che gli eventi più importanti, nel bene come nel male, possano essere quelli che non hanno ancora avuto luogo […]. Da quel momento in avanti […] sarebbero stati i futuri a contare veramente e non le origini. (p. 49).

Si nota immediatamente il cortocircuito intellettuale all’opera: da un certo punto in avanti significati ed eventi sarebbero accaduti nel futuro. A ragione, dunque, Sloterdijk definisce la modernità come una rivolta innescatasi all’improvviso:

Una mattina gli europei si svegliarono e pensarono storicamente. Il tempo aveva fatto irruzione nel pensiero. Lo iato rivoluzionario lacerò in due il legame convenzionale tra le epoche. Là dove avevano regnato le filiazioni – cioè la trasmissione fedele dell’eredità paterna ai discendenti e ai discendenti dei discendenti, per quanto fittizzi che fossero – le interruzioni dell’ascendenza scavavano fosse profonde. Tutta la vita venne datata di nuovo: ciò che vive dopo, vive dopo la cesura. (p. 52)

Con la nascita della filosofia della storia («quella scuola del pensiero maldestramente ottimista che pretendeva di fare del divenire logoro dell’umanità un curriculum coeso»; p. 48) il pensiero diventa, sostanzialmente, pensiero della temporalità, ovvero filosofia di ciò che è mobile e in divenire. La filosofia comincia a riflettere su un’energia instabile, l’energia propria della modernizzazione e della rivoluzione, che viene continuamente trasformata, tesa, imbrigliata e deviata dalle azioni che l’umanità compie.

È in questo senso che Sloterdijk introduce l’assioma secondo cui «nel processo mondiale in seguito allo iato vengono costantemente rilasciate più energie di quante ne possano essere legate in forme di civiltà trasmissibili» (p. 91). Precisamente poiché non può essere intrappolata in nessuna maniera, questa energia in eccesso è legata a doppio filo alla libertà.

Moderno, secondo Sloterdijk, è chi vive in un universo infinito (e non nel «cosmo circolare degli antichi»; p. 90) e può dunque trasformare sè stesso, anche contro il proprio passato. L’esempio quintessenziale è, probabilmente, l’essere-di-classe secondo Marx: sono i rapporti economici di cui non siamo direttamente responsabili – poichè soventemente provenienti dal passato – a renderci parte di una certa classe; nondimeno, questa determinazione non è affatto definitiva. Anzi, essa è dilaniata dalle contraddizioni che la porteranno ad essere trascesa non appena la rivoluzione avverrà.

La rivolta contro le filiazioni sicure e la continuità genealogica conduce al pensiero del progresso. Tuttavia, è precisamente la discussione sul senso della mobilità della Storia e della mobilitazione in essa che porta anche a diagnosticare l’assenza di continuità, di fondo e di origine come causa di un continuo precipitare. Sloterdijk parla, in questo senso, di “crollo in avanti“:

Ciò che da un lato viene interpretato come un progresso conscio e intenzionale per vie lunghe e talvolta tortuose, appare all’altro partito come un cronico crollo in avanti che si camuffa in atto, progetto e azione pianificata. (p. 80)

Furono Nietzsche e i suoi contemporanei a far scoprire che l’instabilità permanente della modernità poteva finire per togliere il terreno da sotto i piedi. Sarà dopo l’impatto di questa stagione della cultura che fra progresso e decadenza si cercherà una mediazione. Liberali e socialisti (che Sloterdijk accorpa, nelle loro forme classiche, in quanto ideologie distruttrici delle filiazioni genealogiche) stipulano ora un compromesso con la costante fallibilità delle azioni umane. La formula che meglio esprime questa dinamica è offerta, secondo l’autore, da Otto Neurath:

[Egli] ha trovato un’immagine efficace per il compromesso tra gli attivisti dell’ottimismo e l’irrevocabile passività nella deriva globale, quando, nel 1932, parlava di come fossimo navigatori “che devono ricostruire la proprio nave in mare aperto” (p. 81)

Lezioni di storia

Nel corso di cinquante rapide pagine Sloterdijk passa in rassegna l’origine della filosofia della storia, con il portato ottimista e metafisico illuminista-ottocentesco, e la sua crisi. A far da filo conduttore c’è il problema della frattura generazionale e della maniera attraverso cui i figli si ribellano ai padri.

In seguito, il testo, che vuole essere tanto sulla quanto di filosofia della storia (peraltro, precisamente in quella forma polemica e anti-genealogica che egli stesso diagnostica), si cimenta in una serie di “lezioni di storia” (pp. 101-202). Partendo dal 22 gennaio 1792 a Parigi e terminando sulla doppia data 22 luglio 1944-15 agosto 1971 (rispettivamente a Bretton Woods e Washington), Honneth passa in rassegna una serie di eventi in cui l’accellerazione e l’erosione delle legittimità assodate appaiono nella massima evidenza.

Cominciando con i sensi di colpa di Charles-Henri Sanson, il boia parigino che (secondo un racconto di Balzac) aveva reciso la testa di Luigi XVI contro le sue convinzioni monarchiche e la sua certezza assoluta della legittimità divina della monarchia; e passando attraverso la nascita del Dadaismo durante la Prima Guerra Mondiale, la lite fra i successi di Lenin alla guida dell’Unione Sovietica, la Germania nazionalsocialista in guerra e, infine, la teoria economica di Keynes; Sloterdijk restituisce un affresco complesso delle numerose figure dell’anti-genealogia e della mobilitazione permanente.

È in queste “lezioni di storia” che può emergere il tratto conservatore (spesso dissimulato) di Sloterdijk. Nella sua descrizione tutti, da Napoleone (che «fu l’individuo universale con cui la modernità poneva le proprie carte sul tavolo. Fu l’uomo del crollo in avanti assoluto»; p. 122) a Hitler e Stalin, sono essenzialmente moderni nella misura in cui comprendono e manovrano la mobilitazione permanente emergendo come “figli di nessuno”.

Eppure, come è possibile non emettere un verdetto sulle maniere in cui la mobilità della modernità è stata gestita da queste figure? Non si tratta di metterne in dubbio il carattere essenzialmente moderno. Anzi, come già notava Foucault, i “totalitarismi” sfruttano le medesime tecnologie di potere e macchine burocratiche dei regimi non totalitari. Nondimeno, la direzione che all’anti-genealogia della modernità imprimono Stalin o Hitler sembra contraddire quella dinamicità e, soprattutto, quella libertà di rompere le catene che era stata resa esplicita dal gesto rivoluzionario francese illuminista.

Pertanto, se Stalin o Hitler devono ricadere nell’alveo degli enfant terribles della modernità essi vi devono rientrare come personaggi tramite cui il senso stesso dell’ideologia moderna si è accartocciato. È lo stesso Sloterdijk a riconoscere ciò trattando di Stalin:

Nel capovolgimento dell’illegittimità [post-zarista] in una iper-legittimità [staliniana] dichiarata a gran voce continua a vivere l’inquietudine iniziale dell’impresa rivoluzionaria. (p. 158)

La continuata esistenza della rivoluzione (e del passato contro cui essa è esplosa) nella vita post-rivoluzionaria rende possibile anche solo pensare la possibilità di una “iper-legittimità“. Con buona pace di Stalin.

Infatti, secondo Sloterdijk, l’anti-genelaogia moderna non è affatto infallibile. Anzi, nella conclusione si osserva come oggi, a un secolo di distanza dalle scoperte di Freud (cui è dedicato il quinto capitolo; pp. 203-274) e dalla crisi sempre più profonda del “progresso”, si sia raggiunto «uno stato di aggregazione senza precedenti nella relazione tra passato, presente e futuro» (p. 414). Finito lo slancio dei secoli precedenti, l’epoca sembra essere sempre essere sempre più caratterizzata dalla necessità di pagare i debiti contratti, in primis nei confronti della natura e del clima.

La temporalità odierna sembra, allora, schiacciata fra un passato in rovine e un futuro nebbioso:

Lo stato delle culture sincronizzate può essere definito come una forma di post-passatismo universalizzato. Questo caratterizza un mondo che si compone di innumerevoli insiemi di passati depotenziati. A modo suo ogni cultura è oggi “futurizzata”, ossia disposta verso il futuro; e tuttavia quasi
nessuno sarebbe in grado di indicare cosa significhino parole come “continuità”, “durata”, “avanzamento” o addirittura “progetto” di civiltà. (p. 414)

Heideggerismo?

Si diceva, in apertura, come l’opera in questione abbia subito l’accusa di reazionaresimo e di come Sloterdijk sia stato accusato di appartenere all’alveo dei filosofi conservatori. A ben guardare, nella sua disamina delle trasformazioni della modernità l’autore dedica spazio al pensiero reazionario (soprattutto a Joseph De Maistre; pp. 65-74) elencando Heidegger fra questi ma riconoscendone, al contempo, l’assai maggiore complessità metafisica:

La stessa critica di Heidegger alla modernità in quanto epoca della Machenschaft [regno della fattibilità] – che emerge in modo tanto ossessivo quanto smarrito dai Schwarzen Heften (Quaderni Neri), risalenti agli anni Trenta e Quaranta del XX secolo, ma solo di recente accessibili al pubblico – può leggersi come un’eco ampollosa degli stereotipi de maistriani. (p. 71)

Non sono solo le architetture del testo di Sloterdijk, le divagazioni fra momenti diversi della storia della filosofia e, soprattutto, la costruzione di termini e neologismi a ricordare fortemente Heidegger. È l’operazione concettuale di fondo a suggerire il rimando. Infatti, proprio Heidegger nel 1938 aveva inchiodato la modernità come “epoca dell’immagine del mondo” (M. Heidegger, L’epoca dell’immagine del mondo in Sentieri interrotti, tr. it. P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 71-101), replicando quel gesto, Sloterdijk la vede come “epoca dell’anti-genealogia“.

La critica sollevabile contro questo intero filone potrebbe semplicemente affermare che non vi è la modernità singola, bensì una pluralità di esse la cui differenza reciproca ne riflette il carattere sostanzialmente dinamico e processuale. Piuttosto che parlare di una singola modernità bisognerebbe, allora, parlare di un processo di modernizzazione che conduce a una pluralità di risultati.

Sloterdijk sembra aprirsi coscientemente a questa critica, nella conclusione afferma – razionalmente – come sia ormai impossibile credere che modernità sia sinonimo di omologazione:

Non è possibile ricorrere all’espressione “civiltà mondiale” senza che si impongano delle tasse da pagare per il suo utilizzo […]. Malgrado tendenze manifeste al crollo, l’architettura sistemica dell’edificio della globalità andrà replicandosi, in tempi prevedibili, come conseguenza di fenomeni di reciprocità che sono messi in moto dal potere, seguendo l’attuale modus operandi (p. 411).

È, dunque, precisamente nello scarto fra “chance” e “peso”, fra crisi e critica e fra singolarità e pluralità che il testo di Sloterdijk si pone. Sempre nella conclusione incontriamo un chiarimento finale del suo rapporto con Heidegger, questa volta da un punto di vista che potrebbe essere definito “pratico“:

Ai giorni nostri nessuno può sapere cosa costituisca il contenuto di fatto di parole sireniche quali “sostenibilità” e “capacità del futuro”. Chi fosse in grado di distinguere tra andatura, deriva e caduta dovrebbe essere dotato di doni profetici. Questo è lo stato cui alluse Heidegger quando espresse la sua riflessione che solo un Dio potrebbe salvarci. Con una frase anodina egli tolse al futurismo il terreno da sotto i piedi. Al suo posto egli non aveva purtroppo nulla di meglio da offrire che un pietismo dell’attesa. (p. 414)

Rimanendo ambivalente sulla posizione heideggeriana e sulla sua impossibile filiazione nella storia del pensiero conservatore, Sloterdijk restituisce un affresco ricco, sfaccettato e interdisciplinare di fondamentale importanza per chunque ritenga che pensando tramite categorie storiche sia possibile ottenere una comprensione realmente critica del presente in quanto radicata nelle reali condizioni attualmente vigenti.

Giovanni Soda

Classe 2000, ho rinunciato a studiare finanza per fare filosofia, sogno di scrivere per vivere e sono fermamente convinto che concetti, idee e pensieri di ieri riescano a spiegare il mondo di oggi meglio di quanto facciamo noi.

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