Nel 1848, anno emblematico per la storia d’Europa, il filosofo russo Aleksandr Herzen si trovava a Parigi, nel pieno della rivoluzione. È in questo contesto che scrisse uno dei suoi libri più conosciuti e più significativi, Dall’altra sponda, pubblicato poi nel 1850. Il libro in questione affronta molti temi, dal significato delle rivoluzioni al futuro della società europea, dal mito del progresso all’analisi della figura di Rousseau, ma ciò che è di interesse ai fini di questo scritto è quanto viene affermato rispetto al rapporto che intercorre tra l’uomo e il futuro, e sul significato di quest’ultimo.
La storia della filosofia, ma anche la letteratura e la cultura popolare, hanno sempre cercato di persuadere a guardare al presente, a “cogliere l’attimo”, al fine di vivere una vita più piena e, contemporaneamente, più serena, senza impegnare la propria mente con preoccupazioni future, quindi non-ancora-esistenti.
Herzen, nel libro in questione, sembra porsi su questa corrente di pensiero, argomentando la sua tesi anche con riferimenti che guardavano alla sua attualità, l’Europa delle rivoluzioni.
“Il presente gli appartiene, ma questo non basta agli uomini, che vorrebbero possedere anche il futuro”[1]: è questa una delle frasi che apre il suo lungo discorso sull’argomento. Gli uomini, per Herzen, posseggono il presente, tuttavia si concentrano solo sul futuro, come se fossero impegnati nel raggiungimento di un fine: questo è uno dei più grandi errori, ovvero “guardare alla fine e non alla cosa stessa”[2]. Per spiegare bene il modo in cui l’uomo inconsapevolmente agisce nel quotidiano, viene introdotto un esempio estremamente concreto:
“qual è mai lo scopo di una canzone?… suoni, suoni che prorompono dal petto della cantante, suoni che muoiono nell’istante medesimo in cui nascono, se voi, oltre a goderli, vi cercherete qualcosa d’altro, se aspetterete uno scopo, vi toccherà aspettare fino a quando smetterà di cantare e non vi resteranno che il ricordo e il rimpianto di essere stato lì ad aspettare qualcosa invece di ascoltare… [… ] Cos’è questo fine- un programma, forse, o un ordine? […] Mi pare più semplice considerare la vita, e di conseguenza anche la storia, come un fine raggiunto, piuttosto che come un mezzo per ottenere qualcosa“[3].
Fuor di metafora, questo esprime al meglio ciò che comunemente si intende con il “carpe diem”[4]: vivere ogni attimo a pieno, senza che pensieri futuri possano distogliere l’attenzione da ciò che è attualmente presente.
La parte del libro da cui è preso il passo si articola come un dialogo tra due interlocutori, ed ecco che quindi viene mosso un tentativo di confutazione, affermando che lo scopo per cui guardare al futuro sia il progresso; questa tesi in realtà sarebbe un modo errato di considerare la questione. Il progresso non è tanto uno scopo da realizzare, quanto un effetto dell’agire dell’uomo; inoltre, la tesi per cui “il progresso è nel futuro”[5] oltre ad essere errata, sarebbe anche profondamente umiliante per l’uomo, che lavorerebbe in maniera ininterrotta per la realizzazione di questo scopo, scopo che però sembra non avvicinarsi mai, perché “il progresso è infinito. […] Una meta infinitamente lontana non è una meta, ma […] un’esca”[6]. Di conseguenza, gli uomini non devono considerare se stessi come un mezzo per il raggiungimento di uno scopo, ma piuttosto come se “ogni generazione [avesse] in sé il proprio fine”, poiché “la natura non crea mai le generazioni quali mezzi per il raggiungimento del futuro, anzi di questo [la natura] non si cura affatto”[7].
Si può dire che quindi nella storia tutto proceda senza alcuna direzione, “tutto ex tempore, davanti non ci sono né limiti, né rotte di marcia”[8].
In questa visione della storia e del progresso, va da sé che per l’uomo sia auspicabile vivere nel presente, servirsi di esso, poiché solo questo è ciò che ricade sotto la sua competenza: pensare di sacrificare la propria vita per un qualsiasi futuro potrebbe essere innanzitutto sviante e, indirettamente, potrebbe danneggiare il presente stesso, spostando la risoluzione dei problemi sulla dimensione futura.
Questo tipo di riflessione però porta con sé un’altra grande questione, quella del senso della vita, qui più propriamente quella dello scopo della vita: se infatti ogni generazione ha in sé il proprio fine e la Natura “scioglierebbe le perle nel vino, per vivere il presente”[9], ogni tipo di riflessione su una possibile teleologia della vita decade. Se proprio si volesse cercare uno scopo della vita, allora per Herzen questo sarebbe la morte, intendendo in realtà lo scopo, sia come il fine che come la fine, il completamento, la realizzazione di un evento, di una tensione.
“Gli uomini non sono predestinati a un bel nulla […]. Così sono nati e dunque vivono. [La vita] è l’agitazione perenne di una materia attiva, tesa, che cerca l’equilibrio solo per riperderlo, è un movimento ininterrotto, una ultima ratio, il punto oltre il quale non si può andare. […] La vita non cerca una meta, ma attua tutto il possibile, continua tutto quello che ha realizzato, sempre pronta a passare oltre pur di vivere più pienamente, di vivere ancora di più, se possibile; altra meta non c’è”[10].
La prospettiva offerta dal filosofo russo potrebbe e dovrebbe essere sufficiente a convincere i lettori del fatto che sia privo di senso vivere il presente in maniera funzionale al futuro, utilizzandolo come se fosse il mezzo per raggiungere un qualsiasi fine. Tuttavia, gli uomini non vivono in questo modo, ma in maniera diametralmente opposta: ogni decisione è presa in vista del futuro, ogni agire è atto in vista della realizzazione di qualcosa che ancora non è che una mera possibilità: l’uomo vive in constante tensione verso il futuro, come se fosse la sua dimensione naturale, come se più che possedere il presente, soggiornasse nel futuro.
Nonostante i fiumi di inchiostro e le parole della saggezza popolare abbiano da sempre tentato di convincere l’uomo a correggere questa condotta di vita, tutto questo sembra essere vano.
I motivi di questo potrebbero essere però più complessi di quanto sembri, e alcuni filosofi hanno dedicato la loro attenzione alla ricerca del perché l’uomo guardi sempre al futuro.
Nel secondo libro del “Trattato sulla natura umana”, dedicato alla trattazione delle passioni, David Hume avanza una possibile motivazione della tensione verso il futuro, in maniera estremamente coerente con il suo sistema filosofico. Nella sezione VII della parte III, intitolata “Contiguità e distanza nello spazio e nel tempo”, afferma che le passioni rivolte al passato siano più deboli di quelle rivolte al futuro perché si ha la consapevolezza che “nessuna delle nostre azioni può alterare il passato”[11], a differenza di quelle rivolte al futuro. Secondo Hume, la distanza spaziale o temporale che separa il soggetto dalla causa di una passione è inversamente proporzionale all’intensità delle passioni: così, le passioni che si rivolgono al presente saranno naturalmente forti, perché “la situazione presente delle persone appartiene sempre all’immaginazione[12]” [13] ; quando però si guarda al passato, “il percorso del pensiero nel passare dal presente al passato è contrario alla natura, in quanto procede da un punto nel tempo a quello precedente, e da quello a un altro precedente, di contro al naturale corso della successione temporale”[14]. Questo discorso sembrerebbe doversi applicare anche al futuro, in quanto la distanza tra il presente e il futuro dovrebbe far affievolire le passioni, dunque l’interesse verso ciò che deve ancora accadere. Tuttavia,
“quando rivolgiamo il nostro pensiero a un oggetto futuro, la nostra fantasia percorre il flusso del tempo, arrivando all’oggetto secondo un ordine che sembra il più naturale, passando sempre da un punto temporale a quello immediatamente posteriore. Questa facilità nel passaggio delle idee agevola l’immaginazione, facendole concepire il suo oggetto da un punto di vista più forte ed esauriente. […] Da questo deriva l’influenza che [la distanza temporale] esercita sulla volontà e sulle passioni.” [15]
La stessa distanza temporale ha quindi effetti diversi sulla mente dell’uomo, quando si tratta di una distanza verso un’azione passata e un’azione futura, perché l’immaginazione ritiene più naturale procedere verso momenti posteriori, che non verso momenti anteriori al presente, anche quando la distanza sarebbe la medesima. “Noi preferiamo fissare il pensiero sul punto temporale posto tra presente e futuro, piuttosto che quello posto tra presente e passato. Noi preferiamo anticipare piuttosto che ritardare la nostra la nostra esistenza”[16]. Da questo dipende il fenomeno per il quale “la fantasia anticipa il corso delle cose, e osserva l’oggetto nella condizione a cui tende così come quella che consideriamo presente” [17]: questo meccanismo induce a considerare il futuro tanto vivido quanto il presente, e giustifica il vivere non solo nel presente, ma anche nel futuro: le passioni che scaturiscono da qualcosa di futuro sono pressoché forti come quelle che scaturiscono dal momento presente.
La spiegazione humiana ha sicuramente tutto un altro linguaggio rispetto alla trattazione di Herzen e ai motivi che lo hanno indotto a scrivere Dall’altra sponda, ma è possibile rintracciare uno dei tentativi di spiegazione a quel “soggiorno nel futuro” di cui si parlava sopra.
Un altro grande pensatore che ha contribuito alla questione è certamente Arthur Schopenhauer, che in diversi scritti, come ne “I problemi fondamentali dell’etica” e ne “Il mondo come volontà e rappresentazione” ha offerto alcune utili riflessioni alla questione.
Secondo il filosofo di Danzica, l’uomo, così come ogni cosa, è una manifestazione fenomenica dalla volontà, la quale determina l’agire dell’uomo, apparentemente anche attraverso un sistema causale. Ciò che determina l’uomo ad agire non sarebbe però una mera causalità materiale, che invece si applica agli esseri inanimati, quanto invece delle “motivazioni”. Le motivazioni, nel caso dell’uomo, hanno la caratteristica di essere non delle cause concrete e presenti all’uomo, ma delle rappresentazioni astratte e potenzialmente anche assenti e lontane. Nonostante ciò, sono in grado di determinare l’uomo ad una azione piuttosto che ad un’altra. L’uomo quindi è determinato all’agire da “concetti astratti che non dipendono dal presente”[18]. È a questo livello che si compie la grande distinzione tra l’uomo e gli animali: entrambi sono dotati di intelletto, possono conoscere attraverso la conoscenza intuitiva, ma solo l’uomo possiede la ragione. Questo fa sì che l’uomo abbia motivazioni slegate dal presente, e che si rivolgono al futuro, illudendosi di poterlo determinare[19], mentre l’animale, privo della ragione, e quindi della capacità di astrazione, è limitato dai motivi presenti. L’animale quindi non agirà in vista di un scopo futuro, ma solo per un soddisfacimento attuale, mentre l’uomo ha la possibilità di progettare, di riflettere e di agire moralmente, al di là delle “impressioni fortuite del momento” [20]: oltre a vivere nel presente, l’uomo vive contemporaneamente nel passato e nel futuro.
Tutto questo potrebbe essere un vantaggio per l’uomo, ma in realtà questa continua tensione al futuro, questa capacità di riflessione e di astrazione porta con sé un grande svantaggio, la sofferenza: questa infatti sorge dalla consapevolezza del proprio stato, anche guardando al passato e in riferimento a ciò che deve accadere; questo però è possibile solo se si possiede la capacità di fare astrazione dal momento presente e guardare oltre, guardare al futuro: la riflessione porta alla “preoccupazione per l’avvenire tenendo presente il passato”[21]. A questo deve aggiungersi un altro aspetto, infatti
“si comprese che la privazione, il soffrire, non provengono immediatamente necessariamente dal non-avere, bensì in primo luogo dal voler-avere senza ottenere quel che si vuole. […] Solo la speranza, il bisogno e il desiderio[22]producono e tengono vivo il desiderio. […] Da tutto questo si ricava che ogni felicità è basata soltanto sul rapporto fra le nostre pretese e ciò che otteniamo”[23].
Il dolore, la sofferenza, oltre che dalla consapevolezza, nascono dagli obiettivi che ognuno pretende di conseguire, e questo è strettamente legato alla capacità di guardare al futuro; tuttavia, a meno che non si cerchi di sospendere la volontà, come auspica Schopenhauer, non sembra ci sia una soluzione a questa tendenza dell’uomo: finché infatti la volontà avrà il sopravvento su esso, questo sarà sempre teso al futuro in maniera inevitabile, in quanto questo dipende dalla sua natura di essere razionale, che coniuga il volere con i motivi astratti, in-attuali.
È interessante notare qui una analogia con un passo di Herzen, secondo cui “il pensiero [attribuito da Schopenhauer alla ragione] vuole subito, gli è odioso aspettare, ma la vita indugia […]. Donde la tragica condizione di chi pensa…”[24]. Questa considerazione conduce il discorso ad un’altra questione, fonte di contrasto tra la tesi di Schopenhauer e quella di Herzen.
Come si è visto, la ragione è ciò che per Schopenhauer distingue l’uomo dagli altri animali, e gli è connaturata; Herzen invece attribuisce la condizione tragica dell’uomo sempre alla ragione, ma affermando che questa “non esiste né nella natura, né fuori della natura, occorre raggiungere, accordare con essa la vita”[25]; la ragione quindi più che come una facoltà naturale dell’uomo è intesa qui come qualcosa di innaturale, frutto della “vita artificiale”, nelle parole di Herzen; è qualcosa che quindi avrebbe potuto anche non essere presente, o essere meno sviluppata di come invece è. L’uomo infatti nascerebbe uguale ad una “bestia”, per poi allontanarsene con lo sviluppo e con la presa di coscienza.
La tesi offerta di Schopenhauer è invece profondamente diversa: la differenza tra animale e uomo è una differenza intrinseca e inestirpabile, e anche laddove l’uomo raggiunga la tranquillità, questa non sarà mai paragonabile alla spensieratezza dell’animale: dalla presenza della ragione “proviene quella tranquillità dell’uomo, così diversa dalla spensieratezza dell’animale”[26]. La s-pensieratezza infatti deriva dalla mancanza di pensieri, risultato della mancanza della capacità di astrazione degli animali; la tranquillità dell’uomo invece non deriva dalla mancanza di pensieri, ma è frutto di un determinato tipo di pensieri e riflessioni, che inducono l’uomo a quello stato, profondamente diverso da qualsiasi cosa presente in natura.
Alla luce di quanto detto e della quantità di temi solo sfiorati, si può comprendere come il tendere al futuro dell’uomo non sia frutto di cattive abitudini, che è possibile rimuovere, ma è qualcosa di connaturato. Per quanto razionalmente ognuno dica a se stesso e agli altri di vivere il presente, di cogliere l’attimo, conscio che sia la cosa più giusta da fare, finisce inevitabilmente a guardare al futuro, tralasciando spesso il presente: con una metafora, l’uomo avrà sempre doppia cittadinanza, una di diritto nel presente e una di fatto nel futuro.
[1] A. Herzen, “Dall’altra sponda”, p.74, Adelphi, Milano 1993
[2] ivi, p. 71
[3] ivi, pp. 74-75
[4] Quinto Orazio Flacco, Odi, I, 11
[5] ivi, p. 76
[6] ivi
[7] ivi, 77
[8] ivi, 79
[9] cfr. Herzen, p. 77
[10] ivi, p. 166
[11] D. Hume, Trattato sulla natura umana, p. 849, Bompiani, Milano-Firenze 2020
[12] Quando Hume parla di immaginazione, “ intende una facoltà naturale, che ha il potere di traspare e di cambiare le dee, e si occupa principalmente di formare idee complesse. […] L’immaginazione è affetta da ciò che è contiguo più che non da ciò che è remoto; passa dalle idee oscure a quelle vivaci; e coperte un’idea in un’impressione per simpatia” da p. 1261 “Glossario”, in Trattato sulla natura umana, D. Hume, Bompiani
È quindi la facoltà che trasforma una idea, in questo caso futura, in una passione, ovvero in una impressione secondaria. Si noti che la differenza tra idee e impressioni consiste proprio nel livello di vividezza.
[13] ivi, p. 851
[14] ivi
[15] ivi
[16] ivi, p.853
[17] ivi
[18] A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, pag 70. Einaudi, Torino , 2013
[19] cfr, Il mondo, pp. 147-148
[20] ivi
[21] A. Schopenhauer, Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, p.155, Mondadori, Milano, 2018
[22] Sulla connessione tra desiderio, speranza e futuro, si guardi per esempio “Le passioni dell’anima” di Cartesio, artt. LVII-LVIII o “L’etica” di Spinoza, parte III
[23] A. Schopenhauer, Il mondo, pp. 133-134
[24] A. Herzen, “Dall’altra sponda” p. 83
[25] ivi, p. 79
[26] A. Schopenhauer, Il mondo, p. 131